Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32728 del 11/03/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 32728 Anno 2014
Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: BRUNO PAOLO ANTONIO

Data Udienza: 11/03/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Stefano Minotto e Fulvio Spinazzé, assieme ad altri, erano chiamati a
rispondere, innanzi al Tribunale di Pordenone, dei reati di seguito indicati:
A) concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale nonché
bancarotta semplice pluriaggravata, ai sensi degli artt. 216 comma 1, nn. 1) e 2) e
comma 2 n. 4), 223 comma 1, 224, 219 commi 1 e 2 n. 1) legge fall. e 2621 cod.

civ. perché agendo in concorso tra loro ed anche con azioni indipendenti,

lo

Spinazzé, quale presidente sino al 5 febbraio 1997 e quindi amministratore unico
sino al 31 luglio 1998, sostanzialmente “uomo di fiducia” del Minotto;
quest’ultimo, quale proprietario attraverso altra persona, della quota di
maggioranza nonché amministratore di fatto ed autore di tutte le importanti scelte
gestionali della Data Shop s.r.I., con sede in Pordenone, società operante nel
settore del commercio all’ingrosso ed al dettaglio di apparecchiature elettroniche,

distraevano beni e denaro della società sino a creare un ammanco ingiustificato non
inferiore a £ 3.594.738.924 e, comunque, compivano le operazioni di distrazione
e/o dissipazione del patrimonio sociale specificamente indicate, anche attraverso la
dissipazione e/o distrazione dì somme consistenti nelle perdite da fusione maturate
dalle incorporate società Data Shop Ts.r.l. e Data Shop Padova s.r.l. ;
sottraevano, al fine di procurarsi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai
creditori, la quasi totalità dei libri e delle scritture contabili della fallita che solo
successivamente, in data 24 marzo 1999, venivano rinvenuti e sequestrati dalla
Guardia di Finanza di Terracina in luogo estraneo alla sede sociale e, comunque,
tenevano i libri e scritture contabili in guisa da non rendere possibile la
ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, a causa dell’assenza in
particolare di gran parte dei conti di mastro relativi agli esercizi 1996, 1997 1998,
del libro di magazzino, del libro dei cespiti ammortizzabili della fallita, nonché dei
conti di mastro del 1997, del libro giornale del 1996, 1997, del libro di magazzino e
del libro dei cespiti ammortizzabili della Data Shop Padova s.r.l. e del libro di
magazzino e del libro dei cespiti ammortizzabili della Data Shop Ts.r.I., (entrambe
società incorporate dalla fallita a seguito di operazioni di fusione societaria); in
particolare, poi apparendo del tutto impossibile la ricostruzione delle scorte di
magazzino;
cagionavano o concorrevano a cagionare il dissesto della società con le condotte
specificamente indicate, di cui all’art. 2621 cod. civ.;
aggravavano il dissesto della società, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di
fallimento e ciò benché essa si trovasse in stato di insolvenza conclamata, a partire
dalla fine dell’anno 1995 ed alla data di approvazione del bilancio al 31 marzo 1996
si fosse verificato l’azzeramento del capitale con perdite; con le aggravanti di avere
cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità e di avere commesso più fatti
di bancarotta.
Con sentenza del 21 febbraio 2006, il Tribunale dichiarava gli imputati colpevoli
di reati loro rispettivamente ascritti, esclusa la distrazione dell’autovettura indicata
in rubrica, riconosciute a tutti le attenuanti generiche, dichiarate per lo Spinazzé ed
il Minotto equivalenti alle contestate aggravanti, condannava il Minotto alla pena di

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dichiarata fallita da quello stesso Tribunale con sentenza del 29 settembre 1998:

anni quattro e mesi quattro di reclusione, lo Spinazzé a quella di anni tre e mesi sei
di reclusione, oltre consequenziali statuizioni.
Pronunciando sui gravami proposti degli imputati, la Corte d’appello di Trieste,
con la sentenza indicata in epigrafe, riformava in parte la sentenza impugnata,
dichiarando non doversi procedere nei confronti dello Spinazzé e del Minotto in
ordine al delitto di cui al capo A4) per essere i reati estinti per prescrizione e,
conseguentemente, rideterminava la pena inflitta al primo nella misura di anni tre

reclusione; confermava nel resto.

