Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32430 del 17/04/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 32430 Anno 2013
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA

Sul ricorso proposto dall’Avvocato Mauro Cordasco, quale difensore di
Tancredi Maurizio (n. il 23/02/1979), avverso l’ordinanza del Tribunale di
Catanzaro, in data 09/10/2012.
Sentita la relazione della causa fatta dal Consigliere Adriano lesili°.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Giuseppe
Volpe, il quale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
Osserva:

Data Udienza: 17/04/2013

Con ordinanza del 27.09.2012, il G.I.P. del Tribunale di Castrovillari
emise la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di Tancredi
Maurizio, indagato per i reati di tentata estorsione aggravata in concorso e
furto aggravato.
Avverso il provvedimento di cui sopra l’indagato propose istanza di
riesame, ma il Tribunale di Catanzaro, con ordinanza del 09.10.2012, la
Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato deducendo la carenza
di motivazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza per il
reato di tentata estorsione. In particolare rileva che la frase pronunciata dal
Tancredi non può essere considerata una minaccia; inoltre non è stata fornita
alcuna motivazione sulla sussistenza

“dell’elemento psicologico del

concorso”.

Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata ordinanza.

motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606, comma 1, cod.
proc. pen., perché propone censure attinenti al merito della decisione
impugnata, congruamente giustificata.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la
giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass.
Sez. 4 sent. n. 47891 del 28.09.2004 – dep. 10.12.2004 Rv 230568; Cass.
Sez. 5 sent. n. 1004 del 30.11.1999 – dep. 31.1.2000 – Rv 215745; Cass.,
Sez. 2 sent. n. 2436 del 21.12.1993 – dep. 25.2.1994 – Rv 196955).
Inoltre il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art. 591 lettera
c) in relazione all’art. 581 lettera c) cod. proc. pen., perché le doglianze sono
prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento
impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto

respinse.

di impugnazione, s palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti, il
Tribunale ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione
evidenziato tutte le ragioni dalle quali desume i gravi indizi di colpevolezza a
carico dell’indagato per il reato di tentata estorsione. In particolare le
dichiarazioni della P.O. e le dichiarazioni del teste Sanzo Giuseppe. Il
Tribunale evidenzia, poi, correttamente perché ritiene la frase (“Allora che
dobbiamo fare?) e l’atteggiamento del Tancredi e dei suoi due coindagati
minacciosi e quindi perché il ricorrente debba rispondere del reato di tentata
estorsione in concorso (si veda pagina 4 dell’impugnata ordinanza). Quindi il
Tribunale ha esposto le ragioni per le quali ritiene sussistenti tutti gli elementi
costitutivi del reato di tentata estorsione, compreso — ovviamente — anche
l’elemento psicologico del reato; elemento costitutivo sul quale il Tribunale —
secondo il ricorrente — non avrebbe fornito un’esaustiva giustificazione a
fronte delle sue doglianze. Orbene, tale deduzione difensiva è logicamente
incompatibile con la decisione adottata e pertanto non era neppure
necessario che fosse confutata esplicitamente (Sez. 4, Sentenza n. 1149 del
24/10/2005 Ud. – dep. 13/01/2006 – Rv. 233187). A tal proposito questa
Suprema Corte ha, infatti, più volte, affermato il principio — condiviso dal
Collegio — che la regola della “concisa esposizione dei motivi di fatto e di
diritto su cui la decisione è fondata”, enunciata dall’art. 546, comma primo,
lettera e), cod. proc. pen., rende non configurabile il vizio di legittimità
allorquando nella motivazione il Giudice abbia dato conto soltanto delle
ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, in quanto
quelle contrarie devono considerarsi implicitamente disattese perché del tutto
incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni
giuridiche sviluppate. (principio richiamato dallo stesso Tribunale a pagina 4
del suo provvedimento; Sez. 4, Sentenza n. 36757 del 04/06/2004 Ud. dep.
17/09/2004 – Rv. 229688).
A fronte di tutto ciò il ricorrente contrappone, quindi, solo generiche
contestazioni in fatto, con le quali, in realtà, si propone solo una non
consentita — in questa sede di legittimità — diversa lettura del materiale
probatorio raccolto senza evidenziare alcuna manifesta illogicità o
contraddizione della motivazione. Inoltre, le censure del ricorrente non

dobbiamo fare? Aspettiamo? Ci mettiamo nel retro? E poi vediamo come

tengono conto delle argomentazioni del Tribunale. In proposito questa Corte
Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono
inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione
della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e
quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le
affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di
all’inammissibilità del ricorso (si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del
30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve
essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché —
ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della
somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi
dedotti. Inoltre, poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione
in libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’articolo 94, comma 1 ter,
delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale – che copia
della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui
l’indagato trovasi riOtretto perché provveda a quanto stabilito dal comma 1 bis
del citato articolo 94.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di mille euro alla cassa delle ammende.
Si provveda a norma dell’articolo 94 delle disposizioni di attuazione del
codice di procedura penale.
Così deliberato in camera di consiglio, il 17/04/2013.

aspecificità, che conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen.

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