Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32351 del 26/06/2014


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Penale Sent. Sez. U Num. 32351 Anno 2014
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: MACCHIA ALBERTO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Tamborrino Emanuele, nato a Maglie il 15/11/1976

avverso la sentenza del 09/05/2013 del Tribunale di Lecce, sez. dist. di Maglie

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alberto Macchia;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Carlo Destro, che
ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. Barbara Renna, la quale ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 26/06/2014

RITENUTO IN FATTO

i

1. Con sentenza del 9 maggio 2013, il Tribunale di Lecce, sez. dist. di
Maglie, ha dichiarato Emanuele Tamborrino Emanuele del reato previsto dall’art.
44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, così modificata la originaria imputazione
dell’art. 44, lett. b) , dello stesso d.P.R., condannandolo alla pena di euro 6.000
di ammenda e concedendo al medesimo il beneficio della sospensione
condizionale della pena.

della ditta esecutrice dei lavori e con il progettista e direttore del lavori, poi
entrambi assolti per non aver commesso il fatto, realizzato un balcone, un vano
e una veranda in totale difformità rispetto al permesso di costruire rilasciato dal
Comune di Martano. Il Tribunale, all’esito della istruttoria dibattimentale, aveva
attribuito rilevanza decisiva alla violazione delle distanze del fabbricato
confinante ed alla inottemperanza alle prescrizioni imposte con il permesso di
costruire, il che aveva determinato la inquadrabilità del fatto nella previsione
dettata dall’art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, e non sotto la più grave
previsione della lettera b) del medesimo articolo, come in origine contestato.

2. Avverso la indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione il
difensore, il quale ha rassegnato tre motivi di impugnazione.
Nel primo si deduce violazione della disciplina in tema di oblazione. In
particolare, si osserva che la sentenza impugnata, avendo riqualificato il reato
sussumendolo nell’ambito di una fattispecie che avrebbe potuto essere definita
con l’oblazione, è suscettibile di censura nella parte in cui ha irrimediabilmente
precluso l’esercizio di un vero e proprio diritto, regolamentato dall’art. 162 cod.
pen., dal quale consegue una pronuncia favorevole all’imputato in quanto
dichiarativa dell’estinzione del reato. Poste in luce, in particolare, le differenze
che distinguono fra loro le figure della oblazione ordinaria di cui all’art. 162 cod.
pen. e della oblazione speciale prevista dall’art. 162-bis cod. pen., si osserva
come la prima – che viene appunto in discorso nel caso di specie corrisponderebbe ad un diritto soggettivo pubblico individuale, mediante il quale
l’interessato ha il potere di rinunciare alla garanzia della giurisdizione chiedendo
la irrogazione di una sanzione predeterminata con criterio rigido, tale da
determinare una sorta di automaticità nella applicazione della causa estintiva, in
considerazione della minima entità dell’illecito. Nel caso concreto, osserva il
ricorrente, il giudice, per consentire l’accesso al procedimento oblativo, avrebbe
dovuto d’ufficio determinare la somma da versare ed assegnare all’imputato un
termine con la sentenza di condanna entro il quale provvedere al pagamento. A

L’imputato era stato tratto a giudizio per avere, in concorso con il titolare

differenza del caso già scrutinato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 7645 del
28/02/2006, Autolitano, nella vicenda de qua la riqualificazione del fatto in reato
oblabile è avvenuta solo in sentenza – in un procedimento, per di più, di tipo
contumaciale – per iniziativa del giudice e non su impulso o sollecitazione del
pubblico ministero; sicché l’imputato, per la impossibilità di conoscere
preventivamente l’effettiva contestazione, è stato privato di un suo fondamentale
diritto, che ha impedito la produzione del favorevole effetto giuridico di
estinguere il reato.

preventiva modifica della contestazione, non può essere subordinato alla
preventiva richiesta dell’imputato, peraltro dipendente da una ipotetica o solo
eventuale riqualificazione del fatto in sentenza, ma dovrebbe essere lo stesso
giudice, di ufficio, ad informare il contravventore della possibilità di accedere ad
un procedimento che rappresenta un indubbio vantaggio per i positivi effetti che
è in grado di produrre.
Con il secondo motivo, il difensore lamenta la violazione degli artt. 3, 24 e
111 Cost., in quanto l’opzione ermeneutica volta a far dipendere la decadenza
dal diritto di oblazione ordinaria, allorché se ne concretizzino i presupposti solo
con la sentenza conclusiva del giudizio, dalla mancata presentazione di una
domanda preventiva o cautelativa dell’imputato, sarebbe contraria ai
fondamentali principi costituzionali di parità di trattamento e del giusto processo.
L’assegnazione di un termine per consentire l’esercizio del diritto di definire il
processo attraverso la oblazione, rappresenterebbe, dunque, soluzione idonea
per consentire al sistema di porsi in linea con i principi costituzionali.
Con il terzo ed ultimo motivo si deduce la violazione delle norme riguardanti
la modifica della imputazione e delle regole di garanzia nei confronti
dell’imputato assente o contumace, dal momento che la riqualificazione del fatto
ad opera del giudice vizierebbe la sentenza, perché non preceduta, a norma
dell’art. 520 cod. proc. pen., dalla sospensione del dibattimento e dalla notifica
del verbale di udienza contenente la modifica dell’imputazione, in modo da
permettere al contravventore di chiedere la definizione anticipata del
procedimento con oblazione.

