Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32851 del 04/06/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 32851 Anno 2014
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: ZAMPETTI UMBERTO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
D’AMICO GENNARO N. IL 17/07/1974
avverso l’ordinanza n. 7877/2012 TRIB. LIBERTA’ di NAPOLI, del
16/12/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. UMBERTO ZAMPETTI;
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Data Udienza: 04/06/2014

Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza in data 16.12.2013 il Tribunale di Napoli, costituito ai sensi
dell’art. 309 Cod. proc. pen., rigettava l’istanza di riesame proposta da Gennaro
D’Amico avverso l’ordinanza 19.09.2013 del Gip dello stesso Tribunale con la quale
era stata disposta nei suoi confronti la misura cautelare della custodia in carcere.Gennaro D’Amico è indagato per concorso nel duplice omicidio pluriaggravato
di Vincenzo Rinaldi e Luigi De Marco, nonché nei contestuali tentati omicidi di

Ferdinando Striano e Francesco Argentato, fatti commessi il 28.03.1996 cui avrebbe
partecipato con il ruolo di specchiettista, nonché nei connessi reati in materia di
armi.Il Tribunale rievocava dapprima il contesto in cui maturò l’azione delittuosa,
come emerso da plurime collaborazioni di ex affiliati ai vari clan, ormai confluite in
accertamenti giudiziari definitivi; in particolare, all’epoca, si evidenziava il contrasto
tra il cartello dei clan Sarno-Misso-Mazzarella da un lato e quello Rinaldi dall’altro,
soprattutto per il controllo delle attività criminali nel territorio di San Giovanni a
Teduccio. In tale quadro la famiglia D’Amico, già associata ai Rinaldi, si era girata
avvicinandosi ai Sarno (risultando, all’epoca, doppiogiochista). Allorché il gruppo
dirigente Sarno-Mazzarella decise l’eliminazione dei componenti del gruppo Rinaldi,
si fece ricorso alla famiglia D’Amico che, mantenendo ancora posizione ambigua,
poteva non destare sospetti sulle vittime.Ciò posto, l’addebito per il plurimo fatto di sangue, vede in posizione di
mandanti Vincenzo Sarno e Vincenzo Mazzarella, di esecutori materiali Fabio
Caruana, Ciro Giovanni Spirito (che spararono) e Vincenzo Siervo (che guidava
l’auto Fiat Tipo usata per la spedizione) e Gennaro D’Amico quale specchiettista,
avendo individuato le vittime e riferito la loro localizzazione.Tale quadro di massima emergeva -come detto- da plurime e convergenti
propalazioni collaborative; quanto alla posizione specifica dell’odierno ricorrente, il
Tribunale rilevava come il suo ruolo, in modo individuale, fosse stato
attendibilmente descritto dalle dichiarazioni di Vincenzo Sarno, mandante, di Ciro
Spirito, autore diretto degli omicidi, e di Vincenzo Battaglia, de relato da Vincenzo
Siervo, quest’ultimo anch’egli partecipe diretto alla spedizione omicidiaria. Non era
elemento negativo, poi, il fatto che il Caruana, pure lui autore dei delitti e
collaboratore di giustizia, non avesse parlato del ruolo di Gennaro D’Amico,
circostanza che doveva attribuirsi a mero, e comprensibile, difetto di memoria sullo
specifico punto, posto che altro collaboratore, Felice Mutone, aveva riferito di avere
appreso proprio dal Caruana che filatore (o specchiettista) era stato Gennaro
1

D’Amico. Assolutamente analoga era poi la dichiarazione di altro collaboratore,
Ferdinando Adamo, che parimenti aveva riferito di avere appreso dallo stesso
Caruana che specchiettista era stato Gennaro D’Amico. Confluivano poi, nello stesso
senso, le dichiarazioni di plurimi collaboratori che avevano riferito del ruolo della
famiglia D’Amico nella vicenda.Doveva concludersi pertanto -riteneva il Tribunale- per la sussistenza di gravi
indizi di colpevolezza, essendo del resto pacifico che la partecipazione al fatto di
sangue con il descritto ruolo comportasse concorso a pieno titolo nei reati come

ascritti.Pacifica, altresì, la ricorrenza di entrambe le aggravanti contestate, la
premeditazione (attese la lunga preparazione e due riunioni deliberative ed
organizzative) ed ex art. 7 L. 203/91, trattandosi di reati commessi per
predominanza mafiosa sul territorio.Quanto alle esigenze cautelari, le stesse erano correttamente fondate sulla
straordinaria gravità del fatto e sulla negativa personalità dell’indagato, immerso in
un contesto camorristico, di tal che non si rendeva adeguata misura meno rigorosa
della imposta custodia cautelare.2.

Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto

indagato che motivava l’impugnazione deducendo violazione di legge e vizio di
motivazione, in particolare argomentando -in sintesi- nei seguenti termini :
il Tribunale non aveva approfondito le discrepanze rilevabili tra i narrati dei vari
collaboratori su aspetti non secondari; il Caruana, esecutore materiale, non aveva
indicato il nome di esso ricorrente quale partecipe con ruolo di specchiettista; non
era stata mai esplicata con precisione e dettaglio la condotta specifica svolta;
neppure il ruolo di filatore pare ragionevole in concreto, posto che il gruppo preso di
mira era in una piazza e quindi ben visibile.Considerato in diritto
1. Il ricorso, manifestamente infondato in tutte le sue articolazioni, deve essere
dichiarato inammissibile con ogni dovuta conseguenza di legge.2. Ed invero il tribunale del riesame ben ha esaminato -contrariamente all’errato
assunto del ricorrente- tutte le risultanze, svolgendo giudizio logico e coerente,
nonché conforme ai principi normativi e giurisprudenziali in materia. Va dunque
ricordato come siano state dapprima vagliate attendibilità intrinseca e credibilità
soggettiva delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie dei numerosi collaboratori di
2

giustizia che hanno fornito informazioni probatorie sulla vicenda, nonché la loro
confluenza individualizzante sostanzialmente univoca sul D’Amico, odierno
ricorrente. Costui, come è reso evidente dalla precedente narrativa, è raggiunto,
per il grave episodio delittuoso per cui è processo, da due chiamate in correità
dirette (Sarno, mandante, e Spirito, esecutore materiale) e da tre chiamate

de

relato da esecutori materiali (Battaglia, Mutone ed Adamo che ricevono notizie sulla
partecipazione del D’Amico e sul suo ruolo da Siervo e Caruana); a tale quadro
accusatorio, decisamente denso e pregnante, si aggiungono le dichiarazioni, più

generiche, ma altamente significative, sul ruolo della famiglia D’Amico nella vicenda
specifica e nelle dinamiche criminali del momento. Si tratta quindi di un complesso
probatorio univoco e specifico, in funzione di reciproco riscontro, tale da soddisfare
ampiamente gli standard valutativi richiesti per le chiamate in correità. Alta valenza
logica assume invero la circostanza, ben spiegata dai collaboratori, che ruolo di
filatore (o specchiettista) nell’impresa omicidiaria poteva assumere proprio un
componente della famiglia D’Amico, già vicina ai Rinaldi (obbiettivo dell’assalto),
ma recentemente girata con i Sarno, perché da un lato meglio conosceva abitudini
ed ambienti delle vittima, dall’altro non destava sospetti e poteva così accedere nel
territorio avverso.Ciò posto, le gracili deduzioni del ricorrente non hanno pregio alcuno.Non risultano discrepanze su elementi essenziali della vicenda, quanto al ruolo
del ricorrente, mentre le difformità proposte dall’atto di impugnazione, peraltro
marginali nel quadro complessivo, non toccano la sua posizione.Il Tribunale ha dato ragionevole spiegazione del fatto che Caruana, esecutore
materiale, non abbia parlato del D’Amico quale concorrente nel delitto; egli però ne
ha parlato con il Mutone e con l’Adamo che lo hanno riferito; non vi può essere
incertezza, dunque, sul punto (comunque probatoriamente coperto da tutte le altre
risultanze).Il ruolo concreto di specchiettista è stato spiegato ed ampiamente giustificato
quale necessario alla concreta azione come pianificata; il fatto che il gruppo delle
vittime sia stato colto in un momento in cui si trovava in un luogo aperto (una
piazza di San Giovanni a Teduccio) nulla toglie alla necessità di un elemento che
svolgesse tale funzione finalizzata all’esecuzione, giacché non si potevano
conoscere a priori gli spostamenti del gruppo rivale, e dato che tale individuazione
fu proprio il risultato del lavoro indagatorio dello specchettista, e cioè di Gennaro
D’Amico.L’ordinanza impugnata è dunque del tutto immune dai denunciati vizi.3

3. In definitiva il ricorso, manifestamente infondato in ogni sua deduzione, deve
essere dichiarato inammissibile ex artt. 591 e 606, comma 3, Cod. proc. pen.- Alla
declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue

ex lege, in forza del

disposto dell’art. 616 Cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua,
di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende, non esulando profili
di colpa nel ricorso palesemente infondato (v. sentenza Corte Cost. n. 186/2000).Deve seguire altresì la comunicazione prevista dall’art. 94, comma 1 ter, Disp.

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P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 (mille) in favore della
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