Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3236 del 29/10/2014


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. 3 Num. 3236 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: GRAZIOSI CHIARA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
IMERI SERGIO N. IL 25/06/1952
avverso la sentenza n. 4741/2008 CORTE APPELLO di MILANO, del
27/06/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 29/10/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI
,j…,-Glv..„,,,,,
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott..
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv. ‘ti Q-:0-3-1-1:

‘L, Q; D

Data Udienza: 29/10/2014

16831/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 27 giugno 2012 la Corte d’appello di Milano ha accolto l’appello proposto
dal Procuratore Generale avverso sentenza del 28 gennaio 2008 – con la quale il Tribunale di
Como aveva assolto perché il fatto non costituisce reato Imeri Sergio dal reato di cui agli
articoli 517 c.p. e 4, comma 49, I. 350/2003, contestatogli per avere, nella sua qualità di

commercializzazione merce dichiarata come biancheria da letto in cotone, del valore
complessivo di € 55.410,42, di origine e provenienza dalla Bulgaria, su cui erano apposte false
indicazioni di provenienza, in particolare essendo inserito in ogni confezione della merce un
cartoncino con la dicitura “prodotto da Line Imersan – Stabilimento di Corso XX settembre 11521052 Busto Arsizio (Va)” – per cui, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto
l’imputato responsabile del reato a lui ascritto, condannandolo alla pena di otto mesi di
reclusione.
2. Ha presentato ricorso il difensore, sulla base di tre motivi.
Il primo motivo denuncia violazione delle regole del giusto processo ex articolo 6 CEDU per
non essere state nuovamente assunte in contraddittorio le prove dichiarative disponibili a
carico dell’imputato, pur essendo stata riformata la sentenza di assoluzione, in ossequio alla
sentenza 5 luglio 2011 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Dan contro Moldavia). Inoltre,
l’istruttoria cartolare del primo grado condurrebbe a un risultato contrastante con quanto
affermato dal giudice del secondo, dimostrando che vi era stato soltanto un errore nella
spedizione da parte della Srl in Bulgaria dei cartoni chiusi contenenti l’etichetta con la dicitura
più ampia tra i due tipi di etichetta utilizzati dalla società.
Il secondo motivo denuncia vizio motivazionale, in quanto il giudice d’appello avrebbe
travisato gli atti del processo. Un primo elemento di manifesta illogicità della motivazione
riguarderebbe la considerazione del dubbio del giudice di primo grado sulla prova processuale
del luogo sostanziale di lavorazione del prodotto. A ciò dovrebbe aggiungersi il travisamento
degli esiti della istruttoria cartolare, in cui sarebbero omessi alcuni passaggi fondamentali.
Premesso che il giudice di legittimità deve verificare che la motivazione non risulti logicamente
incompatibile con altri atti del processo e che il giudice di merito non sia incorso in
travisamento della prova, travisante sarebbe l’affermazione della corte territoriale che “ora non
si può ritenere che tutta la responsabilità per l’inserimento di indicazioni idonee a trarre in
errore il consumatore sia attribuibile alla società bulgara quando le etichette sono state spedite
dall’Italia secondo direttive della ditta italiana per il confezionamento che evidentemente
dovevano essere precise e dettagliate, specie se costituivano l’unica attività appaltata alla ditta
straniera”. Ciò sarebbe contrastante con i verbali stenotipici delle udienze 17 settembre e 30

legale rappresentante di Imersan Srl con sede in Busto Arsizio, importato in Italia ai fini della

novembre 2007, nonché con il documento proveniente dalla società bulgara prodotto, su
accordo delle parti, all’udienza del 28 gennaio 2008. In particolare, vi sarebbe contrasto con le
dichiarazioni rese nell’esame dall’imputato all’udienza del 17 settembre 2007, che avrebbe
affermato come l’inserimento della etichetta attestante la produzione in Busto Arsizio, pur
materialmente effettuato dalla ditta bulgara, deriverebbe da mero errore dell’imputato stesso,
consistito nell’invio in Bulgaria delle scatole contenenti appunto tali etichette. La ricostruzione
dell’imputato troverebbe “riscontro diretto” nella testimonianza di Rigorda Francesco

