Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32619 del 24/04/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 32619 Anno 2014
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: VERGA GIOVANNA

Data Udienza: 24/04/2014

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI
BARI
nei confronti di:
PIPINO PASQUALE N. IL 09/01/1965
GIBILARO ALFONSO N. IL 30/05/1974
avverso la sentenza n. 1911/2005 CORTE APPELLO di BARI, del
18/02/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 24/04/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GIOVANNA VERGA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FetUo eag-AA
che ha concluso per A i 4,„.,
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MOTIVI DELLA DECISIONE

Con sentenza in data 18 febbraio 2013 la Corte d’appello di Bari in riforma della sentenza
– emessa il 13 gennaio 2009 dal locale Tribunale che aveva condannato Pipino Pasquale e
Gibilaro Alfonso per concorso in rapina aggravata (capo A), violenza privata (capo B) e lesioni
aggravate (capo C) in danno di De Robertis Sergio e falso ideologico in atto pubblico (capo D)
assolveva gli imputati dai reati di cui ai capi A, BeCe dichiarava non doversi procedere in

Riteneva la corte territoriale che non vi era prova della sussistenza dei reati essendo
intrinsecamente inattendibili le dichiarazioni rese dalla persona offesa, costituitasi parte civile,
per discrasie evidenziate tra quanto riferito in denuncia e quanto dichiarato al P.M. nonché per
contrasto con fonti di prova estrinseche di natura orale (testimonianza Barletta Antonio e Calisi
Onofrio).
Ricorre per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Bari
deducendo che la sentenza impugnata è incorsa in:
1. manifesta illogicità, carenza e contraddittorietà della motivazione e travisamento della
prova. Con riguardo alla discrasia evidenziata dalla corte territoriale tra le dichiarazioni
rese dalla parte offesa in sede di denuncia e quelle rese al pubblico ministero afferente
la questione se la materiale azione violenta in danno del De Robertis sia stata tenuta da
entrambi o da un solo poliziotto rileva il ricorrente che i giudici d’appello sono incorsi in
un errore di metodologia esegetica delle dichiarazioni della parte offesa che conduce a
delle conclusioni illogiche avendo confrontato narrazione di diverso grado descrittivo del
fatto e da tale raffronto segnalato difformità ritenute valide a vulnerare l’attendibilità
intrinseca del dichiarante. Il ricorrente rileva che dalla lettura dei verbali delle
dichiarazioni della parte lesa emergono due livelli di descrizione dei fatti accaduti: uno
di tipo generico in cui il De Robertis dichiara di essere stato aggredito da entrambi i
poliziotti; un altro più dettagliato con cui espone le sequenze dell’aggressione, dal quale
si comprende chi in effetti lo ha materialmente percosso. Viene evidenziato che le due
modalità di riferire i fatti si riscontrano non solo nel raffronto fra le dichiarazioni rese in
tempi diversi ma anche nell’ambito della stessa denuncia resa ai carabinieri di Molfetta
come pure in occasione delle informazioni assunte dal pubblico ministero il 7 marzo
2005. Sostiene il ricorrente che l’evidenziato errore metodologico inquina di illogicità
l’argomento di inattendibilità intrinseca del dichiarante. Altrettanto illogico si atteggia
l’ulteriore argomento assunto dalla corte d’appello per destabilizzare l’attendibilità
intrinseca del denunciante. La Corte d’Appello omette di considerare se effettivamente
la individuazione di Gibilaro come il poliziotto che ricevette il portafogli e quindi poi colpì
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ordine al reato di cui al capo D) perché estinto per intervenuta prescrizione.

il De Robertis, sia caratterizzata da un grado di certezza capace di contrapporsi alle
successive reiterate dichiarazioni di De Robertis che, diversamente, in modo coerente e
preciso, ha riferito che il portafogli gli venne inizialmente preso anzi gli venne strappato
di mano dal poliziotto che aveva i capelli corti a spazzola, brizzolati ai lati e con i gradi,
ossia da Pipino, il quale poi lo colpì con la torcia. Rileva altresì che i giudici d’appello
hanno clamorosamente trascurato di prendere in esame quanto riferito dalla parte
offesa immediatamente dopo aver descritto ai carabinieri le fattezze fisiche del
poliziotto che ricevette il portafogli e quindi poi lo colpì. A domanda della polizia

descritta fingeva di prendere appunti su un bloc-notes. A me comunque non hanno
fatto sottoscrivere nulla.

