Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32710 del 16/07/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 32710 Anno 2014
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: CAPOZZI ANGELO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SCHEPIS GIOVANNI N. IL 19/12/1966
SCHEPIS BASILIO N. IL 24/12/1961
avverso la sentenza n. 1615/2009 CORTE APPELLO di MESSINA, del
07/10/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 16/07/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANGELO CAPOZZI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 444t o
/1 6145Te
che ha concluso per ti
Le,3 1-.)4/9 r’S-5

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 16/07/2014

Considerato in fatto e ritenuto in diritto

1.

Con sentenza del 7.10.2013 la Corte di appello di Messina, a seguito
di appello proposto dal P.M. e dagli imputati SCHEPIS Giovanni e
SCHEPIS Basilio avverso la sentenza emessa il 13.3.3009 dal Tribunale
di Messina, dichiarando l’inammissibilità del ricorso del P.M., ha

riconosciuti colpevoli del reato di cui agli artt. 110,56,393c.p. e
condannati a pena di giustizia, riqualificando il fatto quale tentata
estorsione.
2.

Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione gli imputati,
a mezzo del difensore, che deducono:

2.1.

violazione del divieto della reformatio in pejus ex art. 597 co. 3
c.p.p., in ragione della dichiarata inammissibilità del ricorso del P.M., e
con riferimento alla più grave qualificazione del fatto quale tentativo di
estorsione;

2.2.

violazione del contraddittorio , ai sensi dell’art. 6 CEDU e 111
Cost. , in ordine alla riqualificazione del fatto, non essendo stata la
difesa degli imputati preventivamente invitata ad interloquire sul punto.

2.3. violazione degli artt. 629 e 393 c.p., carenza, contraddittorietà
della motivazione rispetto alla ritenuta sussistenza dell’elemento
soggettivo concretizzatosi nel fine «di conseguire un profitto, pur
sapendo di non avere alcun diritto>>, posto che lo SCHEPIS aveva
pagato, per l’acquisto dell’immobile, una somma più alta in virtù di un
errore nella determinazione del prezzo, costituendo il diritto alla
restituzione della somma pagata in eccedenza idoneo a configurare la
fattispecie di cui all’art. 393 c.p..
3.

I ricorsi sono infondati.

4.

Il primo motivo è infondato.

5.

Il divieto di reformatio in peius riguarda unicamente la pena sotto il
profilo sia della specie, sia della quantità della sua complessiva
determinazione. Conseguentemente, se la nuova definizione giuridica
del fatto operato dal giudice di appello non consente, a differenza di
quella originaria, di applicare una causa estintiva del reato, deve
escludersi tale applicazione. La limitazione ai poteri del giudice non è,
infatti, diretta garantire all’imputato un trattamento sotto ogni aspetto
migliore di quello usatogli nel precedente grado, ma solo ad impedirgli di

confermato detta sentenza, con la quale gli imputati sono stati

subire un trattamento sanzionatorio più grave . rispetto a quello inflitto
dal primo giudice (Cass. Sez. 6, n. 1122 del 10/12/1996, Fusco, Rv.
207508; da ultimo, Cass. Sez. 2, n. 26729 del 05/03/2013, Fadda, Rv.
256649 ; Sez. 1, n. 474 del 17/12/2012, Presti, Rv. 254207), essendosi
chiarito da Sez. 3, n. 28815 del 09/05/2008, B., che «I’ art. 597
c.p.p., comma 3, con elencazione tassativa, specifica che, in caso di
appello del solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più

prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella
enunciata nella sentenza appellata, ne’ revocare benefici. Il divieto della
reformatio in peius quindi impedisce un trattamento più grave (nei
termini indicati), ma non garantisce all’imputato un trattamento sotto
ogni aspetto migliore di quello a lui riservato in primo grado. Questa
Corte ha già enunciato il -ffiniiblitt~ principio che se la nuova
definizione giuridica più grave non •consente, a differenza di quella
originaria, l’applicazione di una causa estintiva del reato, il giudice deve
escludere tale applicazione – e la conseguente estinzione del reatoessendo egli legittimato ad attribuire al fatto un diverso e più grave