l’altro dichiarato che l’errore nella spedizione in Bulgaria degli scatoloni con le etichette
destinate al confezionamento italiano anziché quelle con il contenuto neutro “può essere
capitato certo”), nella deposizione del teste Moroni Fabio (produttore dei due tipi di etichette
che nell’udienza del 30 novembre 2007 aveva dichiarato che la differenza tra le due etichette
non era un errore di stampa bensì “una richiesta del cliente”), nella dichiarazione del 25
gennaio 2008 resa alla società italiana dalla società di confezionamento bulgara Texidea Ltd
(per cui tutta la produzione realizzata per la Sri italiana sarebbe “confezionata con le Vostre
etichette personalizzate ricevute a titolo gratuito, sulle quali non è riportata l’indicazione
dell’origine delle merci italiane”) e nel verbale di sequestro redatto dal Servizio Vigilanza
Antifrode Doganale di Como 1’11 ottobre 2005 (in esso si dà atto che il carico aveva indicazione
dell’origine non corrispondente al vero tranne “gli ultimi tre articoli della fattura”: se questi
recavano etichetta neutra, sarebbe verosimile che quella per la restante merce sia stata
inviata erroneamente). L’errore di spedizione secondo ricorrente costituirebbe una tesi che,
“ove accolta, avrebbe risolto in radice il processo”, essendo il reato in esame punibile solo a
titolo di dolo; ma il giudice d’appello non avrebbe affatto vagliato “questa situazione
pacificamente emergente dagli atti processuali” così “travisando (o meglio omettendo di
valutare) gli esiti dell’istruttoria”. Pertanto la sentenza dovrebbe essere annullata con rinvio
perché altra sezione della corte territoriale, “sulla scorta dei pacifici dati istruttori surrichiamati,
valuti se l’affermato errore di spedizione della merce sostenuto dall’imputato (e dimostrato
dagli altri elementi istruttori acquisiti), anziché l’errore di imbustamento da parte della società
bulgara (affermato dalla Corte d’Appello), sia tale da condurre a ritenere che manchi
l’elemento soggettivo del reato”.
Il terzo motivo denuncia violazione dell’articolo 517 c.p. in relazione all’articolo 4, comma
49, I. 350/2003. La norma, se correttamente interpretata, consentirebbe già di per sé di
ritenere che il reato contestato non sussista. Il giudice d’appello ha ritenuto che anche le
etichette “neutre” non erano tali, poiché l’indicazione del marchio di produzione italiano
evidenzia la provenienza italiana della merce; le altre etichette, poi, evidenziavano
specificamente la provenienza italiana. La giurisprudenza nomofilattica, però, insegna che
provenienza ed origine dei prodotti industriali non devono intendersi come provenienza da un
determinato luogo di fabbricazione, bensì da un determinato imprenditore che si assume la

(magazziniere e autista della Innersan Sri, che all’udienza del 30 novembre 2007 aveva tra

responsabilità della produzione. Pertanto non è sufficiente a integrare il reato né l’indicazione
di un marchio, né l’indicazione del nome della ditta, né l’indicazione della località in cui
quest’ultima ha sede. L’etichetta “neutra” – con la dicitura “Giulio Ferrini La Casa – biancheria
100% puro cotone” – non integrerebbe quindi il reato; ma non lo integrerebbe neppure l’altro
tipo di etichetta, anche se la giurisprudenza di legittimità ritiene che il reato sussista quando,
oltre al marchio o alla indicazione della località in cui ha sede, l’imprenditore apponga anche
una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o