Sostiene che troppo superficiale e parcellizzato si rivela

l’esame svolto dalla corte territoriale sulle dichiarazioni della parte offesa e rileva che
non appare coerente con la logica ermeneutica estrapolare un frammento della
dichiarazioni rese dai carabinieri e utilizzarlo come atto destabilizzante la credibilità del
dichiarante e vulnerare così la portata probatoria della complessiva dichiarazione e di
quelle successivamente rese ancor più quando quel frammento trovava immediata
smentita nelle precisazioni date su quello che durante la fase descrittiva faceva il
poliziotto semplice. Tesi ribadita anche in dibattimento a seguito di domande specifiche
a lui rivolte sia dal pubblico ministero che dal presidente del tribunale quando ancora
confermò di essere stato percosso solo da Pipino. In sintesi lamenta che la corte
territoriale si è limitata a prendere atto della divergenza nel racconto senza però
effettuare alcun doveroso esame sulla reale consistenza di siffatta divergenza ;
2. illogicità della motivazione nella parte in cui fornisce, nell’ambito della affermazione
della inattendibilità De Robertis, argomenti volti a dimostrare che le dichiarazioni rese
da quest’ultimo contrastano con quelle del vigilante Antonio Barletta. Secondo il
ricorrente rimane inspiegato in cosa risieda in definitiva il conclamato evidente
contrasto dal momento che la parte offesa, come richiamato dagli stessi giudici di
secondo grado, non ha dato indicazione alcuna che induca a ritenere che quel colloquio
con Gibilaro (in quel mentre seduto all’interno dell’auto di servizio parcheggiata in una
stradina di accesso) potesse essere ascoltato dal metronotte, rimasto a sua volta
all’interno della propria autovettura, impegnato a parlare con Pipino. Ha inoltre
sottolineato che il Gibilaro nel corso dell’interrogatorio di garanzia ha riferito che in quel
contesto quando era al posto di guida, la persona controllata lo supplicava di non
redigere il verbale per non rovinarlo (si era messo in ginocchio ed aveva cominciato a
piangere sbattendo le mani contro lo sportello). Quindi se il Barletta nulla di strano ha
notato o sentito la conclusione non poteva che essere che la distanza era tale da non
permettergli nemmeno di percepire questo particolare atteggiamento di De Robertis,
riferito dallo stesso Gibilaro. Contesta inoltre che le dichiarazioni del De Robertis
contrastino con quelle riferite dal teste Calisi Onofrio escusso per la prima volta nel
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giudiziaria il De Robertis ha infatti dichiarato: il semplice poliziotto durante la fase

giudizio d’appello, su richiesta formulata dalla difesa di Gibilaro. Sostiene che la corte
territoriale ha travisato la deposizione del Calisi laddove ha affermato che quella notte il
De Robertis subì delle lesioni, ma ha assunto che le stesse non potevano ascriversi
all’imputato perché tra il controllo effettuato dai poliziotti e l’incontro con il Calisi ,che
per primo aveva apprezzato la presenza di lesioni trascorse un’apprezzabile lasso di
tempo (circa due ore) durante le quali non poteva escludersi che il De Robertis fosse
stata vittima di un’aggressione da parte di persona nota come dal medesimo dichiarato
al medico del pronto soccorso di Molfetta. Evidenzia che quanto indicato è in contrasto