2. Avverso l’anzidetta pronuncia il difensore di Stefano Minotto, avv. Salvatore
Capomacchia, ed il difensore di Fulvio Spinazzé, avv. Vincenzo Grosso, hanno
proposto distinti ricorsi per cassazione, ciascuno affidato alle ragioni di censura di
seguito indicate.
Con il primo motivo del ricorso in favore del Minotto si lamenta mancanza,
contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione nonché travisamento del
fatto, ai sensi dell’art. 606 lett. e); ed ancora inosservanza della legge penale ai
sensi dello stesso art. 606 lett. b), in relazione all’art. 2639 cod.civ., relativamente
alla parte della motivazione che aveva attribuito all’imputato la qualifica di
amministratore di fatto della Data Shop s.r.l.. Si duole, in particolare, che non siano
state accolte le censure espresse dall’odierno ricorrente, che aveva rilevato come
allo stesso spettasse solo il ruolo di direzione e controllo quale socio di maggioranza
della fallita nonché amministratore di Hi Tech s.r.I., che costituiva il principale, se
non l’unico, fornitore della Data Shop s.r.l. Il rilievo difensivo era stato contraddetto
dal giudice di appello con riferimento alla deposizione testimoniale di Favret, che
era stata travisata nel suo reale contenuto. Dalla testimonianza, risultavano, infatti,
soltanto il legittimo ruolo di direzione e coordinamento propri del socio di
maggioranza nonché quella legittima sfera di influenza sul piano commerciale,
tipica del fornitore unico; già sul piano logico-astratto poteva cogliersi la differenza
tra l’esercizio di una legittima influenza sul piano commerciale da parte del
principale unico fornitore ed il compimento di significativi e continuativi atti di
gestione, rivelatori di amministrazione di fatto. Inoltre, la difesa aveva, inutilmente,
rilevato che, parallelamente all’assenza di qualsivoglia atto gestionale oggettivo
riferibile all’imputato, vi era un evidente esercizio di potere gestionale da parte di
altra persona, il Furlanetto, che peraltro rivestiva la carica formale di consigliere di
amministrazione. La risposta motivazionale del giudice a quo era intrinsecamente
contraddittoria nell’assumere che, se era vero che il Furlanetto era il responsabile
dell’attività commerciale, oltre a rivestire il ruolo formale di consigliere di
amministrazione, la detta circostanza non escludeva la possibilità che esistesse
anche altro amministratore, senza neppure considerare che la detta persona non
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mesi quattro di reclusione e quella inflitta alla secondo in anni quattro mesi due di

era stata neppure indagata. Era, inoltre, illogico riferirsi al fatto che il Furlanetto si
fosse dimesso perché non condivideva gli indirizzi della proprietà, in quanto tale
circostanza non poteva che essere sinonimo di piena autonomia
dell’amministratore; in una società il consiglio di amministrazione era sempre
espressione della volontà della proprietà, ragione per cui, se gli indirizzi strategici
voluti da quest’ultima non trovavano riflesso nell’opera dell’organo amministrativo,
era ovvio che quest’ultimo era tenuto a dimettersi, ma questo però non poteva

