Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32744 del 10/07/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 32744 Anno 2014
Presidente: DUBOLINO PIETRO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Lecce, sezione
distaccata di Taranto

avverso la sentenza del Giudice di pace di Taranto del 26/04/2013
emessa all’esito del processo celebrato nei confronti di

Roberti Antonio, nato a Taranto il 04/10/1983

Roberti Cosimo, nato a Taranto il 23/08/1961

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Aurelio Galasso, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della
sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 10/07/2014

1. Con sentenza del 26/04/2013, il Giudice di pace di Taranto dichiarava non
doversi procedere nei confronti di Antonio e Cosimo Roberti (imputati dei delitti
di minaccia e lesioni personali in danno di Sami Abdelhedi), ritenendo estinti i
reati per remissione di querela. In motivazione, il giudicante segnalava che dal
comportamento concludente della persona offesa doveva desumersi la volontà
della stessa di conciliare la lite, con conseguente remissione tacita della
precedente istanza punitiva: a riguardo, riteneva che ciò fosse da intendere
perfezionato «in seguito alla notifica del verbale d’udienza alla parte offesa del

volontà a conciliare la lite e, quindi, a rimettere tacitamente la querela, tenendo
conto del relativo avviso dato dal magistrato alla stessa parte offesa nel citato
verbale d’udienza, così come notificato».
Il Giudice di pace segnalava poi che nella fattispecie non poteva assumere
rilievo la norma di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 274/2000, bensì quella prevista dal
successivo art. 29, i cui commi 4 e 5 avrebbero dovuto interpretarsi nel senso
della obbligatorietà di promuovere tentativo di conciliazione, al contempo non
richiedendosi forme peculiari: con il risultato di dover considerare certamente
rituale una ipotesi di conciliazione tacita.

2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il
Procuratore generale territoriale, deducendo con motivo unico l’erronea
applicazione dell’art. 152 cod. pen.
Ad avviso del Pubblico Ministero ricorrente, la mancata comparizione del
querelante nel processo non può costituire fatto incompatibile con la volontà di
persistere nel proposito di perseguire il querelato, neppure quando vi sia stato
previo avviso circa la possibilità di interpretare tale comportamento quale tacita
remissione: ciò in ossequio agli insegnamenti delle Sezioni Unite (Cass., Sez. U,
n. 46088 del 30/10/2008, Viele), secondo cui a conclusioni diverse potrebbe
pervenirsi solo nella eccezionale e diversa ipotesi della citazione a giudizio
promossa con ricorso della stessa persona offesa. La tesi del P.g. è che non
potrebbe riconoscersi alcuna rilevanza alla “conciliazione tacita” pure evocata
nella sentenza gravata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è fondato.
Con la sentenza sopra richiamata, le Sezioni Unite di questa Corte hanno
affermato che «nel procedimento davanti al Giudice di pace instaurato a seguito

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25/01/2013, la cui assenza nel successivo corso del giudizio va considerata come

di citazione disposta dal P.M., ex art. 20 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, la
mancata comparizione del querelante – pur previamente avvisato che la sua
assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della remissione tacita
della querela – non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere
nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai sensi dell’art. 152, comma
secondo, cod. pen.».
Nel caso in esame, la citazione era stata disposta per atto del Pubblico
Ministero, e non su impulso diretto della stessa persona offesa (ipotesi, questa,

e diverse disposizioni); il 25/01/2013, preso atto dell’assenza dell’Abdelhedi, il
Giudice di pace aveva ordinato il rinvio al successivo 26 aprile “con l’espresso
avviso alla persona offesa che in caso di mancata comparizione all’udienza
prefata la lite si considererà conciliata ai sensi dell’art. 29 co. 5 d.lgs. n.
274/2000, con rinuncia all’istanza di punizione e conseguente remissione tacita
di querela. Avvertimento che tuttavia, in ossequio alle indicazioni del massimo
organo di nomofilachia, deve intendersi dato inutiliter.
I commi 4 e 5 del citato art. 29, evocati nella sentenza oggetto di ricorso,
recitano infatti che “il giudice, quando il reato è perseguibile a querela,
promuove la conciliazione tra le parti. In tal caso, qualora sia utile per favorire la
conciliazione, il giudice può rinviare l’udienza per un periodo non superiore a due
mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell’attività di mediazione di centri e
strutture pubbliche o private presenti sul territorio. In ogni caso, le dichiarazioni
rese dalle parti nel corso dell’attività di conciliazione non possono essere in alcun
modo utilizzate ai fini della deliberazione”; “in caso di conciliazione è redatto
processo verbale attestante la remissione di querela o la rinuncia al ricorso di cui
all’articolo 21 e la relativa accettazione. La rinuncia al ricorso produce gli stessi
effetti della remissione della querela”.
Il giudicante, in definitiva, ha ritenuto di procedere al tentativo di
conciliazione, nelle peculiari forme anzidette, sul presupposto che la legge
prescriva l’obbligo di darvi corso; ma la giurisprudenza di questa Corte ha già
chiarito che «la previsione di cui all’art. 29, comma quarto, D.Lgs. n. 274 del
2000 – per la quale “il giudice … promuove la conciliazione tra le parti” – non
sfugge alla discrezionalità del giudice, il quale, intanto darà corso alla
conciliazione, in quanto ritenga che essa sia possibile; ne consegue che, qualora
il querelante non compaia e, comunque, non dia segni di disponibilità alla
conciliazione ed in analoga situazione versi il querelato, il quale può avere
autonomo interesse all’accertamento negativo di responsabilità, il mancato
espletamento del tentativo di conciliazione non può essere censurato, poiché, in
caso contrario, si attribuirebbe alla norma una funzione dilatoria, inconciliabile

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cui gli artt. 28, comma 3, e 30, comma 1, d.lgs. n. 274/2000 dedicano specifiche

con il principio di economia processuale che la ispira» (Cass., Sez. V, n. 4002 del
06/12/2004, Cardone, Rv 231290; nello stesso senso, più di recente, v. Cass.,
Sez. V, n. 39401 del 06/07/2012, Ilardi).
Né pare condivisibile la considerazione del Giudice di pace circa la non
necessità, ai sensi dell’art. 29, di formule od atti sacramentali per attestare una
volontà conciliativa della persona offesa. In vero, se la legge richiede che debba
esservi un autonomo verbale per documentare sia la remissione di querela, sia la
rinuncia al ricorso di cui all’articolo 21 (e relative accettazioni), ciò comporta che

comunque esperito: è chiaro che non vi sarà bisogno di un atto ad hoc ove la
volontà dei protagonisti venga manifestata in udienza e riportata nel relativo
processo verbale, ma non sembra esservi spazio alcuno per consentire al giudice
di desumere aliunde quella stessa volontà, sia pure a seguito di presunti
comportamenti concludenti.

P. Q. M.

Annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame al Giudice di pace di
Taranto.

Così deciso il 10/07/2014.

quel regime formale dovrà riguardare l’esito del tentativo di conciliazione,

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