sostenuto dalla parte offesa fin dalla denuncia presso la stazione dei carabinieri del 17
gennaio 2005 ossia di essere stato cercato dalle ore 1,00 presso quel comando dal De
Robertis al quale venne riferito che il Calisi era fuori per servizio. Il Calisi ha ricordato
che quando poco prima delle 3,00 rientrò in caserma per gli adempimenti correlati ad
un incidente stradale venne informato da militari che una persona lo cercava. Persona
che si era subito dopo ripresentata in caserma.
Il responsabile civile Ministero dell’Interno depositava memoria con la quale chiedeva il rigetto
del ricorso ritenendo che la Corte Territoriale aveva correttamente ritenuto inattendibili le
dichiarazioni rese dalla parte offesa.
I motivi di ricorso presentati dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte
d’Appello di Bari sono fondati.
La ricostruzione delle vicende processuali, così come risulta dal testo delle sentenze dei giudici
di merito dei due gradi di giudizio, raffrontata, per singole parti della sentenza impugnata, con
i motivi di ricorso del Procuratore Generale ricorrente, evidenzia come sia stato inosservato
l’obbligo motivazionale facente carico al giudice di secondo grado.
Se è vero che l’art. 546, comma 1, lett. e), prevede tra i requisiti della sentenza quello di una
“concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata”, è pur vero che
il disposto dello stesso articolo pone a carico del giudice di merito l’obbligo di “indicazione delle
prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice
ritiene non attendibili le prove contrarie”, così come, per quanto concerne la valutazione delle
prove, l’art. 192, comma 1, c.p.p., impone di dare “conto nella motivazione dei risultati
acquisiti e dei criteri adottati”. La concisione nella esposizione, pertanto, significa, con
riferimento ai motivi di diritto, che il giudice non deve fare uno sfoggio di erudizione giuridica
che non sia funzionale alla esplicitazione dei criteri adottati, e, con riferimento ai motivi di
fatto, che nel testo della sentenza non deve trovare ingresso una pura e semplice elencazione
delle risultanze dibattimentali, ma solo una sintesi valutativa degli elementi probatori,
considerati singolarmente e nel loro insieme, e comparativa di quelli a favore e contro
l’imputato. Solo una chiara, completa e articolata motivazione consente infatti al giudice di
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con quanto offerto dal compendio probatorio. Il Calisi ha dato pieno riscontro a quanto

Cassazione di rilevare se e in quale punto della motivazione emerga il vizio
dell’argomentazione.
Ciò detto deve rilevarsi con riferimento alla sentenza impugnata che il giudice di appello non
ha proceduto ad una totale ricostruzione delle risultanze processuali al fine di valutarne il
contenuto in modo difforme dal giudice di prima istanza, ma si è limitato ad enucleare dalle
risultanze processuali descritte dal giudice di primo grado e non autonomamente ricostruite
quelle che apparivano funzionali al successivo discorso critico contrastante con quello della
sentenza appellata. Al giudice di legittimità, per potere effettuare il doveroso controllo sulla

riportarsi alla esposizione delle risultanze processuali, così come contenuta nella sentenza di
primo grado e non compiutamente ed esattamente riportate nella sentenza di appello.
Deve aggiungersi che è giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte che la sentenza
appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano
vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico-giuridica,
alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e
completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello
(Sez. 1^, 22/11/1993-4/2/1994, n. 1309, Albergamo, riv. 197250; Sez. 3^, 14/2- 23/4/1994,
n. 4700, Scauri, riv. 197497; Sez. 2^, 2/3-4/5/1994, n. 5112, Palazzotto, riv. 198487;
Sez.2^, 13/11-5/12/1997, n. 11220, Ambrosino, riv. 209145; Sez. 6^, 20/113/3/2003, n.
224079). Ne consegue che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella
appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto
sia nelle parti non oggetto di specifiche censure, dovendo soltanto rispondere in modo congruo
alle singole doglianze prospettate dall’appellante. In questo caso il controllo del giudice di
legittimità si estenderà alla verifica della congruità e logicità delle risposte fornite alle predette
censure.
La totale riforma della sentenza di primo grado impone invece al giudice di appello ,secondo
una regola di giudizio, sempre ribadita da questa Corte (sez. 1^ sentenza n. 1381 del
10/02/1995, ud. 16/12/1994, PM C/Verderosa Rv. 201487; sez. 2^ 12.12.2002 n. 15756 PG
in proc. contrada rv. 225564), la dimostrazione dell’incompletezza o della non correttezza
ovvero dell’incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica
seguita da corretta, completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo
a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del
privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. L’alternatività della
spiegazione di un fatto non attiene al mero possibilismo, come tale esercitazione astratta del
ragionamento disancorata dalla realtà processuale, ma a specifici dati fattuali che rendano
verosimile la conclusione di un “iter” logico cui si perviene senza affermazioni apodittiche. Il
supporto motivazionale di una decisione giurisdizionale per essere logico deve essere conforme
ai canoni che presiedono alle forme corrette del ragionamento in direzione della dimostrazione
della verità. In questo caso, dunque, il giudice di appello deve raffrontare il proprio decisum
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esistenza stessa o sulla manifesta illogicità della motivazione, non rimane perciò altro che