3. Con ordinanza del 6 maggio 2014, la Terza Sezione penale, cui il ricorso
era stato assegnato, ha rimesso il ricorso medesimo alle Sezioni Unite, avendo
ravvisato la sussistenza di un potenziale contrasto con gli orientamenti sin qui
seguiti dalla giurisprudenza di legittimità.
L’ordinanza osserva, infatti, come il tema del rapporto tra l’istituto della
oblazione e la qualificazione giuridica del fatto-reato ritenuto in sentenza in

3

Si sottolinea, al riguardo, che l’accesso all’oblazione, in mancanza di una

termini diversi dalla accusa originariamente contestata, aveva in passato dato
luogo a soluzioni divergenti, a fronte delle quali si erano pronunciate le Sezioni
Unite con la sentenza n. 7645 del 28 febbraio 2006, Autolitano, nella quale era
stato affermato il principio secondo il quale, in assenza di modifica della
contestazione da parte del pubblico ministero ed in presenza di una diversa
qualificazione giuridica del fatto da parte del giudice, non avrebbe potuto trovare
applicazione la disposizione dell’art. 141, comma 4-bis, disp. att. cod. proc. pen.
L’interpretazione della disciplina di settore, che farebbe salva l’ipotesi che
l’imputato abbia avanzato richiesta di oblazione sulla base di una futura ed

ipotetica derubricazione del reato, sarebbe stata avallata da successive pronunce
(Sez. 2, n. 40037 del 14/10/2011, Mosole, Rv. 251546; Sez. 1, n. 14944 del
21/02/2008, Scarano, Rv. 240135), adottate pure della stessa Sezione
rimettente, la quale ha anche ritenuto manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 162 e 162-bis cod. pen., dell’art. 521 cod.
proc. pen. e dell’art. 141 disp. att. cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3 e 24
Cost. (Sez. 3, n. 12284 del 19/10/2011, Vavassori, Rv. 252244).
Peraltro, segnala il Collegio rimettente, la impostazione tradizionale, che
subordina l’accesso alla oblazione ordinaria ad una preventiva modifica
dell’imputazione su iniziativa del pubblico ministero e ad una espressa richiesta
del contravventore, non può automaticamente adattarsi anche alla ipotesi in cui
la riqualificazione del fatto avvenga ad opera del giudice direttamente in
sentenza. Mentre la soluzione seguita dalle Sezioni Unite nella richiamata
sentenza Autolitano parrebbe perentoria, nel senso che il diritto dell’imputato a
fruire della oblazione sarebbe tutelato solo nella ipotesi che nel corso del
dibattimento il pubblico ministero modifichi la contestazione e qualifichi il fatto
secondo una ipotesi di reato che, a differenza di quella originariamente
addebitata, consenta l’applicazione della disciplina relativa alla oblazione. In tal
modo riservando però alla sola parte pubblica una valutazione decisiva ai fini
della esperibilità del procedimento di oblazione, che, ove la contestazione non sia
stata modificata, non potrebbe che essere successivamente negata dal giudice.
Ad avviso della Sezione rimettente, tale orientamento non appare in linea
con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo per come
interpretati dalla Corte EDU, in particolare nella sentenza 11 dicembre 2007,
Drassich c. Italia. Principi che, invece, risulterebbero soddisfatti qualora
l’avvenuta riqualificazione del fatto operata dal pubblico ministero nel corso del
dibattimento ponga comunque l’imputato nella condizione di valutare il nuovo
quadro normativo di riferimento, non essendo richiesto, per il rispetto dei diritti
della parte, che il giudice informi lì’imputato stesso della possibilità che il fatto
contestatogli venga diversamente definito.
4
iI

Reputa, dunque, la Sezione rimettente che, dovendosi riconoscere in capo
all’imputato un diritto incondizionato ad attivare la procedura di oblazione, tale
diritto debba essere riconosciuto anche con riferimento al reato ritenuto dal
giudice in sentenza, e non solo in relazione a quello che la parte pubblica ha
inteso contestare all’atto dell’esercizio della azione penale. Un diritto che,
conclude l’ordinanza di rimessione, non risulterebbe adeguatamente tutelato
nella ipotesi – oggetto del ricorso – relativa ad una diversa e più favorevole
qualificazione giuridica del fatto operata in sentenza, non potendosi pretendere

epiloghi processuali e avanzino, prima delle conclusioni del pubblico ministero,
una richiesta di “oblazione condizionata” alla eventuale decisione.