ordine al fatto che l’imputato fosse amministratore di fatto; per la configurazione
del relativa qualità non era sufficiente, secondo pacifica interpretazione
giurisprudenziale, una generica ingerenza nell’attività sociale, ma occorreva in
concreto il continuo esercizio delle funzioni proprie dell’amministratore.
Con il secondo motivo si eccepisce inosservanza della legge penale, ai sensi
dell’art. 606 lett. b) con riferimento agli artt. 216 e 223 legge fall. Si contesta, in
particolare, la ritenuta sussistenza dei presupposti del reato di bancarotta
fraudolenta documentale. Osserva, in particolare, che non avrebbe potuto ritenersi
sussistente il reato in questione per il solo fatto che le scritture contabili fossero
tenute in luogo diverso da quello indicato in sede tributaria. Nel caso di specie, le
scritture contabili sono state rinvenute in Terracina, via Antonelli n. 14, luogo
diverso dalla sede della società (in Terracina, via Appia 284), ma nel quale erano
presenti alcuni beni della fallita, secondo le dichiarazioni rese da un coimputato al
curatore fallimentare, che aveva indicato quel luogo come sede di negozio della
società fallita. Insussistente era anche il profilo psicologico, essendo evidente che se
l’intento fosse stato quello di sottrarre le scritture, certamente gli amministratori le
avrebbero portate in luogo diverso da quello segnalato al curatore. Era significativo,
inoltre, che il giudice di appello non abbia motivato sulla diversa fattispecie di
bancarotta documentale, indicata nel capo d’imputazione, ossia l’omessa regolare
tenuta delle scritture contabili, che, nel caso di specie, erano tenute in modo
ordinato e regolare. La mancanza di scritture contabili delle società incorporate non
era imputabile alla società fallita in quanto le scritture mancanti si riferivano a fatti
antecedenti alla fusione, che pertanto non poteva essere imputato alla fallita. La
riunificazione della personalità giuridica delle società acquisite in quella della
società incorporante, effetto civilistico del procedimento di fusione, non comportava
un’automatica trasmissione in capo gli amministratori della incorporante di condotte
ragionevolmente ascrivibili (omessa tenuta) agli amministratori della controllata,
pena una evidente violazione del principio di personalità della responsabilità penale
di cui all’art. 27 Cost.
Con il terzo motivo si denuncia inosservanza della legge penale, ai sensi
dell’art. 606 lett. b), con riferimento agli articoli 216 223 comma1 legge fall. e 2504
bis e 2505 cod. civ.; mancanza contraddittorietà o manifesta illogicità della
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significare che la proprietà amministrava l’ente. Non vi era, dunque, prova alcuna in

motivazione, ai sensi dell’art. 606 lett. e) del codice di rito, in relazione alla
dissipazione da fusione per incorporazione. Nessuna prova, al riguardo, era stata
fornita in ordine all’oggetto della pretesa distrazione o dissipazione da parte degli
amministratori della Data Shop srl per effetto dell’operazione di fusione posta in
essere. L’operazione di fusione era lecita civilisticamente e non aveva determinato
alcuna dissipazione, contrariamente all’assunto del giudice di appello. Non vi erano
comunque elementi sufficienti per l’affermazione di colpevolezza dell’imputato oltre

Con il quarto, si deduce inosservanza di norme processuali e difetto di
motivazione, ai sensi dell’art. 606 lett. b) c) ed e) con riferimento agli artt. 223 e
216, comma 1 legge fall. e 2621 cod.civ., con riferimento alla contabilizzazione di
intervento di sopravvenienza di £ 675 milioni.
Con il quinto motivo si deduce difetto di motivazione con riferimento alla
contestata distrazione dell’importo di £ 1.538.407.2
Con il sesto motivo si denuncia inosservanza od erronea applicazione della
legge penale, ai sensi dell’art. 606 lett. b) in riferimento agli articoli 223, comma 1,
e 216 legge fall.
Con il settimo motivo si denuncia inosservanza di norme processuali stabilite
appena di nullità, ai sensi dell’art. 606 lett. c) con riferimento alla violazione degli
artt. 521, 522 e 604 del codice di rito; nonché difetto di motivazione sul punto, con
riferimento alla pretesa distrazione o dissipazione degli arredi e mobili d’ufficio della
società ceduti alla Bitware per valore imprecisato e comunque non inferiore a
£79.500.000. La violazione del principio della contestazione risiederebbe nel fatto
che in rubrica si ipotizzava la svendita, ove invece il giudice di appello aveva
riscontrato un mancato incasso e la parziale compensazione di un controcredito
vantato dalla Bitware, che per la restante parte avrebbe poi proposto istanza di
insinuazione al passivo, poi rigettata dal curatore perché non v’era prova alcuna
(donde, l’asserita inesistenza di tale preteso controcredito).
Con il primo motivo del ricorso in favore di Spinazzé si denuncia difetto di
motivazione con riferimento alla qualificazione del ruolo svolto dall’imputato ed alle
conseguenti condotte a lui attribuite, in relazione all’ipotesi delittuosa di bancarotta
fraudolenta patrimoniale e documentale (di cui ai capi Al): dissipazione da fusione
per incorporazione; distrazione dell’importo di £ 1.538.407.228; dissipazione
derivanti dall’acquisto del ramo d’azienda della A.C.& C.; distrazione dei beni ceduti
alla Bitware; A2) bancarotta documentale fraudolenta; A3) sopravvenienze di £
75.000.000). Contesta, in particolare, l’attribuzione ad esso ricorrente della qualità
di coordinatore del Minotto, in contrasto con quanto i giudici di appello avevano,
prima, affermato in ordine al fatto che lo stesso Minotto fosse il solo a decidere
tutte le operazioni commerciali e le strategie della Data Shop, quale amministratore
di fatto. Univoche risultanze processuali, alla luce di concorde dichiarazioni
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il ragionevole dubbio.