nomen iuris. Il limite alla reformatio in peius non è infatti diretto ad
attribuire all’imputato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole
rispetto a quello derivante dal precedente grado, ma ha il solo scopo di
impedirgli di subire un trattamento sanzionatorio più severo di quello
riservatogli dal primo giudice (Cass. Pen. sez. 6^ n. 4075 del
17.2.1998). E, più specificamente, in relazione alla applicabilità di
benefici futuri si è affermato che il divieto di revocare i benefici già
concessi “…non può implicare anche un divieto a peggiorare le
condizioni per l’applicazione di altri benefici stante la specifica
definizione legislativa del divieto stesso, inteso come limite ai normali
poteri di cognizione del giudice penale” (Cass. Pen. sez. 3^ n. 2686 del
13.12.1991). Nè sussiste alcuna irragionevolezza della previsione
normativa così interpretata. Il legislatore si è preoccupato, invero, di
consentire, in presenza di un errore del primo giudice in ordine alla
qualificazione giuridica del fatto, al giudice di appello di porvi rimedio e
ciò al fine di garantire una corretta applicazione della legge penale. È
evidente che da una diversa e più grave qualificazione possono derivare
effetti negativi per l’imputato (in termini di impossibilità di applicare
cause estintive o benefici, ed anche sotto il profilo “morale”), ma questa
è una conseguenza necessaria ed inevitabile della facoltà concessa al

grave, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave,

giudice di appello di qualificare diversamente il fatto. Il legislatore
quindi, nel prevedere tale possibilità, ha ritenuto preminente l’interesse
a che la pronuncia emanata sia conforme a diritto».
6.

Così, in conformità al richiamato insegnamento, la Corte territoriale,
fermo restando il trattamento sanzionatorio inflitto dal primo giudice,
non ha violato il divieto di reformatio in pejus, allorchè, dichiarando
inammissibile il ricorso del P.M. e pertanto in presenza della sola valida

diversa e più grave ipotesi estorsiva originariamente contestata
dall’Accusa, escludendo la decorrenza del più breve termine
prescrizionale previsto per la più lieve qualificazione operata dal primo
giudice.
7.

Anche il secondo motivo è infondato.

8.

In tema di correlazione tra accusa e sentenza, il rispetto della regola
del contraddittorio – che deve essere assicurato all’imputato, anche in
ordine alla diversa definizione giuridica del fatto, conformemente all’art.
111, comma secondo, Cost., integrato dall’art. 6 Convenzione europea,
come interpretato dalla Corte EDU – impone esclusivamente che detta
diversa qualificazione giuridica non avvenga ‘a sorpresa’ e cioè nei
confronti dell’imputato che, per la prima volta e, quindi, senza mai avere
la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto
storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali
rispetto all’originaria imputazione, di cui rappresenti uno sviluppo
inaspettato. Ne consegue che non sussiste la violazione dell’art. 521
cod. proc. pen. qualora la diversa qualificazione giuridica del fatto
appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno
sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile e l’imputato ed il suo
difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire
in ordine al contenuto dell’imputazione, anche attraverso l’ordinario
rimedio dell’impugnazione (nella specie proposta avverso la sentenza di
primo grado contenente la diversa qualificazione giuridica del fatto)
(Cass. Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012, Jovanovic e altro, Rv. 254649).

9.

Nella specie non può, quindi, dirsi in alcun modo violato il diritto al
contraddittorio sulla qualificazione giuridica del fatto essendo quella più
grave contestata originariamente dal P.M. ed oggetto dell’appello del
P.M., ancorchè, all’esito del giudizio dichiarato inammissibile.

10.

Quanto al terzo motivo, esso è inammissibile in quanto ripropositivo
di questione di fatto – relativa al presunto errore di calcolo nella

impugnazione degli imputati, ha riqualificato il fatto nell’ambito della

determinazione del prezzo – in ordine al quale l’esame condotto dalla
sentenza gravata deve ritenersi esente da vizi allorquando ne esclude
ogni consistenza e ravvisandosi, invece, la pretestuosità del tema
agitato solo per la esigenza dello SCHEPIS di procurarsi urgentemente
liquidità approfittando della debolezza della persona offesa.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, 16.7.2014.

11.

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