Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32703 del 17/04/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 32703 Anno 2014
Presidente: DI VIRGINIO ADOLFO
Relatore: DE AMICIS GAETANO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BONTEMPO CARMELO N. IL 11/09/1978
avverso la sentenza n. 4016/2011 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 20/02/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/04/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 4/3,E-a_s– 0
che ha concluso per /e (
Ai, v/ 9

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

O
/9

Vt–

Data Udienza: 17/04/2014

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RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 20 febbraio 2013 la Corte d’appello di Palermo ha confermato la
sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 20 ottobre 2010, che condannava
Carmelo Bontempo alla pena di mesi sette di reclusione ed al risarcimento del danno
subito dalla parte civile Dario Schifano, agente in servizio presso la Polizia penitenziaria
della Casa circondariale Palermo – Pagliarelli, ritenendolo responsabile dei reati di cui agli
artt. 81 cpv. 110 e 336 c.p. (capo sub C) ed agli artt. 61, nn. 2 e 10, 110, 582, 585,
comma 1, in relazione all’art. 576, comma 1, n. 1, c.p. (capo sub D), commessi in

2. Avverso la su indicata pronuncia della Corte d’appello ha proposto personalmente
ricorso per cassazione l’imputato, deducendo tre motivi di doglianza, il cui contenuto
viene qui di seguito sinteticamente riassunto.

2.1. Omessa notifica, presso il proprio domicilio (eletto in Caltanissetta, via Pio La
Torre n. 18/F), dell’avviso di deposito dell’estratto contumaciale ex artt. 548, comma 3 e
585, comma 2, c.p.p., essendo stata la stessa effettuata, invece, presso il domicilio di uno
dei suoi difensori di fiducia, con la conseguente esigenza di rimessione degli atti alla Corte
d’appello per la corretta notifica dell’estratto contumaciale;

2.2. Carenze motivazionali in relazione ad una serie di censure sollevate in sede di
gravame, che lamentavano il difetto di prova riguardo al fatto che l’imputato avesse
immobilizzato l’agente Schifano, cagionandogli le lesioni in contestazione: dalle
dichiarazioni da costui rese, e poste a fondamento, quale prova esclusiva, del positivo
accertamento giudiziale compiuto in primo e secondo grado, emergono, infatti, profili di
contraddittorietà che inducono a non poterlo considerare oggettivamente attendibile, data
l’imprecisione mostrata nel riportare quanto accaduto, con particolare riferimento alla
dichiarazione secondo cui egli sarebbe stato aggredito alle spalle, rendendo in tal modo
poco verosimile la possibilità che abbia riconosciuto con assoluta certezza i suoi
aggressori, unitamente alla mancata specificazione dell’identità di colui che poi, in
concreto, ebbe ad appropriarsi delle chiavi in suo possesso, nonché delle modalità con le
quali queste ultime sarebbero passate da lui agli aggressori.
Analoghi profili di dubbio emergono, inoltre, sulla ricostruzione delle modalità di
accadimento dei fatti e sullo stesso movente, poiché mentre il capo sub C) individua la
ragione della violenza nella consegna delle chiavi per l’apertura della cella, lo Schifano ha
riferito di aver subito la sottrazione in conseguenza dello stato di immobilità in cui sarebbe
stato ridotto; né egli è stato in grado di individuare alcuno dei detenuti presenti in quel
frangente e di specificare l’evolversi dei fatti successivi agli atti di violenza usati nei suoi
confronti, ma precedenti all’episodio della colluttazione verificatasi all’interno della cella n.
4, cui l’imputato rimase assolutamente estraneo, come accertato dalla pronuncia di primo
grado.

1

Palermo il 12 settembre 2004.

Nessuno degli agenti penitenziari di turno al momento dei fatti, infine, ha offerto
elementi utili ai fini dell’accertamento della colpevolezza, non avendo assistito
all’aggressione compiuta in danno dello Schifano, che peraltro, all’atto del loro intervento,
sembrava essere in stato confusionale. Ritenuta l’insussistenza del delitto di cui all’art.
336 c.p., dovrebbero escludersi anche l’aggravante del nesso teleologico tra il reato di
lesione e quello di violenza a pubblico ufficiale, nonché quella di cui all’art. 576, comma 1,
n. 1, c.p., con la conseguente esclusione del reato semplice di cui all’art. 582 c.p..
Illogica deve ritenersi la motivazione anche riguardo alla mancata applicazione delle
attenuanti generiche nella loro massima estensione, con prevalenza sulle contestate

2.3. Nullità della sentenza per intervenuta prescrizione dei reati, essendo ormai
ampiamente trascorso il termine più favorevole introdotto dalla I. n. 251/05.