testimoniali, indicavano l’imputato come amministratore soltanto formale, con il
ruolo di “corriere”, ovvero trasportatore di merce per effetto della collocazione
logistica delle diverse società Data Shop a Pordenone„ Hitech e Bitware a Parma.
Con il secondo motivo si denuncia inosservanza, erronea applicazione della
legge penale in relazione alla ritenuta responsabilità ex art. 216 legge fall.
all’imputato, con riferimento ai capi di imputazione riportati rubrica. Si contesta, in
particolare, l’insieme argomentativo in forza del quale è stato ritenuto che

nessuna prova esisteva in ordine all’elemento soggettivo.
Con il terzo motivo si eccepisce inosservanza od erronea applicazione della
legge penale, con riferimento al reato di cui all’art. 216 legge fai!. in ordine al capo
Al) riguardante la dissipazione da fusione per incorporazione; nonché difetto di
motivazione o illogicità manifesta della motivazione.
Con il quarto motivo si eccepisce inosservanza, erronea applicazione della legge
penale in relazione al quantum di pena inflitto, con riferimento alla ritenuta
equivalenza delle attenuanti generiche, che, invece, avrebbero dovuto essere
dichiarate prevalenti.

2. Una succinta puntualizzazione in fatto, alla stregua della convergente
ricostruzione della vicenda sostanziale, così come risulta dalle sentenze di primo e
secondo grado, costituisce necessaria premessa all’esame dei motivi di gravame,
onde consentirne compiuta contezza ai fini di corretto inquadramento e valutazione.
Si inizierà col dire che la società fallita è la

Data Shop srl, con sede in

Pordenone, società operante nel settore del commercio all’ingrosso ed al dettaglio di
apparecchiature elettroniche, di cui Spinazzé era presidente ed amministratore
unico per un certo periodo di tempo; mentre il Minotto era ritenuto proprietario di
fatto. La società anzidetta aveva, ad un certo punto, incorporato altre due società
dello stesso gruppo, facenti capo agli imputati: la Data Schopo T s.r.l. e la Data
Schop Padova s. r. I .
La distrazione avrebbe riguardato beni e denaro della società sino a creare un
deficit ingiustificato non inferiore a lire 3.594.738.924 e si sarebbe, comunque,
articolata attraverso le condotte specificamente indicate in rubrica, nei termini ivi
riportati.
Parimenti, la bancarotta fraudolenta documentale sarebbe stata realizzata nei
termini e con le modalità pure in rubrica specificati.
In una parola, all’atto della verifica della polizia tributaria, erano scomparse le
rimanenze di tutte e tre le società interessate, per il ragguardevole importo sopra
indicato; e non era stata rinvenuta la documentazione contabile.
Va, subito, detto che l’ipotizzata distrazione e/o dissipazione si riconnetteva
non tanto alla fusione in sé considerata, quanto, piuttosto, al fatto che, nell’arco di
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l’imputato fosse consapevole delle condotte asseritamente distrattive, ove invece