medesima giurisprudenza riconosce che tale indicazione deve essere considerata falsa solo
allorché ricorrano i criteri indicati dal Codice Doganale Europeo, del quale, per questo genere di
prodotti, deve applicarsi l’articolo 24. La norma vigente all’epoca dei fatti stabiliva che “una
merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è
avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale”: dalla motivazione della sentenza
impugnata risulta che il giudice di primo grado conclude nel senso che “sembrerebbe che la
parte più significativa del prodotto tessile in questione sia effettivamente avvenuta in Italia
mentre in Bulgaria vi sarebbe stato soltanto il confezionamento e le etichette”. Ma se la
lavorazione sostanziale è avvenuta in Italia, le etichette in questione non avrebbero violato
l’articolo 517 c.p. in relazione all’articolo 4, comma 49, I. 350/2003.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
3.1 D primo motivo, che prospetta la violazione dell’articolo 6 CEDU in riferimento alla nota
sentenza del 5 marzo 2011, Dan contro Moldavia, a tacer d’altro, non ha pertinenza con
l’effettivo contenuto della sentenza impugnata, poiché questa non fa riferimento a prove
dichiarative di cui sarebbe quindi necessaria una nuova assunzione, bensì si fonda
sostanzialmente su elementi documentali oggettivamente certi, ovvero sul contenuto dei due
tipi di etichette utilizzate dalla S.r.l. di cui l’imputato era il legale rappresentante. Una nuova
assunzione di prove dichiarative che non hanno avuto alcuna concreta incidenza sul
mutamento della decisione da parte del giudice d’appello non costituirebbe dunque tutela del
diritto di difesa e in generale dei principi del giusto processo, bensì, al contrario, al processo
apporterebbe una inutile protrazione della sua durata, questa sì, effettivamente, incompatibile
con il canone del processo “giusto”. Né può ritenersi, è d’altronde evidente, che il principio
affermato nella suddetta sentenza della Corte di Strasburgo possa essere finalizzato, in difetto
di ulteriori concreti obiettivi difensivi, per pervenire semmai alla estinzione per prescrizione del
reato per cui si sta facendo il processo, giacchè non merita alcuna tutela quel che esce

comunque in un paese diverso da quello di effettiva fabbricazione, dal momento che la

dall’alveo del diritto per collocarsi sul piano dell’abuso degli istituti giuridici, sia processuali sia
sostanziali.
L’ulteriore doglianza, sempre inclusa in questo motivo, per cui l’istruttoria cartolare del
giudice di primo grado condurrebbe a un risultato opposto a quello che ne ha evinto il giudice
d’appello, non è pertinente con l’articolo 6 CEDU ed è, comunque, di natura chiaramente
fattuale.

3.2 II secondo motivo, in sostanza, censura il giudice d’appello per avere travisato, nella sua
motivazione, quanto emergerebbe da altri atti processuali.
Va anzitutto ricordato che integra il travisamento di prova soltanto una palese e non
controvertibile difformità tra i risultati obbiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e
quelli che il giudice di merito medesimo ne abbia inopinatamente tratto (così p. es. Cass. sez.
III, 7 luglio 2011 n. 37756), sia quando il risultato probatorio sia diverso da quello reale in
termini di “evidente incontestabilità”, sia quando il giudice si fonda su una prova in realtà
inesistente (cfr. Cass. sez. I, 17 novembre 2011 n. 47252; Cass. sez.II, 3 ottobre 2013
n.47035). Il che significa che non può identificarsi in una mera versione alternativa degli esiti
probatori: occorre invece una versione dei fatti univoca, e solo così idonea a sradicare quella
posta a base della decisione in punto di fatto (Cass. sez. VI, 8 marzo 2012 n. 11189; Cass.
sez.VI, 16 gennaio 2014 n.5146); una versione fattuale configurabile solo come opzione
alternativa trascende invece i limiti della cognizione di legittimità che, quanto alla valutazione
degli elementi probatori, ne circoscrivono il controllo alla verifica della rispondenza alle regole
della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza di adeguata integrità motivazionale (ex multis,
Cass. sez. VI, 4 aprile 2012 n. 18190).
L’ampia descrizione che più sopra si è svolta del contenuto del motivo dimostra che il
ricorrente non denuncia un reale travisamento (alla fine della esposizione del motivo, anzi, lo
stesso ricorrente passa, in sostanza, dall’addebitare al giudice di appello un travisamento
all’imputargli una inadeguata valutazione di elementi che supporterebbero quella che il
ricorrente stesso definisce una “tesi”), bensì illustra dettagliatamente una sua versione
alternativa dei fatti, che mira a dimostrare che le etichette “non neutre” utilizzate dalla ditta
bulgara erano state a essa inviate per errore dall’imputato, il quale quindi non avrebbe
impregnato di alcun dolo la sua condotta. Peraltro, tra gli elementi evidenziati dal ricorrente
non ve ne è alcuno che possa assumere un calibro decisivo, tale da far ritenere che vi sia stato
travisamento, nel senso che le prove inequivocamente dimostrassero il suddetto asserito
errore. Si tratta, infatti, a ben guardare, di una dichiarazione dello stesso imputato resa
nell’esame, la cui veridicità sarebbe stata dichiarata semplicemente “possibile” da un suo
dipendente (il teste Rigorda) e sarebbe confermata dalla dichiarazione resa dalla società

