Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32471 del 07/05/2014


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 32471 Anno 2014
Presidente: FOTI GIACOMO
Relatore: MONTAGNI ANDREA

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
CICILANO LUIGI CONSIGLIO N. IL 12/05/1984
avverso la sentenza n. 6860/2010 GIP TRIBUNALE di FOGGIA, del
09/06/2010
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI;

Data Udienza: 07/05/2014

Motivi della decisione
Cicilano Luigi Consiglio ha proposto appello avverso la sentenza del G.i.p.
presso il Tribunale di Foggia in data 9.06.2010, con la quale, ai sensi dell’art. 444
cod. proc. pen., è stata applicata la pena concordata dalle parti di un anno e mesi
dieci di reclusione ed C 2.000,00 di multa, in ordine al reato di cui all’art. 73,
comma V, d.P.R. n. 309/1990, afferente alla detenzione di 38 dosi di cocaina.
La parte denuncia il vizio motivazionale, osservando che il giudice non si è
soffermato sulle emergenze dibattimentali.

Nel merito, l’esponente rileva che mancano elementi per convalidare
l’ipotesi accusatoria.
Sul piano sanzionatorio, la parte rileva che nella sentenza non risulta
chiarito il bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche, rispetto alla
contestata aggravante.
L’impugnazione, da qualificarsi come ricorso per cassazione, avendo ad
oggetto sentenza inappellabile, è inammissibile.
Come noto, questa Suprema Corte ha ripetutamente affermato il principio
che l’obbligo della motivazione della sentenza non può non essere conformato alla
particolare natura giuridica della sentenza di patteggiamento: lo sviluppo delle
linee argomentative è necessariamente correlato all’esistenza dell’atto negoziale
con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti
nell’imputazione. Ciò implica che il giudizio negativo circa la ricorrenza di una delle
ipotesi di cui all’art. 129 cod. proc. pen. deve essere accompagnato da una
specifica motivazione solo nel caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti
emergano concreti elementi circa la possibile applicazione di cause di non
punibilità, dovendo invece ritenersi sufficiente, in caso contrario, una motivazione
consistente nella enunciazione, anche implicita, che è stata compiuta la verifica
richiesta dalla legge e che non ricorrono le condizioni per la pronunzia di
proscioglimento ex art. 129 (Sez. U. 27 marzo 1992, Di Benedetto; Sez. U. 27
dicembre 1995, Serafino). Tale orientamento è stato concordemente accolto dalla
giurisprudenza successiva. Anche per ciò che riguarda gli altri tratti significativi
della decisione, che riguardano precipuamente la qualificazione giuridica del fatto,
la continuazione, l’esistenza e la comparazione delle circostanze, la congruità della
pena e la sua sospensione, la costante giurisprudenza di questa Corte, nel solco
delle enunciazioni delle Sezioni unite, ha affermato che la motivazione può ben
essere sintetica ed a struttura enunciativa, purché risulti che il giudice abbia
compiuto le pertinenti valutazioni. Né l’imputato può avere interesse a lamentare
una siffatta motivazione censurandola come insufficiente e sollecitandone una più
analitica, dal momento che la statuizione del giudice coincide esattamente con la
volontà pattizia del giudicabile.

A,

D’altra parte, attesa la natura pattizia del rito, chi chiede la pena pattuita
rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa. Ne consegue, come questa
Suprema Corte ha più volte avuto modo di affermare, che l’imputato non può
prospettare con il ricorso per cassazione censure che coinvolgono il patto dal
medesimo accettato. Ed il giudice, nel caso di specie, ha espressamente
considerato che non doveva pronunciarsi sentenza di proscioglimento, alla luce del
verbale di arresto. In riferimento al calcolo della pena, il G.i.p. ha poi rilevato che
correttamente era stata riconosciuta l’ipotesi di cui all’art. 73 comma V, d.P.R. n.

309/1990, con determinazione della pena in anni due e mesi nove di reclusione
oltre la multa, pena poi ridotta sino alla misura indicata per la diminuente di rito.
Tanto chiarito, si osserva che l’entità della pena concordata dalle parti ed
applicata dal giudice risulta congrua, anche in considerazione delle sopravvenute
modifiche normative.
Come noto, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale del 12
febbraio 2014 n. 32, la disciplina in materia di sostanze stupefacenti che viene in
rilievo è quella prevista dal d.P.R. n. 309/1990, nella versione antecedente alle
modifiche introdotte dal d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni
dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, di talché la pena per le c.d. droghe pesanti, ai
sensi dell’art. 73, comma V, d.P.R. n. 309/1990, va da uno a sei anni di reclusione,
oltre la multa.
Nel caso di specie è stata infatti applicata l’ipotesi di cui all’art. 73, comma V,
d.P.R. n. 309/1990, in riferimento alla detenzione a fine di spaccio di sostanza
stupefacente di tipo cocaina. Devono allora richiamarsi pure le modifiche introdotte
all’art. 73, comma V, cit., dall’art. 2, comma 1, d.l. 23 dicembre 2013 n. 146,
convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014,
n.10, in applicazione del principio di retroattività della legge più favorevole. Ai fini
di interesse, si rileva che a seguito delle richiamate modifiche è oggi prevista, per
l’ipotesi di cui all’art. 73, comma V, cit., la pena della reclusione da uno a cinque
anni, oltre la multa.
L’ordine di considerazioni che precede induce conclusivamente a rilevare che
le sopravvenute modifiche normative non risultano rilevanti, rispetto alla
valutazione relativa alla congruità della pena applicata nel caso di specie; ed
invero, il calcolo relativo al trattamento sanzionatorio muove dalla pena base di
anni due mesi nove di reclusione – rispetto alla detenzione delle diverse dosi di
cocaina oggetto di addebito – misura di pena che si colloca sostanzialmente nella
fascia mediana, anche rispetto alla più favorevole cornice edittale di riferimento.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.500,00 in
favore della Cassa delle Ammende.

A

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di € 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, in data 7 maggio 2014.

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