Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32666 del 09/04/2014


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 2 Num. 32666 Anno 2014
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA

Sul ricorso proposto dall’Avvocato Stefania Sensini, quale difensore di
Luongo Daniele (n. il 01.12.1976), avverso l’ordinanza del Tribunale di
Roma, in data 13.11.2013.
Sentita la relazione della causa fatta dal Consigliere Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Sante Spinaci,
il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Data Udienza: 09/04/2014

Udito l’Avvocato Giuseppe Corvino — in sostituzione dell’Avvocato Stefania
Sensini, difensore di Luongo Daniele — il quale ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso.

Osserva:

Con ordinanza del 28.10.2013, il G.I.P. del Tribunale di Viterbo emise la

misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di Luongo Daniele per
due ipotesi di estorsione (il Luongo è indagato anche per i reati di truffa, ma il
G.I.P. ha emesso la misura solo per i reati la cui pena consentiva l’emissione
della stessa).
Awerso il provvedimento di cui sopra l’indagato propose istanza di
riesame ma il Tribunale di Roma, con ordinanza del 13.11.2013, la rigettò.
Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato eccependo
l’inosservanza ed erronea applicazione della legge perché il Tribunale ha
modificato il fatto. Invero nell’ordinanza custodiale si indicava quale profitto
dell’estorsione quanto acquisito dai reati di truffa (in un caso un’autovettura
acquisita con artifizi e raggiri e non pagata; in un altro caso l’acquisizione di
una somma di danaro per l’acquisto di un’autovettura dell’indagato mai
consegnata al compratore), mentre il Tribunale ravvisa il profitto “nell’ulteriore

vantaggio di non dover, ad esempio, sostenere le spese legali necessarie per
fronteggiare un’eventuale azione giudiziaria, ovvero di non subire ritorsioni
da parte delle vittime (nel caso intendessero attuare un esercizio arbitrario
delle proprie ragioni) mostrando di essere pericoloso e a sua volta pronto a
reagire, oltre all’ennesimo vantaggio di non far emergere (come poi è
accaduto) l’abitualità nel delitto di truffa seguito da quello di estorsione” (si
veda pagina 8 impugnata ordinanza). Quindi, secondo la difesa dell’indagato,
nel caso di specie non vi è stata una diversa qualificazione giuridica del fatto,
ma la modifica del fatto stesso.
Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata ordinanza.

motivi della decisione

2

Il ricorso è manifestamente infondato.
Invero non vi è stata alcuna modifica del fatto contestato. Infatti, nei
capi di imputazione si specifica: nel caso di cui al capo B (quello relativo al
reato di truffa la cui contestazione è riportata nell’ordinanza) che le gravi
minacce costringevano le PP.00. della truffa “ad omettere di chiedere il
rispetto del contratto di compravendita relativo all’autovettura e procurandosi
il profitto di cui sopra”; e nell’altro caso — quello di cui al capo C –

“procurandosi il profitto di euro 2.000,00 (e cioè la somma di danaro che il

secondo truffato aveva versato per l’acquisto di un’autovettura dall’imputato,
autovettura mai consegnata).
Quindi l’obiettivo — raggiunto — delle minacce era quello di non far agire
legalmente i truffati al fine di ottenere quanto loro spettava in forza dei
contratti stipulati; ed è questo il fatto ben contestato. Il profitto delineato dal
Tribunale costituisce una mera esplicitazione di quanto indicato nella
contestazione.
Inoltre, il Tribunale a conforto della sua decisone ha anche richiamato
(si veda pagina 8 dell’ordinanza impugnata) il seguente condiviso principio di
questa Suprema Corte nel quale si afferma che in tema di estorsione,
l’elemento dell’ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio, non solo di
tipo economico, che l’autore intenda conseguire e che non si collega ad un
diritto, ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno
strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso (nella fattispecie
l’imputato intendeva impedire alla vittima di procedere giudizialmente nei suoi
confronti con un’azione ritenuta ingiusta; Sez. 2, Sentenza n. 16658 del
31/03/2008 Ud. – dep. 22/04/2008 – Rv. 239780).
Dopo la decisione evocata dal Giudice di merito questa Corte ha
ribadito che integra il delitto di tentata estorsione continuata la condotta che
si risolva nella reiterazione di minacce rivolte a far desistere il destinatario
dall’azione giudiziaria iniziata con la proposizione di una richiesta di
sequestro conservativo, perché nella nozione di danno, elemento della
fattispecie, rientra anche la rinuncia, coartata, alla tutela preventiva del diritto
di credito, costituita dal sequestro preventivo (Sez. 2, Sentenza n. 34900 del
10/07/2008 Cc. – dep. 08/09/2008 – Rv. 241817).

3

Inoltre, integra il delitto di estorsione la minaccia o la violenza
finalizzata ad ottenere la rinuncia alla tutela di un proprio diritto in una
controversia di lavoro (in motivazione, la Corte ha precisato che nella
nozione di danno nel reato di estorsione rientra qualsiasi situazione che
possa incidere negativamente sull’assetto economico di un soggetto,
comprese la delusione di aspettative e “chance” future di arricchimento o di
consolidamento di propri interessi; Sez. 2, Sentenza n. 43769 del 12/07/2013

Cc. – dep. 25/10/2013 – Rv. 257303).
A fronte di tutto quanto sopra esposto, come si è già detto, il ricorrente
contrappone, quindi, solo generiche contestazioni. In proposito questa Corte
ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è inammissibile
il motivo di ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della
correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle
dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del
provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che
conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità
(Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 rv 230634).
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve
essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché —
ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della
somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi
dedotti.
Inoltre, poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione in
libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’articolo 94, comma 1 ter,
delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale – che copia
della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui
l’indagato trovasi ristretto perché provveda a quanto stabilito dal comma 1 bis
del citato articolo 94.

P.Q.M.

Q-

4

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di mille euro alla cassa delle ammende.
Si provveda a norma dell’articolo 94 delle disposizioni di attuazione del
codice di procedura penale.

Così deliberato in camera di consiglio, il 09/04/2014.

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA