Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32593 del 04/03/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 32593 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: GENTILI ANDREA

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
MARTELLI ‘Emilio Angelo, nato a Torino il 9 gennaio 1939;
PALESTRO MARTELLI Anna Michela, nata a Torino il 14 febbraio 1945;
nei confronti di:
RIGHIERO Marina, nata a Frossasco (To) il 18 giugno 1944;
avverso la sentenza n. 896 della Corte di appello di Torino emessa il 7 marzo
2013;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;

sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Angelo DI
POPOLO il quale ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza ai soli
effetti civili;

sentiti, altresì, gli avv.ti. Pierfrancesco BERTOLINO, del foro di Torino per la
costituita parte civile Martelli e Gianfranco FERRERI, del foro di Torino, per la
costituita parte civile Palestro Martelli, che ha concluso per l’accoglimento dei
ricorsi;

sentito, infine, l’avv. Oliviero DE CAROLIS, del foro di Roma, in sostituzione
dell’avv. Giovannandrea ANFORA, per la difesa della Righero, che ha concluso
per il rigetto dei ricorsi.
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Data Udienza: 04/03/2014

RITENUTO IN FATTO
Integralmente riformando la sentenza emessa dal Tribunale di Torino in
data 24 febbraio 2011, la Corte di appello piemontese assolveva, perche il
fatto non costituisce reato (quindi, deve ritenersi, per assenza dell’elemento
soggettivo), Righero Marina del reato di cui all’art. 544-bis cod. pen.,
consistente, secondo la rubrica contestatale, nell’aver cagionato, con crudeltà
e senza necessità, la morte di un esemplare canino, di razza schnautzer e di

imputazione, “massiccia” di un medicinale anticoagulante, da lei stessa
assunto a fini terapeutici.
Ribaltando, come detto, la decisione assunta in primo grado, con la quale
era stata, invece, riconosciuta la penale responsabilità della Righero
relativamente al predetto reato, la Corte territoriale ha argomentato sia con
riferimento alla mancanza di una valida prova in ordine alla effettiva causa
della morte del predetto animale d’affezione – mancanza derivante sia dalla
inaffidabilità, sotto il profilo del rispetto del contraddittorio in occasione della
loro acquisizione, di molte delle informazioni assunte in merito alle cause del
decesso del ricordato animale, sia dalla stessa incertezza manifestata sul
punto dal perito nominato dal giudice nel corso del dibattimento di primo
grado – sia con riferimento alla mancanza di elementi in ordine alla
sussistenza in capo alla imputata del richiesto elemento soggettivo.
Invero la Corte di appello, anche laddove si dovesse ritenere che il
decesso della cagnetta sia derivato dalla assunzione del ricordato medicinale
anticoagulante, ha rilevato che non sussisterebbero elementi certi onde
affermare che detto medicinale sia transitato nel cibo destinato alla cagnetta
per espressa volontà della imputata e non invece per disattenzione della
stessa Righero, ovvero sia stato assunto dalla bestiola in quanto rinvenuto per
terra, caduto dalle tasche della imputata.
In definitiva, la Corte, rilevata la mancata prova, oltre ogni ragionevole
dubbio, della colpevolezza sotto il profilo soggettivo della condotta della
imputata, la ha assolta, come detto, perché il fatto non costituisce reato.
Avverso detta sentenza hanno proposto appello, con distinti ricorsi,
redatti in termini d frequente coincidenza dai rispettivi difensori, le due parti
civili costituite, Martelli Emilio Angelo e Palestro Martelli Anna Michela, coniugi
fra loro, proprietari dell’animale d’affezione deceduto.
Con un motivo, comune ai due ricorsi, si lamenta la mancanza,
contraddittorietà ed illogicità della sentenza d’appello, in riferimento alla
sottovalutazione delle risultanze della perizia di ufficio disposta nel corso del
dibattimento di primo grado.
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sesso femminile, somministrandogli una dose, definita nel capo di

In particolare si censura il fatto che, senza adeguata motivazione, la
Corte di appello abbia trascurato le conclusioni tratte dal perito d’ufficio
nominato dal Tribunale, valorizzando, invece, quelle del consulente della
difesa dell’imputata.
Nel ricorso della parte civile Palestro Martelli, al secondo motivo, è
dedotta la illegittimità della sentenza in quanto essa sarebbe caratterizzata da
interna contraddittorietà stante il fatto che in alcuni punti di essa si danno per

consumato il pasto serale in data 3 ottobre 2007) che, in altri passi della
sentenza, sono descritti in termini opposti (ad esempio laddove si afferma,
onde escludere la responsabilità della imputata, che il tempo intercorso fra il
pasto serale del cane e l’insorgere dei sintomi della intossicazione era stato
troppo breve, per porre i due fatti in relazione fra loro).
Quanto al ricorso della parte civile Martelli, in esso, con motivo autonomo,
si contesta la motivazione della sentenza, sostenendone la illogicità,
contraddittorietà ed omissività nella parte in cui esclude la sussistenza in capo
alla imputata dell’elemento soggettivo idoneo ad integrare l’ipotesi di reato a
lei contestata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I due ricorsi, risultati infondati, non sono, pertanto, meritevoli di
accoglimento.
Osserva, in linea di principio, il Collegio che, essendo stati proposti
esclusivamente dalle due costituite parti civili, i ricorsi impugnatori, pur
avendo ad oggetto la sentenza con la quale la Righero è stata mandata
assolta dalla Corte di appello di Torino dalla imputazione a lei ascritta, sono
idonei a spiegare i loro effetti, conformemente alla previsione di cui all’art.
576, comma 1, cod. proc. pen., ai soli effetti della eventuale responsabilità
civile di colei che era imputata nel processo penale.
Tanto premesso, rileva questa Corte che la Corte territoriale ha escluso la
penale responsabilità della imputata in ordine al fatto a lei ascritto in quanto
non è risultata adeguatamente provata la sussistenza dell’elemento soggettivo
a suo carico.
Di ciò è sicuro indice, oltre che il contenuto della sentenza assolutoria, il
fatto che la formula con la quale è stata esclusa la responsabilità penale della
Righero è “perché il fatto non costituisce reato”.
A tal riguardo deve essere prioritariamente rilevato che, stante la
imputazione contestata alla prevenuta, cioè la violazione dell’art. 544-bis cod.
pen., ai fini della integrazione della fattispecie penale è necessario che sia
dimostrato che la condotta posta in essere dall’agente sia animata dal
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acquisiti determinati eventi (ad esempio il fatto che il cane non abbia

particolare atteggiamento della volontà consistente nel dolo, sia pure nella
sua forma generica, cioè dalla consapevole volontà di cagionare, con crudeltà
ovvero senza necessità, quale effetto della propria azione la morte di un
animale.
Poiché la valutazione dell’elemento soggettivo è evidentemente
espressione del potere di apprezzamento del fatto, che è monopolio esclusivo
del giudice del merito, in questa sede di legittimità, non può essere consentita
una rivalutazione degli elementi di fatto che hanno condotto la Corte

volontà.
Compito di questa Corte è, pertanto, solo quello di valutare, in relazione
alle doglianze formulate dai ricorrenti, se la motivazione con la quale la Corte
territoriale ha escluso la sussistenza del necessario elemento soggettivo in
capo alla Righero sia congrua sub specie legitimitatis; cioè se essa sia immune
da vizi logici o giuridici.
Ritiene il Collegio che sul punto la Corte di Torino abbia adeguatamente
motivato rilevando che non è emerso alcun elemento che possa far ritenere
che la imputata abbia volontariamente somministrato alla cagna degli attuali
ricorrenti, al fine di ucciderla, il medicinale che ella assumeva per fronteggiare
suoi disturbi di circolazione sanguigna.
Infatti, sebbene sia del tutto verosimile ritenere che – essendo la Righero
unica fra gli occupanti l’appartamento degli attuali ricorrenti ad utilizzare, ed
ad averne, pertanto la disponibilità, dei farmaci contenenti il principio attivo
che, probabilmente in associazione col suo complessivo precario stato di
salute (non è, infatti, trascurabile il dato che l’animale avesse, per causa
certamente indipendente da qualsivoglia fattore esogeno, .1.4e5se ormai
cessato di deambulare e proprio il giorno precedente al suo decesso era stato
portato a fare una visita veterinaria di controllo), ha cagionato il decesso
deli’animale di cui al capo di imputazione – la assunzione di detto medicinale
da parte di tale animale sia causalmente ascrivibile ad una qualche condotta
della imputata, è perfettamente condivisibile l’assunto fatto proprio dal giudice
di seconde cure, in base al quale non vi è motivo di ritenere che detta
condotta, il cui concreto atteggiarsi è peraltro del tutto ignoto, fosse
consapevolmente diretta a cagionare tale decesso.
Elemento assai pregnante nella coerente ricostruzione operata dalla Corte
di appello, e volto ad escludere che in capo alla prevenuta fosse presente la
volontà di uccidere la predetta bestia, è costituito dal fatto che, come
indubitabilmente emerso dalle risultanze processuali, la quantità di principio
attivo, come detto costituito da una sostanza anticoagulante denominata
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subalpina ad escludere la sussistenza del predetto atteggiamento della

