Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32705 del 17/04/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 32705 Anno 2014
Presidente: DI VIRGINIO ADOLFO
Relatore: DE AMICIS GAETANO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
COCCIA MICHELE N. IL 23/01/1983
avverso la sentenza n. 2694/2011 CORTE APPELLO di FIRENZE, del
08/10/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/04/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 42-.9
che ha concluso per ,ti
ih7 ,‘t,e /2.,re

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 17/04/2014

RITENUTO IN FATTO

1.

Con sentenza dell’8 ottobre 2012 la Corte d’appello di Firenze ha

confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Firenze in data 11 marzo 2010,
che condannava Coccia Michele alla pena di mesi sette di reclusione ed al
risarcimento dei danni subiti dalle parti civili Agostino Salatino, Tommaso Cei,
Elena Cantagalli e Gianluca Sollo, rispettivamente sovrintendenti, i primi due, ed
agenti, gli ultimi due, della Polizia di Stato in servizio presso la Questura di
Firenze, ritenendolo responsabile dei reati di cui agli artt. 336 c.p. (capo sub A) e

per avere, al fine di costringere i predetti pubblici ufficiali ad ignorare una
violazione del codice della strada, rivolto loro frasi intimidatorie ed oltraggiose.

2. Avverso la su indicata pronuncia della Corte d’appello ha proposto ricorso
per cassazione il difensore di fiducia dell’imputato, deducendo quattro motivi di
doglianza, il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente riassunto.

2.1.

Inosservanza delle norme processuali in ordine alla richiesta

rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, ovvero alla mancata assunzione di
una prova decisiva, con riferimento all’audizione dei testi addotti dalla difesa,
Tommaso Stefania e Pasquale Di Stolfo, la cui ammissione, sebbene fossero stati
regolarmente citati, veniva erroneamente revocata dal Giudice di prime cure. La
Corte d’appello, pur censurando l’operato del primo Giudice, ne ribadiva la
correttezza sulla base di motivi diversi, evidenziando l’inutilità della rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale, sebbene il tema di prova fosse quello già indicato
nella lista testi e la rilevanza e decisività dell’esame testimoniale richiesto fossero
agevolmente rinvenibili dalla lettura degli atti processuali, per il fatto che i
suddetti testimoni avevano assistito ai fatti oggetto del processo. Ne discende
che la cognizione della Corte d’appello è rimasta circoscritta alla sentenza di
primo grado ed alle sole prove addotte dal P.M., consistenti nelle dichiarazioni
rese dalle persone offese, ossia dai funzionari di P.G. che si sono costituiti quali
parti civili, vantando un palese interesse nell’ambito del processo.

2.2. Violazioni di legge e carenze motivazionali in ordine all’art. 336 c.p. ed

al principio di offensività, avuto riguardo al fatto che, nel caso di specie, emerge
dagli atti processuali che l’imputato, alla vista degli agenti di P.S., manifestò da
subito un atteggiamento ostile e che le parole da lui pronunciate
rappresentavano una mera espressione di volgarità, certamente non finalizzata a
costringere i pubblici ufficiali ad omettere un atto del loro ufficio. Nelle condizioni
1

594, comma 1, 61, n. 10 c.p. (capo sub B), commessi in Firenze il 19 luglio 2006

di ebbrezza in cui egli si trovava in quelle circostanze, peraltro, non avrebbe
potuto neanche accorgersi che gli agenti, quando gli intimarono di fermarsi,
avevano l’intenzione di elevare una contravvenzione nei suoi confronti. Inoltre, i
Giudici di merito non hanno considerato il rilievo concernente l’assenza di lesività
in concreto della condotta incriminata, poiché l’imputato minacciava alle persone
offese un danno ingiusto futuro, ossia quando sicuramente sarebbe cessato
l’effetto dell’alcool, con la conseguenza che doveva ritenersi assai improbabile
che queste ultime abbiano potuto realmente temere per la loro incolumità, anche

2.3. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento
agli artt. 4 del D. Lg. n. 288/1944 e 186, comma 7, C.d.S., poiché, in ragione del
rifiuto del Coccia di sottoporsi agli accertamenti alcoolemici, gli agenti di P.G.
avrebbero dovuto limitarsi a contestare l’art. 186, comma 7, su menzionato, e
non invece condurre coattivamente il Coccia presso gli uffici della Polizia
municipale, per poi sottoporlo agli esami in questione: una condotta, questa,
improntata a vessazione, sopruso e prevaricazione nei confronti dell’imputato.