non solo con le censure dell’appellante, ma anche con il giudizio espresso dal primo giudice,
che si compone sia della ricostruzione del fatto che della valutazione complessiva degli
elementi probatori, nel loro valore intrinseco e nelle connessioni tra essi esistenti.
E’ quindi indispensabile, ai fini di un persuasivo e completo giudizio di legittimità, rilevare il
vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione non solo dal testo della sentenza di
appello, ma anche dal suo raffronto col testo della sentenza appellata, soprattutto quando il
vizio investa la valutazione dell’intero quadro probatorio.
È insegnamento costante di questa Suprema Corte che, ai sensi dell’art. 192 c.p.p., non può

valore autonomo dei singoli elementi probatori, senza pervenire a quella valutazione unitaria
della prova, che è principio cardine del processo penale, perché sintesi di tutti i canoni
interpretativi dettati dalla norma stessa (Sez. Un., 4/2/92-4/6/1992, n. 6682, Musumeci, Riv.
191230; Sez. 6^, 28/9-3/11/1992, n. 10642, Runci, Riv. 192157; Sez. 6^, 25/6-5/9/1996, n.
8314, Cotoli, Riv. 206131). Nella valutazione della prova il giudice deve prendere in
considerazione tutti e ciascuno degli elementi processualmente emersi, non in modo
parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sè e
posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica
e consonante, che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la
verità processuale, cioè la verità del caso concreto. Viola tale principio il giudice, che abbia
smembrato gli elementi processualmente emersi sottoposti alla sua valutazione, rinvenendo
per ciascuno giustificazioni sommarie od apodittiche e omettendo di considerare se nel loro
insieme non fossero tali da consentire la configurabilità in concreto del reato contestato.
Ciò detto deve rilevarsi che i giudici d’appello nella sentenza impugnata si sono limitati ad
affermare che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, le dichiarazioni della
persona offesa, sulle quali ritengono che sostanzialmente si sia fondata l’affermazione di
responsabilità degli imputati, non potevano considerarsi intrinsecamente credibili perché in
contrasto con quanto riferito dal teste Antonio Barletta e perché vi era una rilevante difformità,
afferente il nucleo essenziale dell’imputazione, tra il contenuto della denuncia sporta il 17
gennaio 2005 alle ore 12.30 e le dichiarazioni rese dalla vittima a sommarie informazioni
innanzi al pubblico ministero 7.3.2005 e quelle rese al dibattimento e hanno ritenuto tale
premessa assorbente qualsiasi ulteriore valutazione dei dati probatori emersi nel corso del
procedimento, senza considerare che, come sottolineato dal ricorrente Procuratore Generale,
dalle varie dichiarazioni della parte lesa emergono due livelli di descrizione dei fatti accaduti:
uno, nella immediatezza, di tipo generico in cui il De Robertis denuncia di essere stato
aggredito da due poliziotti, fornendo però una specifica descrizione fisica degli stessi, nonché
dei gradi, che ha consentito la loro certa identificazione; un altro più dettagliato (deposizione
avanti il P.M. confermata in sede dibattimentale) con cui espone le sequenze dell’aggressione,
dal quale si comprende il ruolo assunto da ciascuno nell’azione delittuosa (cfr. p. 10 sentenza
10 grado)pur nella precisazione che i due poliziotti erano perfettamente d’accordo tra loro .
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dirsi adempiuto l’onere della motivazione ove il giudice si limiti ad una mera considerazione del

