Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32599 del 20/05/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 32599 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
– LONETTI MAURIZIO, n. 3/10/1977 a PISTOIA

avverso la sentenza della Corte d’appello di FIRENZE in data 16/06/2011;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. F. Baldi, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;
udite, per il ricorrente, le conclusioni dell’Avv. D. D’Arrigo, in sostituzione
dell’Avv. L. Cianferoni, che ha chiesto accogliersi il ricorso;

Data Udienza: 20/05/2014

RITENUTO IN FATTO

1. LONETTI MAURIZIO ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte
d’appello di FIRENZE, emessa in data 6/12/2012, depositata in data 17/12/2012,
confermativa della sentenza del Tribunale di PISTOIA del 28/01/2011, con cui il
ricorrente veniva condannato per il reato di cui all’art. 659 c.p. alla pena di C

2008), oltre risarcimento danni e spese in favore della costituita parte civile.

2. Con il ricorso, proposto dal difensore fiduciario cassazionista, viene dedotto un
unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la
motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) c.p.p., in
relazione agli artt. 659, comma 2, c.p. e 10, legge n. 447/1995.
La censura investe la decisione della Corte territoriale per aver violato la
costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui il reato di cui all’art. 659,
comma 2, c.p. è stato depenalizzato in forza dell’entrata in vigore dell’art. 10
della legge n. 447/1995, che prevede la sanzione amministrativa, in rapporto di
specialità con la norma penale; l’attività lavorativa svolta dal ricorrente (gestore
di un laboratorio artigianale di pasticceria, aperto al pubblico anche in orario
notturno), è stata considerata dai giudici di appello come rientrante nel comma 2
dell’art. 659 citato, sicchè – potendosi considerare come impianti mobili di
emissioni sonore gli impianti audio degli utenti rispetto ai quali viene contestato
al ricorrente di non aver controllato il livello sonoro, in violazione di un suo
specifico obbligo – trova applicazione l’art. 10, legge n. 447/1995, posto che la
fattispecie penale deve intendersi depenalizzata quando l’addebito riguardi il
superamento dei limiti di emissioni ed immissioni sonore stabiliti; la norma
penale, sostiene il ricorrente, trova applicazione residua ai soli casi in cui siano
violate le norme regolanti i mestieri rumorosi sotto profili diversi rispetto a quelli
inerenti i limiti sonori, come ad esempio quelli relativi agli orari di apertura, che
nel caso in esame non risultano violato, in quanto il ricorrente era autorizzato
all’apertura notturna.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso dev’essere dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito esposte.
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300,00 di ammenda (fatto contestato come commesso in Montale, fino all’agosto

4. Ed invero, davanti alla Corte d’appello di Firenze era stata impugnata “ai soli
effetti civili” (art. 574 cod. proc. pen.) una sentenza di condanna alla sola pena
dell’ammenda.
L’art. 574 cod. proc. pen., sotto la rubrica “Impugnazione dell’imputato per gli
interessi civili”, facoltizza l’imputato a proporre impugnazione contro i capi della
sentenza che riguardano la sua condanna alle restituzioni e al risarcimento del

nello specifico, prevede però al comma terzo che “L’impugnazione è proposta col
mezzo previsto per le disposizioni penali della sentenza”.
Tale precisazione, quindi, trattandosi di impugnazione avverso sentenza di
condanna alla pena dell’ammenda, comportava che il mezzo di impugnazione
avrebbe dovuto essere il ricorso per cassazione, atteso che, a norma dell’art.
593, comma terzo, cod. proc. pen. “Sono inappellabili le sentenze di condanna
per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda”.
La giurisprudenza di questa Corte, sul punto, è pacifica nel senso di ritenere che,
nel caso in cui il giudice di secondo grado si sia erroneamente pronunziato sul
gravame proposto avverso sentenza inappellabile e che tale sentenza sia stata
poi, a sua volta, impugnata in sede di legittimità, la Corte di cassazione deve
annullare senza rinvio la sentenza impugnata e ritenere il giudizio, qualificando
l’originario gravame quale ricorso (Sez. 5, n. 4016 del 19/09/2000 – dep.
10/11/2000, PG in proc. Contena, Rv. 217738).
Ciò costituisce il naturale e logico corollario del principio, autorevolmente
affermato dal Massimo Consesso di questa Corte, per il quale il precetto di cui al
quinto comma dell’art. 568 cod. proc. pen. (secondo cui l’impugnazione è
ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che
l’ha proposta), deve essere inteso nel senso che solo l’erronea attribuzione del
“nomen juris”

non può pregiudicare l’ammissibilità di quel mezzo di

impugnazione di cui l’interessato, ad onta dell’inesatta “etichetta”, abbia
effettivamente inteso avvalersi: ciò significa che il giudice ha il potere-dovere di
provvedere all’appropriata qualificazione del gravame, privilegiando rispetto alla
formale apparenza la volontà della parte di attivare il rimedio all’uopo
predisposto dall’ordinamento giuridico. Ma proprio perché la disposizione indicata
è finalizzata alla salvezza e non alla modifica della volontà reale dell’interessato,
al giudice non è consentito sostituire il mezzo d’impugnazione effettivamente
voluto e propriamente denominato ma inammissibilmente proposto dalla parte,
con quello, diverso, che sarebbe stato astrattamente ammissibile: in tale ipotesi,
infatti, non può parlarsi di inesatta qualificazione giuridica del gravame, come
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danno e contro quelli relativi alla rifusione delle spese processuali; la norma,

tale suscettibile di rettifica

“ope iudicis”, ma di una infondata pretesa da

sanzionare con l’inammissibilità (Sez. U, n. 16 del 26/11/1997 – dep.
26/01/1998, Nexhi, Rv. 209336). Detto principio, si noti, è stato ulteriormente
specificato in altra successiva decisione del Supremo Collegio che ha, in
particolare, affermato come, in tema di impugnazioni, allorché un provvedimento
giurisdizionale sia impugnato dalla parte interessata con un mezzo di gravame
diverso da quello legislativamente prescritto, il giudice che riceve l’atto deve

i mpugnabilità del provvedimento, nonché l’esistenza di una
impugnationis”,

“voluntas

consistente nell’intento di sottoporre l’atto impugnato a

sindacato giurisdizionale, e quindi trasmettere gli atti, non necessariamente
previa adozione di un atto giurisdizionale, al giudice competente (Sez. U,
ordinanza n. 45371 del 31/10/2001 – dep. 20/12/2001, Bonaventura, Rv.
220221; Conf. SU, 31 ottobre 2001 n. 45372, De Palma, non massimata).

5. Ciò chiarito, nel caso in esame, il ricorso è volto a censurare la configurabilità
del reato di cui all’art. 659 cod. pen., per un motivo diverso da quello
prospettato davanti al giudice d’appello (ossia, l’applicabilità dell’art. 10, legge n.
447/1995, laddove, davanti al giudice d’appello, il motivo di impugnazione era di
merito, vertendo sulla mancanza della diffusività del disturbo ad un numero
indeterminato di persone, in quanto a lamentarsi era stato il solo nucleo
familiare residente nell’appartamento al piano sovrastante la pasticceria).
In applicazione, dunque, della citata sentenza delle Sezioni Unite Nexhi, ne
discende che, avendo la parte impugnate in appello oggettivamente voluto ed
delibaratamente azionato il mezzo di impugnazione non consentito dalla legge
(ossia, l’appello, trattandosi di sentenza inappellabile), il gravame non può che
essere sanzionato con l’inammissibilità.

6. Il ricorso – così qualificata l’originaria impugnazione proposta – dev’essere,
dunque,

dichiarato

inammissibile,

previo annullamento senza

rinvio

dell’impugnata sentenza. Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna
del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non emergendo
ragioni di esonero, al pagamento a favore della Cassa delle ammende, a titolo di
sanzione pecuniaria, di somma che si stima equo fissare, in euro 1.000,00
(mille/00).

P.Q.M.

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limitarsi, a norma dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., a verificare l’oggettiva

Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza e, qualificata come ricorso per
cassazione l’impugnazione proposta dall’imputato avverso la sentenza emessa
dal Tribunale di Pistoia in data 28 gennaio 2011, la dichiara inammissibile, con
condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e di € 1.000,00 alla
Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 20 maggio 2014

Il Presidente

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