tempo intercorso dall’approvazione del progetto di fusione sino alla data della
relativa delibera, si erano volatilizzati i beni ed altre utilità delle società interessate
all’operazione.
2.1. Tra gli altri protagonisti della vicenda distrattiva, mette conto, ovviamente,
puntualizzare il ruolo svolto dagli odierni ricorrenti.
Fulvio Spinazzè ha assunto la carica di presidente della società fallita sino al 5
febbraio 1997 e, quindi, amministratore unico sino al 31 luglio 1998.

della complessiva operazione fraudolenta. Inoltre, all’epoca della cessione del ramo
di azienda della A.C.& c. srl (21.1.1997) alla società poi fallita, lo Spinazzé, oltre ad
essere presidente del consiglio di amministrazione della stessa fallita e delle
incorporande Data shop Padova e Data shop Torino, ricopriva anche la carica di
vicepresidente ed amministratore delegato della Hitech, società fornitrice della Data
Shop; era, inoltre, socio accomandatario della società Bitware, cessionaria di beni
della società fallita; sua moglie era, inoltre, amministratore unico e detentrice del
capitale sociale della Power Peripherals, nei confronti della quale la società fallita
vantava un credito ritenuto fittizio, sulla base di precostituita documentazione, sì da
creare un’apparenza di derivazione del relativo importo (pari a £ 1.538.407.228) da
fittizie vendite di merce in favore di un soggetto inesistente.
Minotto, dal canto suo, era proprietario, attraverso la prestanome Marilisa
Furlan, pur essa imputata, della quota di maggioranza della società fallita nonché
amministratore di fatto ed autore di tutte le importanti scelte gestionali della

Data

Shop srl. Era, quindi, non solo l’esclusivo o, comunque, il principale fornitore della
società poi fallita, quale titolare della Hitech, ma, di fatto era anche proprietario,
attraverso la Furlan, del 51% delle quote di quella società.
Gli imputati erano, inoltre, accusati, in concorso tra loro, di aver cagionato o
concorso a cagionare il dissesto della società con le condotte di cui all’art. 2621 cod.
civ., nei termini indicati in rubrica mediante manipolazione del bilancio. Erano,
altresì, accusati, in concorso con altri, di aver aggravato il dissesto della società,
astenendosi dal chiederne il fallimento e ciò benché la stessa versasse in stato di
conclamata sofferenza già a partire dalla fine del 1995 e, poi, alla data di
approvazione del bilancio al 31 marzo 1997, si fosse verificato l’azzeramento del
capitale sociale con perdite dichiarate; con le aggravanti di aver cagionato un danno
patrimoniale di rilevante gravità e di avere commesso più fatti di bancarotta.
La sentenza di primo grado ha dichiarato gli imputati colpevoli di reati loro
ascritti, ad esclusione della distrazione di un’autovettura.
La sentenza di appello, oggi gravata di ricorso, ha dichiarato prescritti alcuni
reati, rimodulando la pena nella misura ritenuta di giustizia.

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Sostanzialmente, era ritenuto “uomo di fiducia” del Minotto, vero deus ex machina

3. Tanto premesso, si osserva, ora, che il primo motivo del ricorso in favore del
Minotto, che dubita dell’idoneità del compendio motivazionale a sostenere l’ipotesi
dell’effettivo coinvolgimento dell’imputato nella vicenda in questione, quale
amministratore di fatto, si pone ai limiti dell’ammissibilità.
Ed invero, l’impianto giustificativo della sentenza impugnata non lascia spazio a
dubbi di sorta in ordine al rilevante ruolo partecipativo svolto dall’imputato,
fortemente interessato alle sorti della società fallita non soltanto come maggiore