Così come non emerge un effettivo contrasto tra la sua ricostruzione dei fatti e quella resa dal
teste Barletta considerato che la parte offesa, come richiamato dagli stessi giudici di secondo
grado, non ha dato indicazione alcuna che induca a ritenere che quel colloquio con Gibilaro
(in quel mentre seduto all’interno dell’auto di servizio parcheggiata in una stradina di accesso)
potesse essere ascoltato dal metronotte, rimasto a sua volta all’interno della propria
autovettura, impegnato a parlare con Pipino, e considerato anche che il Gibilaro nel corso
dell’interrogatorio di garanzia aveva riferito che in quel contesto quando era al posto di guida,
la persona controllata lo supplicava di non redigere il verbale per non rovinarlo (si era messo in

sentenza di primo grado…). Quindi se il Barletta nulla di strano ha notato o sentito non può che
ritenersi che si trovava ad una distanza tale da non permettergli nemmeno di percepire questo
particolare atteggiamento di De Robertis, riferito dallo stesso imputato Gibilaro.
E’ il caso tuttavia di aggiungere che, con riguardo alla prova dichiarativa, la credibilità
soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi
reciprocamente devono essere valutate unitariamente. Nel caso in esame invece i giudici
d’appello sulla premessa dell’assenza di intrinseca attendibilità delle dichiarazioni del De
Robertis hanno ritenuto non necessaria la valutazione della credibilità soggettiva del
dichiarante e l’accertamento di dati obiettivi di riscontro ritenendo apoditticamente che l’unico
dato certo che emergeva dalla vicenda in esame era solo quello che quella notte il De Robertis
ebbe a subire delle lesioni personali. Lesioni che, secondo i giudici d’Appello, non potevano
essere ascritte agli odierni imputati anche perchè tra il controllo effettuato dai prevenuti nei
confronti del De Robertis e l’incontro presso la compagnia carabinieri di Molfetta con il
vicebrigadiere Calisi, che per primo apprezzò la presenza di tali lesioni, trascorse un
apprezzabile lasso di tempo (circa due ore) durante il quale non poteva escludersi che il De
Robertis fosse stata vittima di un’aggressione da parte di altro soggetto, la persona “nota” da
lui dichiarato al medico del pronto soccorso di Molfetta. Ricostruzione che però non tiene conto
che il Calisi, escusso per la prima volta nel giudizio d’appello, ha riscontrato quanto detto dal
De Robertis sin dalla sua prima denuncia e cioè di essere stato cercato nella notte presso quel
comando dal De Robertis al quale fu riferito che il vicebrigadiere era fuori per servizio. Il Calisi
ha ricordato che quando poco prima delle 3,00 rientrò in caserma per gli adempimenti correlati
ad un incidente stradale venne informato da militari che una persona lo aveva cercato, e poco
dopo si ripresentò il De Robertis in evidente stato di agitazione, con il giubbotto tutto sporco e
con il viso gonfio che gli riferì di essere stato picchiato e rapinato da quei due poliziotti
formalmente denunciati la mattina successiva ed identificati negli attuali imputati grazie alla
precise indicazioni rese dalla vittima nell’immediatezza.
Così come i giudici d’appello non hanno tenuto in considerazione le dichiarazioni rese dalla
moglie del Pipino e la certa alterazione della scheda di identificazione del De Robertis, reato
per il quale vi è stata declaratoria di estinzione per intervenuta prescrizione.