CONSIDERATO IN DIRITTO
3.

Palesemente infondata deve ritenersi la prima doglianza, aspecificamente

prospettata per non avere il ricorrente, autore egli stesso del ricorso, chiarito, né
precisato, quale incidenza abbia in concreto esercitato la dedotta evenienza procedurale
sull’effettività e pienezza delle garanzie riconnesse al suo diritto di difesa.

4. Per quel che attiene, inoltre, alle censure mosse nel secondo motivo di ricorso,
tutte al limite dell’inammissibilità in quanto fortemente orientate verso una rivalutazione
del merito, incompatibile con l’odierno scrutinio di legittimità, è necessario ribadire, sul
piano generale ed al fine della verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza
della Corte d’appello, che tale decisione non può essere isolatamente valutata, ma deve
essere esaminata in stretta correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che
l’iter motivazionale di entrambe sostanzialmente si dispiega secondo l’articolazione di
sequenze logico-giuridiche pienamente convergenti (Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008,
dep. 11/04/2008, Rv. 239735; Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Rv. 223061). Siffatta
integrazione tra le due motivazioni si verifica non solo allorché i giudici di secondo grado
abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati
dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi
logico-giuridici della decisione, ma anche, e a maggior ragione, quando i motivi di appello
non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già
esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (da ultimo, Sez. 3, n.
13926 del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, Rv. 252615).
Nel caso portato alla cognizione di questa Suprema Corte, in particolare, ci si trova di
fronte a due pronunzie, di primo e di secondo grado, che concordano nell’analisi e nella
valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni,
con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a saldarsi
perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e
privo di lacune, in considerazione del fatto che l’impugnata pronunzia ha comunque

2

aggravanti.

offerto una congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza
formulato nei confronti dell’odierno ricorrente.
Discende da tale evenienza, secondo la linea interpretativa in questa Sede da tempo
tracciata, che l’esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da
prospettazioni alternative, risolventisi in una “mirata rilettura” degli elementi di fatto posti
a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice
del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati
di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in
concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, dep. 23/06/2006, Rv. 234148; Sez.

5. Entro tale prospettiva, invero, deve rilevarsi come, sulla base delle univoche
emergenze probatorie offerte dall’esito dell’istruzione dibattimentale, i Giudici di merito
abbiano ricostruito analiticamente l’intera vicenda storico-fattuale oggetto della
regiudicanda, evidenziando, segnatamente: a) che mentre l’agente Schifano stava per
aprire le celle dove i detenuti dovevano fare rientro dall’ora d’aria, ed in particolare quella
ove erano ristretti i detenuti Bontempo e Pollara, costoro lo aggredirono alle spalle,
afferrandolo per il collo ed immobilizzandolo, al fine di appropriarsi delle chiavi di un’altra
cella (la n. 4); b) che, successivamente, un gruppo di detenuti fece ingresso nella cella n.
4 e portò a termine, con bastoni e mazze forniti da altri detenuti, una violenta
aggressione in danno dei suoi occupanti (uno dei quali, proveniente dalla sezione
“protetti”, aveva effettuato delle chiamate in correità); c) che a seguito della violenza in
tal modo subita, lo Schifano riportava una serie di lesioni attestate dalla documentazione
medico-sanitaria in atti menzionata.
Le dichiarazioni rese dall’agente di Polizia penitenziaria sono state, con lineare ed
esaustiva motivazione, ritenute credibili sulla base di una serie di criteri direttivi,
specificamente evidenziati ed in concreto valutati dalla Corte di merito, che li ha
singolarmente e globalmente apprezzati, ponendo in rilievo come egli, pur aggredito alle
spalle, sia stato perfettamente in grado non solo di identificare l’imputato ed il suo
complice, ma anche di precisare che i due, dopo averlo immobilizzato causandogli le
lesioni certificate nella relativa documentazione (con una prognosi di sessanta giorni,
seguita da altri trenta giorni), si appropriarono delle chiavi della vicina cella, i cui
occupanti costituivano l’obiettivo della ulteriore, concertata, condotta delittuosa in quel
frangente realizzata.
La violenta azione in danno dello Schifano venne dunque posta in essere con
l’obiettivo di immobilizzarlo e di impossessarsi delle chiavi, onde evitare che egli potesse
prontamente intervenire e compiere atti del suo ufficio finalizzati a sventare l’aggressione
concertata in danno dei detenuti ristretti nella vicina cella.
La Corte d’appello, dunque, ha fatto buon governo dei principii che regolano la
materia in esame, sussistendo l’ipotesi di cui all’art. 336 cod. pen. allorquando, come
avvenuto nel caso di specie, la violenza o la minaccia è portata contro il pubblico ufficiale

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1, n. 42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv. 235507).

per costringerlo ad omettere un atto del suo ufficio anteriormente all’inizio dell’esecuzione
(da ultimo, Sez. 6, n. 51030 del 05/12/2013, dep. 18/12/2013, Rv. 258505).
E’ altresì noto, alla luce della giurisprudenza di questa Suprema Corte, che l’ulteriore
delitto di lesione, stante il suo carattere autonomo, concorre con quello di violenza a
pubblico ufficiale, con la conseguenza che, se l’atto di violenza con il quale l’agente ha
prodotto consapevolmente le lesioni non è fine a sè stesso, ma, come avvenuto nel caso
di specie, è stato posto in essere allo scopo di costringere il pubblico ufficiale ad omettere
un atto del suo ufficio, si realizza il presupposto per la sussistenza dell’aggravante della
connessione teleologica, a nulla rilevando che reato-mezzo e reato-fine siano integrati
dalla stessa condotta materiale (cfr. Sez. 6, n. 1272 del 05/12/2003, dep. 20/01/2004,

6. Nel caso di specie, invero, l’adeguatezza delle ragioni giustificative illustrate
nell’impugnata sentenza non è stata validamente censurata dal ricorrente, limitatosi a
riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente disattese in punto di fatto
dai Giudici di merito ed a formulare critiche e rilievi sulle valutazioni espresse in ordine
alle risultanze offerte dal materiale probatorio sottoposto alla loro cognizione, nonché
sulla dosimetria del relativo trattamento sanzionatorio, prospettandone, tuttavia, un
diverso ed alternativo apprezzamento, in questa Sede, evidentemente, non assoggettabile
ad alcun tipo di verifica, per quanto sopra evidenziato.
Il tessuto motivazionale della sentenza in esame, dunque, non presenta affatto
quegli aspetti di carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del
giudice di merito che, alla stregua del consolidato insegnamento giurisprudenziale da
questa Corte elaborato, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui alla lett. e)
del comma primo dell’art. 606 c.p.p. (anche nella sua nuova formulazione), nel quale
sostanzialmente si risolvono le censure dal ricorrente articolate.

7. L’illustrata infondatezza dei motivi di ricorso non può far velo, tuttavia, alla
constatazione che i reati ascritti all’imputato sono oggi attinti da causa estintiva per
decorso del corrispondente termine prescrizionale nella sua massima estensione ex art.
161 c.p. (sette anni e sei mesi). I fatti integranti l’accusa sono stati commessi, come da
imputazione, il 12 settembre 2004, con la conseguenza che il relativo termine massimo di
prescrizione è spirato il 12 luglio 2012 (dovendosi tener conto di una sospensione di
sessanta giorni per la partecipazione all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione
delle Camere penali e di un ulteriore periodo di sospensione di sessanta giorni ex artt. 2-bis
e 2-ter della L. 24 luglio 2008, n. 125). La descritta emergenza impone l’annullamento
senza rinvio della sentenza e la declaratoria della sopravvenuta causa estintiva del reato in
ossequio all’obbligo di cui all’art. 129 c.p.p., comma primo, in carenza – per le ragioni
dianzi esposte – di elementi che elidano la responsabilità penale del ricorrente o configurino
situazioni suscettibili di ricadere nel paradigma di cui all’art. 129, comma secondo, c.p.p..
Evenienza da escludersi a fronte della logica e corretta motivazione della sentenza di
appello, unico atto in base al quale (in uno alla confermata sentenza di primo grado)
questo Giudice di legittimità potrebbe individuare il profilarsi di una più favorevole causa

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Rv. 229508).

liberatoria ex art. 129, comma secondo, c.p.p., rispetto alla causa estintiva prescrizionale
(Sez. 4, 18.9.2008 n. 40799, Merlo, Rv. 241474; Sez. 6, 12.6.2008 n. 27944, Capuzzo,
Rv. 240955).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza perché il reato è estinto per prescrizione.

Il Consigliere estensore

I Presidente

Così deciso in Roma, lì, 17 aprile 2014

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