warfarin (e non walfarin come più volte si legge nella impugnata sentenza)
presente nella composizione di un farmaco, a sua volta commercializzato col
nome di Coumadin, assunto quale fluidificante ematico dalla imputata nonché,
in ben più elevata concentrazione, in alcuni prodotti specificamente utilizzati
come topicidi, rinvenuto nel corpo della bestia morta fosse piuttosto contenuta
(dato emergente, fra l’altro, dalla mancanza sul corpo dell’animale delle
imponenti emorragie interne che sono di regola i segni esteriori

laddove la somministrazione avvenga a fini letali, in massiccia quantità).
Questa circostanza – significativamente in contrasto con quanto, invece,
erroneamente indicato nel capo di imputazione contestato alla Righero induce legittimi e giustificati dubbi sulla direzione

necandi causa della

condotta della stessa Righero.
Striderebbe, infatti, con la più elementare logica ritenere che la donna,
volendo uccidere la bestia, abbia limitato la quantità di prodotto alla sola dose
ritrovata sul corpo della cagna morta, né è pensabile che la Righero,
certamente digiuna di nozioni di tossicologia, abbia saputo dosare il
medicinale, del quale è non è stato neppure accertato se ella era consapevole
della possibile efficacia micidiale, in misura tale da provocare sì la morte della
bestia ma non i consueti segni esteriori che accompagnano l’avvelenamento
da

warfarin.
È, pertanto, del tutto ragionevole la inferenza operata dalla Corte di

appello che ha ritenuto che il dato sopra descritto fosse un indice della
assenza di una precisa

voluntas necandi in capo alla imputata.

Riguardo al fatto che nel testo della sentenza impugnata siano state
maggiormente valorizzate le risultanze rivenienti dalla attività consultiva del
tecnico di parte rispetto a quella svolta dal tecnico di ufficio, doglianza
costituente l’ulteriore motivo di impugnazione proposto dalle parti ricorrenti,
osserva il Collegio che tale dato avrebbe avuto una sua astratta rilevanza
laddove, attraverso le tesi espresse dal consulente di ufficio, si fosse potuti
giungere ad affermare la responsabilità della imputata.
Ciò, però, non si verifica in quanto i ricorrenti non evidenziano l’esistenza
di alcuna indicazione contenuta nelle dichiarazioni rese dal consulente tecnico
di ufficio che, discostandosi da quelle espresse dal consulente di parte,
avrebbe portato ad affermare, o quanto meno a prospettare in termini di
significativa attendibilità, l’esistenza dell’elemento soggettivo proprio del reato
contestato in capo alla prevenuta.
Sotto il profilo dedotto, pertanto, la censura formulata dai ricorrente,
prima che infondata, è irrilevante nel presente giudizio.
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dell’avvelenamento da warfarin se esso sia ingerito, come di regola avviene

Lo stesso dicasi

in

relazione alle

prospettate discrasie

nella

rappresentazione dei fatti contenute nella sentenza in scrutinio, discrasie che
non attengono ad elementi su cui si sia fondato il giudizio assolutorio espresso
dalla Corte piemontese, e che quindi non assurgono a fattori inficianti la
legittimità dell’impugnata sentenza.
Al rigetto dei ricorsi proposti dalla due costituite parti civili segue la
condanna di questa al pagamento delle spese processuali.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, il 4 marzo 2014
Il Consigliere estensore

il Presidente

PQM

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