fornita, ma anche come titolare di fatto della maggioranza delle quote di quella
stessa società, attraverso l’accertato ruolo fiduciario svolto, per suo conto, dalla
coimputata Furlan. Con apprezzamento di fatto, insindacabile in questa sede in
quanto adeguatamente motivato, i giudici del merito hanno rilevato l’esercizio da
parte del Minotto, di un ruolo gestionale continuativo e significativo, nei termini
richiesti dall’art. 2639 cod.civ.
Privo di fondamento é il secondo motivo, che contesta la ritenuta sussistenza
dei presupposti costitutivi del reato di bancarotta fraudolenta documentale, anche
con riferimento alla dinamica dell’istituto della fusione.
Ed invero, a parte che è obbligo giuridico, per l’amministratore, tenere le
scritture contabili nella sede della società ovvero in altro luogo espressamente
indicato, sia pure ai fini fiscali, il rilievo dell’incompletezza e dell’irregolarità delle
stesse è stato, giustamente, ritenuto decisivo ai fini della statuizione di
colpevolezza.
Per quanto concerne, poi, l’ulteriore profilo, connesso all’essenza precipua ed
agli effetti civilistici della fusione è sufficiente il richiamo alla disposizione dell’art.
2501 septies cod. civ., che prevede il deposito delle scritture contabili nella sede
delle società partecipanti alla fusione per trenta giorni, con facoltà per i soci di
prenderne visione ed estrarne copia. Facoltà questa, il cui mancato esercizio,
giustifica certamente l’imputazione a carico degli amministratori della società
incorporante della mancanza od irregolare tenuta delle scritture contabili della
società incorporata. Ed è certamente questo

il

fondamento giuridico

dell’imputazione, connesso all’onere di preventiva verifica delle scritture contabili
delle società incorporande, al di là dell’argomento metagiuridico addotto dal giudice
di appello sul rilievo che, altrimenti, sarebbe assai agevole utilizzare l’istituto della
fusione per azzerare ogni profilo di responsabilità penale in ordine a fatti di
bancarotta patrimoniale posti in essere dagli amministratori delle società da
incorporare.
Infondata é anche la terza censura, con la quale si contesta il carattere
distrattivo o dissipativo dell’operazione di fusione, rivendicandone la piena
legittimità sotto il profilo civilistico. Ed invero, nel caso di specie, non era certo in

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fornitore, come tale abilitato ad interferire nelle scelte strategiche della società

discussione la piena legittimità dell’operazione societaria di fusione, svolta nel
rispetto delle prescrizioni civilistiche di cui agli artt. 2504 bis e 2505 cod. civ.
E’ appena il caso di osservare, in proposito, che l’istituto civilistico della fusione,
determina un fenomeno di successione in universum ius, analoga alla successione
mortis causa, ossia il subentro della società incorporante nella situazione giuridica
attiva e passiva delle società incorporate. In particolare, le società oggetto della
fusione (in caso di fusione c.d. pura e semplice), oppure la società incorporata (in