Il motivo, in conclusione, deve essere ritenuto privo di consistenza.

bulgara direttamente al suo partner commerciale. Il motivo è pertanto manifestamente
infondato.
3.3 II terzo motivo, infine, adduce – dopo una serie di argomentazioni collegate anche a
giurisprudenza non pertinente visto il contenuto dell’etichetta apposta sui prodotti (come
l’orientamento che in rapporto al reato di cui all’articolo 517 c.p. valorizza non il luogo di
produzione, bensì l’imprenditore: cfr. p. es . Cass. sez. III, 26 agosto 1999 n. 2500 e, più di
recente, Cass. sez. III, 2 marzo 2006 n. 24043 e Cass. sez. III, 17 febbraio 2005 n. 13712) –

n.350 (che tutela il c.d. Made in Italy attingendo quoad poenam dall’articolo 517 c.p.: da
ultimo v. Cass. sez. III, 5 febbraio 2014 n. 21256 – che sottolinea come il reato suddetto sia
integrato qualora, attraverso indicazioni false e fuorvianti o mediante l’utilizzazione con
modalità decettive di segni e figure, il consumatore è indotto a ritenere che la merce sia di
origine italiana -, Cass. sez. III, 10 ottobre 2011-7 marzo 2012 n. 8938 e Cass. sez. III, 9
febbraio 2010 n. 19746), se la maggior parte della lavorazione del tessuto fosse avvenuta in
Italia, ai sensi dell’articolo 24 del Codice Doganale Europeo (regolamento CEE n.2913 del 12
ottobre 1992) l’etichetta “non neutra” apposta sulla merce in questione sarebbe veritiera, per
cui non sarebbe stato commesso alcun reato.
Presupposto di una simile prospettazione è ovviamente l’accertamento che in Italia il
prodotto avesse subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale. Al riguardo il
ricorrente valorizza un passo della motivazione della sentenza impugnata (a pagina 2) laddove
la corte territoriale rileva che il giudice di primo grado ha affermato che “sembrerebbe che la
parte più significativa del prodotto tessile” sia avvenuta in Italia, mentre in Bulgaria sarebbero
stati effettuati solo il confezionamento e l’inserimento delle etichette. Ma, a ben guardare, la
corte territoriale non ha ritenuto che realmente “la parte più significativa” sia stata operata in
Italia, bensì ha riportato il rilievo del primo giudice meramente allo scopo di argomentare nel
senso che “per la suddetta merce la confusione relativa alla sua origine nazionale” si è
“effettivamente verificata”. Il ragionamento, infatti, si inserisce nell’analisi del contenuto delle
etichette utilizzate dalla S.r.l. italiana, sul quale complessivamente il giudice d’appello ha
fondato la sua – peraltro concisa – motivazione.
La corte invero giunge alla

reformatio in pejus della sentenza di primo grado attraverso il

seguente percorso motivazionale. Anzitutto, osserva che anche le etichette neutre “tali invero
non possono ritenersi”, poiché l’indicazione del marchio di produzione italiano “ha sicuramente
lo scopo di evidenziare la provenienza italiana della merce”. Il rilievo è chiaramente infondato,
poiché la semplice indicazione di un marchio italiano non equivale alla attestazione della
provenienza dall’Italia in termini di produzione. Peraltro, il rilievo è parimenti ininfluente,
poiché la merce per cui è stato contestato il reato non aveva l’etichetta “neutra”, bensì quella
che induceva chiaramente a intendere che la produzione era stata effettuata a Busto Arsizio,

che, ai fini dell’accertamento del reato di cui all’articolo 4, comma 49, I. 24 dicembre 2003

nello stabilimento della S.r.l. di corso XX settembre. E infatti, dopo aver dato atto della
apparenza “singolare come scelta commerciale che un prodotto italiano o la cui parte
significativa sia realizzata in Italia venga poi spedito in un altro paese, nella fattispecie la
Bulgaria, esclusivamente per porre all’interno delle confezioni delle etichette, con il pericolo
concreto di errori, peraltro, come quello che si sarebbe verificato per il Tribunale nel caso de
quo”, la corte ha affermato di non essere chiamata a sindacare le scelte commerciali
dell’imprenditore e ha concluso: “Da tutta la vicenda ciò che appare evidente è che le etichette

provenienza italiana della merce stessa”.
Considerato allora che, come emerge da quanto adduce in termini fattuali lo stesso ricorso, le
etichette che attestavano la provenienza italiana della merce sarebbero state inviate per errore
dall’imputato alla ditta bulgara, ciò non può che significare che la predominante produzione era
avvenuta in Bulgaria, dato che, altrimenti, la difesa non si sarebbe conformata sulla
prospettazione di un errore, bensì sulla – del resto ben più agevole da dimostrare prospettazione che la merce poteva qualificarsi italiana ai sensi del Codice Doganale Europeo.
Pertanto il terzo motivo non è fondato, il passo della motivazione su cui si è incentrato non
comprovando, comunque, che la corte territoriale abbia ritenuto che l’attività produttiva si sia
svolta prevalentemente in Italia (l’ulteriore frase successiva della motivazione, nel senso che le
direttive della S.r.l. italiana per il confezionamento “dovevano essere precise e dettagliate,
specie se costituivano l’unica attività appaltata alla ditta straniera”, esprime ancora una mera
eventualità, e non l’accertamento da parte del giudice d’appello che la merce era stata
prodotta per lo più in Bulgaria).
In conclusione, quanto esposto dimostrando il grado manifesto di infondatezza di tutti e tre i
motivi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, il che tra l’altro impedisce la formazione
di un valido rapporto processuale di impugnazione e non consente quindi di valutare il profilo
della prescrizione del reato. La presenza di cause di non punibilità ex articolo 129 c.p.p. non è
infatti valutabile qualora non sia, appunto, stato instaurato validamente un ulteriore grado di
cognizione, come insegna la giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte (S.U. 22
novembre 2000 n. 32, De Luca; in particolare, l’estinzione del reato per prescrizione è
rilevabile anche d’ufficio a condizione che il ricorso sia idoneo a introdurre un nuovo grado di
giudizio, cioè non risulti affetto da inammissibilità originaria come invece si è verificato nel
caso de quo: ex multis v. pure S.U. 11 novembre 1994-11 febbraio 1995 n.21, Cresci; S.U. 3
novembre 1998 n. 11493, Verga; S.U. 22 giugno 2005 n. 23428, Bracale; Cass. sez. III, 10
novembre 2009 n. 42839, Imperato Franca). Alla dichiarazione di inammissibilità consegue poi
la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art.616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente
grado di giudizio. Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale emessa in data
13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato
presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si

di cartone trovate all’interno della merce evidenziavano al di là di qualsiasi dubbio la

dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in
favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

Così deciso in Roma il 29 ottobre 2014

Il Presidente

e della somma di €1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA