Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32453 del 16/07/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 32453 Anno 2014
Presidente: AGRO’ ANTONIO
Relatore: APRILE ERCOLE

SENTENZA

sul ricorso presentato da
Capone Carmelo, nato a Messina il 17/09/1960

avverso l’ordinanza del 24/03/2014 del Tribunale di Messina;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Aldo
Policastro, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
uditi per l’imputato l’avv. Alberto Gullino e l’avv. Marcello Scurria, che hanno
concluso chiedendo l’annullamento della ordinanza impugnata.

RITENUTO IN FATTO
E CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con l’ordinanza sopra indicata il Tribunale di Messina, in accoglimento
dell’appello

ex art. 310 cod. proc. pen. avanzato dal P. M., annullava il

provvedimento del 22/01/2014 con il quale il Collegio dello stesso Tribunale,
quale giudice del dibattimento, aveva revocato la misura degli arresti domiciliari

Data Udienza: 16/07/2014

alla quale era stato sottoposto Natale Capone, in relazione ad una serie di reati
di truffa aggravata, e disponeva nei riguardi del prevenuto il ripristino di quella
medesima misura cautelare.
Rilevava il Tribunale come gli elementi evidenziati dal Collegio del dibattimento
– il decorso del tempo, l’intervenuta apertura dell’istruttoria dibattimentale e
l’avviso dell’attività di assunzione delle prove – fossero ‘neutri’ e, comunque,
inidonei a far ritenere oramai cessata la già riconosciuta esigenza di evitare che
l’imputato potesse tornare a commettere reati della stessa specie di quelli

2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso Carmelo Capone, con atto
sottoscritto dai suoi difensori avv. Alberto Gullino e avv. Marcello Scurria, il quale
ha dedotto i seguenti due motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 416, 314, 640 bis, 316 ter e 323
cod. pen., 310, 597, comma 1, 125, comma 3, 273, 274 e 275 cod. proc. pen., e
vizio di motivazione, per avere il Tribunale dell’appello, in violazione del principio
devolutivo, disposto il ripristino della anzidetta misura cautelare:
a) senza effettuare una nuova ed autonoma verifica della permanenza delle
esigenze cautelari;
b) motivando la propria decisione ‘per relationem’ con una impropria trascrizione
del contenuto delle precedenti ordinanze adottata da quel Tribunale in sede di
riesame, peraltro neppure presenti nel fascicolo del procedimento;
c) disattendendo la disposizione che stabilisce la incompatibilità dei componenti
del collegio rispetto alle precedenti decisioni cautelari;
d) valorizzando, per l’affermazione di persistenza delle esigenze cautelari, dati
non corrispondenti al vero ed elementi puramente congetturali, senza
considerare che l’associazione Ancol facente capo al Capone non è più operativa,
essendo stati sottoposti a sequestro tutti i conti ad essa intestati, e che alla
stessa è stato ritirato, con atti amministrativi oramai definitivi, l’accredito per
assumere iniziative di formazione per la Regione Sicilia;
e) richiamando il contenuto di una conversazione tra il Capone ed il Sauta
intercettata dagli inquirenti, mezzo di ricerca della prova inutilizzabile, colloquio
dal tenore non univoco;
f) riferendosi ad una supposta esigenza connessa al pericolo di inquinamento
probatorio, laddove tale bisogno di cautela non era stato neppure menzionato
nell’atto di appello a suo tempo proposto dal P.M.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 416, 640 bis, 316 ter, 323 e 479
cod. pen., 273 e 274 cod. proc. pen., e vizio di motivazione, per avere il
Tribunale di Messina erroneamente ed illogicamente ritenuto la sussistenza dei
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addebitatigli.

gravi indizi di colpevolezza a carico del Capone in ordine ai delitti ascrittigli,
laddove nessun artificio o raggiro era stato utilizzato dal prevenuto; le condotte
tenute erano rispettose delle specifica regolamentazione regionale in materia di
conflitti di interesse, talché l’imputato aveva agito, comunque, senza il
necessario dolo; le iniziative non erano state dirette al conseguimento di alcun
ingiusto profitto; l’asserita incongruità dei costi (e non anche la loro fittizietà,
che era stata esclusa, essendo state le spese effettivamente sostenute) era stata
determinata sulla base di parametri disomogenei ovvero di dati sganciati dai

più integrato gli estremi di una esposizione menzognera o di un silenzio
antidoveroso, qualificanti il reato di cui all’art. 316 ter cod. pen., meno grave
rispetto alla truffa; il concorso morale nel supposto falso ideologico del revisore
non era stato dimostrato.

3. Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato.

3.1. Il primo motivo del ricorso è, nelle sue varie articolazioni, infondato.
Premesso che pacificamente non sussiste alcuna incompatibilità ex art. 34 cod.
proc. pen. a comporre il collegio, chiamato a pronunciarsi su un appello ai sensi
dell’art. 310 cod. proc. pen., per i magistrati che hanno composto il collegio che
in precedenza aveva deciso sulla richiesta di riesame a mente dell’art. 309 del
codice di rito avverso l’originario provvedimento genetico della misura cautelare,
va rilevato come sia priva di pregio la doglianza concernente la tecnica
argomentativa impiegata nell’ordinanza gravata: la quale presenta sì una
motivazione che fa espressamente rinvio al contenuto della pronuncia del
riesame; tuttavia, si tratta di una tecnica pacificamente ammissibile
ogniqualvolta – come nella fattispecie è accaduto – il giudicante valorizzi la
motivazione

per relationem,

utilizzando un richiamo al tenore di altro

provvedimento conosciuto o conoscibile alle parti, che sia congruo rispetto
all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento che opera il rinvio, e che
il giudice ‘rinviante’ dimostri di aver inteso valorizzare, mediare e fare proprio in
maniera funzionale rispetto alla spiegazione della propria decisione (così a
partire da Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera Rv. 216664; conf., in
seguito, tra le diverse, Sez. 4, Sentenza n. 4181 del 14/11/2007, Benincasa, Rv.
238674; Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004, Esposito, Rv. 229246).
Nel merito va evidenziato che la motivazione del provvedimento impugnato si
presenta completo, congruo e privo di manifesti vizi di logicità, avendo il
Tribunale di Messina, per un verso, sottolineato come il Giudice di dibattimento
avesse irragionevolmente giustificato la revoca della misura cautelare in corso

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principi elementari della scienza commercialistica, e, in ogni caso, avrebbero al

con un’asserita sopravvenuta cessazione delle già riconosciute esigenze cautelari
per circostanze di valore sostanzialmente ‘neutro’ – quali il decorso del tempo,
l’avviato giudizio e l’instaurata istruttoria dibattimentale – per altro verso, posto
in evidenza come l’assoluta gravità di condotte truffaldine, poste dal Capone in
essere in danno dell’ente regionale con la prolungata appropriazione di milioni di
euro di contributi pubblici, e come la personalità del predetto, negativamente
lumeggiata da una non comune disinvoltura e spregiudicatezza nel dirigere un
sistema complesso ed organizzato di iniziative delittuose, avessero dimostrato la

reati della stessa specie di quelli per i quali si procede: pericolo attuale – cui si
aggiunge anche il già ravvisato rischio di inquinamento probatorio, desumibile
dall’accertata messa a disposizione degli inquirenti, da parte del fratello
dell’odierno ricorrente, di documentazione mendace – se è vero che, come
convincentemente posto in evidenza dai Giudici della cautela, ancora nel
dicembre del 2012, il Capone era stato intercettato nel mentre con altri suoi
correi stava programmando ulteriori iniziative per ‘aggirare’ la revoca degli
accrediti ed il blocco dei finanziamenti ordinati dagli uffici regionali, con il
‘dirottamento’ dei denari pubblici verso nuovi enti di formazione. Argomenti
rispetto ai quali il ricorrente si è limitato a proporre una alternativa ricostruzione
dei dati fattuali a disposizione, in pratica sollecitando una differente lettura di
quei dati di conoscenza, non consentita in questa sede di legittimità.

3.2. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile per violazione per principio
devolutivo.
Costituisce ius receputm nella giurisprudenza di legittimità il principio per il
quale il tribunale in sede di appello ex art. 310 cod. proc. pen., a differenza di
quello del riesame, per il quale si prescinde dal principio di stretta devoluzione,
ha cognizione circoscritta ai punti della decisione che hanno formato oggetto di
censura, secondo la norma generale di cui all’art. 597, comma 1, cod. proc. pen.
L’appello ex art. 310, infatti, implica il cosiddetto giudicato cautelare, e cioè una
situazione immutabile rebus sic stantibus, sicché le parti hanno un onere di
doglianza specifica cui fa riscontro un obbligo specifico di decisione, con
conseguente impossibilità di andare ultra petita, al di fuori dell’ambito devoluto
(così, tra le tante Sez. 6, n. 6592, del 25/01/2013, Rv. 254578; Sez. 1, n. 43913
del 02/07/2012, Rv. 253786; Sez. 6, n. 19008 del 17/04/2012, Rv. 252874).
In applicazione di tale regula iuris bisogna prendere atto come, mentre era
consentito l’esercizio da parte del Tribunale del più ampio potere di
argomentazione delle ragioni afferenti ai bisogni di cautela, ogni questione
concernente la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e la configurabilità dei
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sussistenza di un concreto rischio che lo stesso potesse tornare a commettere

reati contestati all’imputato è estranea all’odierno

thema decidendum,

circoscritto dall’appello presentato dal P.M. alle sole questioni inerenti alla
esistenza delle esigenze di cautela ed al ripristino della misura originariamente
disposta nei riguardi del prevenuto.

4. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la
condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 reg. esec. cod. proc.
pen.
Così deciso il 16/07/2014

presente procedimento.

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