cod. civ. e la società che risulta dalla fusione o che ha effettuato l’incorporazione
subentra in qualità di successore a titolo universale nei diritti e nelle obbligazioni
che facevano capo alle società estinte (cfr. tra le tante, Cass. Sez. L, n. 3694 del
09/04/1998, Rv. 514421; Sez 1 civ., n. 9349 del 22/09/1997, Rv. 508171). Si è già
detto però, nella puntualizzazione in fatto, che il connotato distrattivo e dissipativo
è stato, giustamente, attribuito non tanto all’operazione di fusione in sé considerata
– al di là del dato pur significativo che le società incorporande versavano entrambe
in stato di sofferenza economico-finanziaria e che in stato di dissesto si trovava,
sostanzialmente, la stessa società incorporante – quanto piuttosto al rilievo decisivo
che, nelle more del perfezionamento della procedura, fossero scomparse le
rimanenze di tutte tre le società interessate alla fusione, donde l’ipotizzata
strumentalità dello strumento giuridico in questione, al fine evidente di ingenerare
“confusione”, non solo nel patrimonio delle stesse società.
La quarta censura, che involge pur essa rilievi critici in ordine alla
configurabilità delle ipotesi di reato in contestazione, con riferimento all’indicata
sopravvenienza, è inammissibile in quanto implica non consentiti apprezzamenti di
fatto. Sul punto appare, peraltro, ineccepibile la motivazione resa dalla Corte
distrettuale, che, facendo richiamo alle risultanze peritali di primo grado ha
motivatamente ritenuto che la ritenuta sopravvenienza fosse priva di giustificazione
e fosse, dunque, frutto di falsa appostazione in bilancio.
Per identiche ragioni, va rilevata l’inammissibilità del quinto e sesto motivo. In
particolare, per quanto riguarda quest’ultima censura, è infondato il profilo di
doglianza in ordine al difetto di contestazione, posto che è ineccepibile la
motivazione con la quale il giudice di appello aveva rigettato identica eccezione, sul
rilievo che nel capo di imputazione la descrizione del fatto era avvenuta in termini
ampi, considerato che era stata contestata la distrazione o dissipazione di arredi e
mobili di ufficio della società, per un valore imprecisato e comunque non inferiore a
£ 79.500.000, con ampia facoltà di difesa in favore degli imputati. D’altro canto, la
colpevolezza in ordine al relativo capo d’imputazione e stata, correttamente,
affermata sulla base del rilievo che, al di là di ogni apprezzamento sulla congruità
del prezzo di vendita pattuito, non risultava alcun riscontro nelle casse della società
fallita, mentre l’assunto difensivo in ordine ad una pretesa compensazione
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caso di fusione c.d. per incorporazione), si estinguono ai sensi dell’art. 2504 bis

dell’importo della fornitura con un controcredito della società cessionaria Bitware
nei confronti della stessa fallita, era rimasto privo di supporto probatorio.
Vedendo, ora, al ricorso in favore di Spinazzé, non esiste il difetto di
motivazione lamentato con il primo motivo, relativamente al ruolo attribuito
all’imputato con riguardo all’ipotesi delittuosa di bancarotta fraudolenta
patrimoniale e documentale di cui ai capi d’imputazione specificamente indicati.
Ed invero, epurata la censura dagli inammissibili riferimenti in fatto, è

chiaramente, emerso il ruolo non soltanto di testa di legno dell’imputato, ma anche
un significativo ruolo partecipativo nella complessa vicenda oggetto di giudizio, con
riferimento alle specifiche circostanze indicate, argomentatamente ritenute idonee a
sostenere l’ipotesi di un consapevole apporto causale al sistema fraudolento inteso
alla distrazione o dissipazione del patrimonio sociale della società fallita.
Privo di fondamento é anche il secondo motivo che dubita della sussistenza dei
reati in contestazione, quanto meno sotto il profilo psicologico. La struttura
argomentativa in esame non lascia adito a dubbi di sorta in merito alla concludenza
ed idoneità degli assunti giustificativi a dimostrare la piena consapevolezza
dell’imputato riguardo alla natura distrattiva delle condotte oggetto di
contestazione.
Identiche ragioni, che attingono all’accertato coinvolgimento dell’imputato,
valgono ad escludere la fondatezza della terza censura riguardante,
specificatamente, la ribadita colpevolezza in ordine al reato di cui al capo Al
(dissipazione da fusione per incorporazione), risultando idonea, anche sul punto, la
motivazione resa dalla Corte distrettuale.
Infine, il quinto motivo, riguardante l’assetto sanzionatorio, è inammissibile in
quanto implica questione prettamente di merito, insindacabile in questa sede di
legittimità a fronte di compiuta motivazione, che ha spiegato perché la pena inflitta
all’imputato fosse stata ritenuta congrua e perché mai le pur concesse attenuanti
generiche non avrebbero potuto considerarsi prevalenti sulle contestate aggravanti,
avuto riguardo alla gravità e pluralità degli episodi illeciti commessi.

4. Per quanto precede, entrambi i ricorsi – ciascuno globalmente considerato devono essere rigettati nei termini indicati in dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento, singolarmente, delle
spese processuali.
11111~~Irirr

Così deciso il 11/03/2014

DEPOSITATA IN g ELLERIA

sufficiente considerare che dall’insieme motivazionale della pronuncia impugnata é,

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