2.4. Inosservanza o erronea applicazione della legge processuale con
riferimento alla costituzione di parte civile, stante la sua inammissibilità per
l’eccepita inosservanza dei requisiti essenziali di cui all’art. 78, lett. c) e d),
c.p.p., ossia per la mancata indicazione del nome e cognome del difensore e per
l’assenza della causa petendi. Al riguardo, inoltre, si deduce che la procura
speciale conferita al difensore non può essere ritenuta una parte integrante della
dichiarazione di parte civile, essendo invece un atto separato ed autonomo
dall’atto di costituzione, poiché è regolata da norme diverse ed assolve diverse
funzioni e finalità. Anche la sottoscrizione del difensore apposta per autentica
delle sottoscrizioni delle persone offese non è idonea a sanare il difetto formale
in questione, ponendo invece in risalto l’inammissibilità dell’atto, poiché
l’autentica viene effettuata da un soggetto non identificato, né qualificato
nell’atto stesso. Inesistente, infine, deve ritenersi l’indicazione della

causa

petendi, non essendo stato illustrato il motivo per cui le persone offese hanno
avanzato una pretesa risarcitoria, né, tanto meno, l’idoneità della condotta a
ledere diritti risarcibili, con la conseguente inesistenza del nesso eziologico che
giustifica il petitum.

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in ragione della qualità rivestita.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è infondato e deve essere conseguentemente rigettato per le
ragioni di seguito esposte e precisate.

4.

Manifestamente infondata, in primo luogo, deve ritenersi la prima

censura, dal ricorrente prospettata con riferimento alla mancata rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale, tenuto conto della delibata congruità degli
elementi di prova acquisiti nel giudizio e dei connotati di eccezionalità che

Al riguardo, la motivazione si sviluppa secondo sequenze linearmente
esposte, e come tali incensurabili in questa Sede, avendo posto in rilievo, tra
l’altro, il dato, ritenuto oggettivamente dirimente, della superfluità delle ulteriori
testimonianze – invocate, peraltro, su temi di prova genericamente formulati – a
fronte della completezza del compendio probatorio delineato dall’audizione delle
quattro persone offese e dell’esame dell’imputato.
Il rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello
si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura argomentativa della
motivazione della decisione di secondo grado si fonda, come nel caso in esame,
sulla indicazione di elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine
alla responsabilità (Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, dep. 17/07/2013, Rv.
257741).
Sul punto deve ritenersi, dunque, che l’impugnata pronuncia ha fatto buon
governo del quadro di principii stabiliti da questa Suprema Corte, secondo cui la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello è un’evenienza
eccezionale, subordinata ad una valutazione giudiziale di assoluta necessità
conseguente all’insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti, che impone
l’assunzione di ulteriori mezzi istruttori pur se le parti non abbiano provveduto a
presentare la relativa istanza nel termine stabilito dall’art. 468 cod. proc. pen.
(Sez. 2, n. 41808 del 27/09/2013, dep. 10/10/2013, Rv. 256968; Sez. 2, n.
3458 del 01/12/2005, dep. 27/01/2006, Rv. 233391).
Una situazione, quella normativamente descritta, le cui condizioni, per quel
che si è or ora esposto, non sono evidentemente ravvisabili nel caso in esame.

5.