6

ginocchio ed aveva cominciato a piangere sbattendo le mani contro Io sportello – pag. 19

Deve aggiungersi che i giudici di primo grado hanno ritenuto la responsabilità degli imputati
sulla scorta dell’attendibilità intrinseca del De Robertis dopo averlo sentito in dibattimento,
mentre la Corte Territoriale ne ha affermato l’inattendibilità intrinseca attraverso una diversa
lettura delle deposizioni in precedenza rese.
La Corte Edu (sentenza del 5 luglio 2011 nel caso Dan c/Moldavia) intervenuta in un caso in cui
il giudice di primo grado non aveva ritenuto intrinsecamente attendibiltil testimone principale,
che riferiva su tutte le circostanze fondanti l’accusa, mentre il giudice di secondo grado, senza
una nuova raccolta delle prove ma sulla sola base della lettura delle dichiarazioni rese in primo

Convenzione Edu perché un equo processo comporta che il giudice che deve utilizzare la
dichiarazione di un testimone (in modo difforme da altro giudice) deve poterlo ascoltare
personalmente e così valutarne la attendibilità intrinseca.
La pronuncia è un’ulteriore espressione del principio di immediatezza che si ritiene attuato
quando vi è un rapporto privo di intermediazioni tra l’assunzione della prova e la decisione. Al
fine di permettere una valutazione sull’attendibilità delle dichiarazioni si vuole che il giudice
prenda direttamente contatto con la fonte di prova. È una regola non di carattere assoluto in
quanto tale ascolto diretto deve avvenire “in linea di massima” perché “generalmente” la
semplice lettura non risolve il compito complesso di valutazione della attendibilità intrinseca del
testimone.
Si può affermare che la Corte Edu ha ritenuto che coloro che hanno la responsabilità di
decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter
udire i testimoni, ritenuti decisivi, personalmente per poterne valutare la loro attendibilità
intrinseca. Valutazione dell’attendibilità che è un compito complesso che generalmente non
può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate .
La disposizione che ha avuto applicazione giurisprudenziale con riguardo a reformatio in peius
di una sentenza di assoluzione può trovare applicazione anche in casi come quello in esame
dove l’attendibilità intrinseca del testimone principale affermata dai giudici di primo grado sulla
scorta di un ascolto diretto in dibattimento è stata valutata in maniera difforme dai giudici di
secondo grado che non hanno proceduto ad ascoltare il teste principale.
Se è vero che il principio tratto dalla richiamata sentenza Cedu è quello che laddove la prova
essenziale consista in una o più prove orali che il primo giudice abbia ritenuto, dopo averle
personalmente raccolte, non attendibili, il giudice di appello per disporre condanna non può
procedere ad un diverso apprezzamento della medesima prova sulla sola base della lettura dei
verbali ma è tenuto, salvo possibili casi particolari, a raccogliere nuovamente la prova innanzi
a sè per poter operare una adeguata valutazione di attendibilità, è pur vero che tale principio,
espressione dell’immediatezza del processo, deve trovare applicazione anche in casi in cui il
diverso giudizio di attendibilità ha portato ad un giudizio di assoluzione in secondo grado, a
maggior ragione a fronte della presenza di una parte privata, costituita parte civile, rispetto
alla quale si assiste ad una sempre maggior tutela nell’ambito delle decisioni della Corte
7

grado, ne aveva affermato la piena attendibilità, ha ritenuto un tale sistema non conforme alla

Europea ( si veda in particolare sentenza 29.3.2011 ALIKAJ e altri contro ITALIA relativa ad un
caso di dichiarata prescrizione del reato contestato a poliziotti che ha ritenuto che il sistema
penale, così come è stato applicato nella fattispecie, non poteva generare alcuna forza
dissuasiva idonea ad assicurare la prevenzione efficace di atti illeciti come quelli denunciati dai
ricorrenti, parti civili nel processo penale, mostrando così di concepire la costituzione di parte
civile non soltanto nell’interesse della parte lesa, ma anche nell’interesse pubblico della difesa
sociale preventiva e repressiva contro il delitto e strumento per attenuare l’allarme sociale e
soddisfare il desiderio di giustizia delle vittime).

imputazione con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Bari per nuovo giudizio

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con riferimento ai capi A) B) C) dell’imputazione con rinvio ad
altra Sezione della Corte d’Appello di Bari per nuovo giudizio.
Così deliberato in Roma il 24.4.2014
Il Consigliere estensore
Giovanna VERGA

Il Presidente
Fraly=1D
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La sentenza deve pertanto essere annullata con riferimento ai capi A) B) e C) della

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