Parimenti infondata deve considerarsi la quarta doglianza, avendo la

Corte d’appello motivatamente escluso ogni situazione di possibile incertezza al
riguardo, laddove ha posto in rilievo il sostanziale adempimento del requisito
descritto nell’art. 78 c.p.p. sia attraverso l’indicazione del nominativo del
difensore contenuta nella procura apposta in calce alla dichiarazione di
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caratterizzano il su indicato istituto.

costituzione, sia attraverso l’ulteriore, inequivoca, indicazione apposta sopra la
sottoscrizione del difensore.
Nessun dubbio, peraltro, è stato prospettato con riguardo alla pacifica
riferibilità dell’atto al difensore il cui nominativo risultava ivi espressamente
menzionato.
La Corte d’appello ha altresì spiegato, con congrua ed esaustiva
motivazione, come la vicenda storico-fattuale sia stata “analiticamente
richiamata” nella relativa dichiarazione di costituzione, ove erano evidenziate sia
la posizione di persone offese delle costituende parti civili, sia la pretesa

compiutamente specificate nei correlativi temi d’accusa.
L’impegno argomentativo necessario a giustificare l’esercizio dell’azione
civile nel processo penale è stato dunque, pienamente assolto, ove si consideri,
tra l’altro, che non è affatto necessaria un’esposizione analitica della “causa
petendi”, dovendosi la previsione normativa di cui all’art. 78, lett. d), c.p.p.,
ritenere soddisfatta attraverso il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo
del fatto, allorquando, come nel caso in esame, il nesso tra il reato contestato e
la pretesa risarcitoria azionata risulti con immediatezza (da ultimo, v. Sez. 5, n.
22034 del 07/03/2013, dep. 22/05/2013, Rv. 256500).

6.

Per quel che attiene alle ulteriori censure, tutte al limite

dell’inammissibilità in quanto fortemente orientate verso una rivalutazione del
merito, incompatibile con l’odierno scrutinio di legittimità, è necessario ribadire,
sul piano generale ed al fine della verifica della consistenza dei rilievi mossi alla
sentenza della Corte d’appello, che tale decisione non può essere isolatamente
valutata, ma deve essere esaminata in stretta correlazione con la sentenza di
primo grado, dal momento che l’iter motivazionale di entrambe sostanzialmente
si dispiega secondo l’articolazione di sequenze logico-giuridiche pienamente
convergenti (Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008, dep. 11/04/2008, Rv. 239735;
Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Rv. 223061). Siffatta integrazione tra le due
motivazioni si verifica non solo allorché i giudici di secondo grado abbiano
esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati
dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai
passaggi logico-giuridici della decisione, ma anche, e a maggior ragione, quando
i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a
prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di
primo grado (da ultimo, Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, Rv.
252615).

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risarcitoria dalle stesse vantata in conseguenza delle condotte delittuose

Nel caso portato alla cognizione di questa Suprema Corte, in particolare, ci
si trova di fronte a due pronunzie, di primo e di secondo grado, che, fatta
eccezione per il profilo sopra evidenziato, concordano nell’analisi e nella
valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive
decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a
saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo
argomentativo uniforme e privo di lacune, in considerazione del fatto che
l’impugnata pronunzia ha comunque offerto una congrua e ragionevole
giustificazione del finale giudizio di colpevolezza formulato nei confronti

Discende da tale evenienza, secondo la linea interpretativa in questa Sede
da tempo tracciata, che l’esito del giudizio di responsabilità non può certo essere
invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una “mirata rilettura” degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma
assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da
preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come
maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità
esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata
(Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, dep. 23/06/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n.
42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv. 235507).
Nel caso di specie, l’adeguatezza delle ragioni giustificative illustrate
nell’impugnata sentenza non è stata validamente censurata dal ricorrente,
limitatosi a riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente
disattese dai Giudici di merito ed a formulare critiche e rilievi sulle valutazioni
espresse in ordine alle risultanze offerte dal materiale probatorio sottoposto alla
loro cognizione, prospettandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, in
questa Sede, evidentemente, non assoggettabile ad alcun tipo di verifica, per
quanto sopra evidenziato.
Il tessuto motivazionale della sentenza in esame, dunque, non presenta
affatto quegli aspetti di carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del
ragionamento del giudice di merito che, alla stregua del consolidato
insegnamento giurisprudenziale da questa Corte elaborato, potrebbero indurre a
ritenere sussistente il vizio di cui alla lett. e) del comma primo dell’art. 606 c.p.p.
(anche nella sua nuova formulazione), nel quale sostanzialmente si risolvono le
censure dal ricorrente articolate.

7. Sulla base delle numerose e convergenti risultanze probatorie, orali e
documentali, offerte dall’istruzione dibattimentale, i Giudici di merito hanno
ricostruito analiticamente l’intera vicenda storico-fattuale oggetto della
5

dell’odierno ricorrente.

regiudicanda, evidenziando come l’imputato:

a)

sia stato fermato da una

pattuglia della Polizia di Stato mentre procedeva in senso vietato ed in palese
stato di ebbrezza; b) abbia cercato di evitare sia che gli agenti elevassero la
contravvenzione, sia che accertassero lo stato di ebbrezza con l’etilometro,
ostacolandone l’azione e tentando anche di impedire che l’autovettura parcheggiata contromano in divieto di sosta ed in prossimità di una intersezione
stradale – venisse spostata con l’intervento di un carro attrezzi; c) abbia tenuto
un atteggiamento intimidatorio, minaccioso ed ingiurioso volto ad impedire che
gli agenti potessero compiere gli atti del loro ufficio riguardo alle accertate

seconda pattuglia; d) abbia proseguito la sua condotta ingiuriosa e minacciosa
anche nei confronti dei componenti la seconda pattuglia e pur dopo essere stato
condotto presso gli uffici del Comando di Polizia Municipale.
Alla stregua delle su esposte considerazioni, pertanto, deve ritenersi che la
Corte d’appello abbia fatto buon governo del quadro di principii che regolano la
materia in esame, pienamente uniformandosi all’insegnamento da questa
Suprema Corte dettato (Sez. 6, n. 38513 del 22/05/2008, dep. 09/10/2008, Rv.
241399), secondo cui l’ubriachezza, non determinata da caso fortuito nè da forza
maggiore, non esclude, nè diminuisce l’imputabilità, purchè la colpevolezza sia
valutata secondo i normali criteri d’individuazione dell’elemento psicologico del
reato.
Nel caso in esame, sulla base delle univoche emergenze probatorie descritte
nelle correlative sequenze motivazionali dell’impugnata sentenza, i Giudici di
merito hanno concordemente posto in rilievo come la evidente finalizzazione
dell’insieme delle condotte tenute dall’imputato fosse volta proprio ad ostacolare
gli atti d’ufficio legittimamente posti in essere dai pubblici ufficiali in quel
frangente intervenuti, e addirittura costretti, come si è poc’anzi osservato, a
richiedere anche l’intervento di una seconda pattuglia.
E’ noto, peraltro, che, ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 336
cod. pen., l’idoneità della minaccia posta in essere per costringere il pubblico
ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri deve essere valutata con
un giudizio “ex ante”, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del
fatto, con la conseguenza che l’impossibilità di realizzare il male minacciato, a
meno che non tolga al fatto qualsiasi parvenza di serietà, non esclude il reato,
dovendo riferirsi alla potenzialità costrittiva del male ingiusto prospettato (Sez.
6, a n. 44850 del 31/10/2007, dep. 30/11/2007, Rv. 238032; Sez. 6, n. 33429
del 16/06/2004, dep. 04/08/2004, Rv. 229759).
Inesistenti devono ritenersi, infine, i presupposti dell’invocata esimente
prevista dall’art. 4 del D. Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, per la cui
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infrazioni al codice stradale, tanto da costringerli a far intervenire anche una

configurabilità è necessaria un’attività ingiustamente persecutoria del pubblico
ufficiale, il cui comportamento fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di
esplicazione dell’azione di controllo e prevenzione demandatagli nei confronti del
privato destinatario (da ultimo, ex multis, v. Sez. 6, n. 23255 del 15/05/2012,
dep. 13/06/2012, Rv. 253043).
Invero, è emersa con evidenza, al riguardo, la doverosità della richiesta
formulata dagli agenti nei confronti dell’imputato allorquando, in considerazione
delle acclarate circostanze di fatto, lo hanno invitato a sottoporsi alla prova
dell’etilometro presso gli uffici della Polizia Municipale (condotta, questa, del

quella penalmente rilevante posta in essere dall’imputato già nel momento
iniziale dell’intervento dei pubblici ufficiali).

8. Al rigetto del ricorso, conclusivamente, consegue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali, ex art. 616 c.p.p. .

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso in Roma, lì, 17 aprile 2014

Il Consigliere estensore

tutto legittima e slegata, come dalla Corte di merito correttamente osservato, da

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