4. Il Primo Presidente, con decreto del 12 maggio 2014, ha assegnato il
ricorso alle Sezioni Unite, fissandone per la trattazione l’odierna udienza
pubblica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono state invitate a fornire una
risposta è così riassumibile:

“Se la restituzione nel termine per proporre la

domanda di oblazione trovi applicazione solo nel caso in cui la modifica della
imputazione avvenga ad opera del pubblico ministero ovvero anche nella ipotesi
in cui sia il giudice ad attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica, che
consenta l’applicazione dell’oblazione, prescindendo dalla preventiva richiesta
dell’imputato”.
Sul punto il Collegio rimettente – pur non additando soluzioni alternative mostra di non aderire all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella
sentenza n. 7645 del 28 febbraio 2006, Autolitano, con la quale venne composto
un precedente contrasto registratosi nella giurisprudenza della Corte di
cassazione. Varie erano state, infatti, le posizioni emerse, a fronte della
problematica connessa al tema delle modifiche subite dalla imputazione al di
fuori delle contestazioni del pubblico ministero ed ai riverberi che da ciò
scaturivano sul piano della possibilità di attivare il procedimento per oblazione e di quali fossero le relative forme processuali – in rapporto alla diversa
qualificazione della regiudicanda.
1.1. Secondo un primo orientamento, che risulta ancora prevalere, si
sostiene che l’imputato, affinché possa essere ammesso ad estinguere un reato
non originariamente contestato come oblabile con l’atto di esercizio della azione
penale, deve presentare, in forma preventiva, l’istanza di oblazione, per l’ipotesi
5

che l’imputato e il difensore prendano anticipatamente in esame tutti i possibili

di un futuro o possibile mutamento del fatto. Ed è proprio questo il percorso
ricostruttivo adottato, nella sostanza, nella sentenza Autolitano, ove si è
affermato che sull’imputato incombe un onere di attivazione, con presentazione
di una espressa istanza di oblazione tesa a sollecitare una diversa e più
favorevole qualificazione giuridica del fatto, posto che, in mancanza, la dinamica
del procedimento e l’esigenza del contraddittorio precludono l’accesso al
beneficio, ove la modifica della imputazione provenga direttamente dal giudice
con la sentenza di condanna.

fase predibattimentale, anche nei casi in cui non sarebbe consentita l’oblazione,
presenterebbe il vantaggio di stimolare il giudice ad approfondire l’esame sulla
corretta qualificazione giuridica del fatto. L’imputato, dunque, nell’esercizio del
proprio diritto di difesa, non dovrebbe cristallizzare le proprie opzioni sulla
esclusiva falsariga della contestazione che gli è stata formalmente mossa, ma
dovrebbe altresì misurarsi con la possibilità di attribuire al fatto un diverso
nomen iuris,

e contestualmente chiedere, in base alla più favorevole

qualificazione del reato, di esercitare il proprio diritto di estinguerlo attraverso
l’oblazione. In caso contrario, l’imputato non potrebbe dolersi della impossibilità
di beneficiare della oblazione, ove – in ipotesi di derubricazione della originaria
fattispecie in altra per la quale è possibile l’oblazione – non abbia
tempestivamente sollecitato la più favorevole qualificazione giuridica del fatto
con la contestuale richiesta del beneficio (Sez. 1, n. 14944 del 21/02/2008,
Scarano, Rv. 240135; Sez. 1, n. 2610 del 30/11/2004, Amadiaze, Rv. 230953;
Sez. 1, n. 216275 del 12/05/2000, Monetto, Rv. 216275; Sez. 1, n. 8780 del
05/05/1999, Orfeo, Rv. 214646; Sez. 1, n. 13278 del 10/11/1998, Mangione,
Rv. 211868).
1.2. Secondo un diverso orientamento, rimasto peraltro isolato, si è
affermato che l’imputato possa essere ammesso al beneficio nei gradi successivi
di giudizio, mediante impugnazione della sentenza. Qualora, infatti, all’esito del
giudizio di primo grado, l’imputato venga riconosciuto responsabile di un reato
che, a differenza di quello originariamente contestato, renda possibile
l’estinzione mediante oblazione, si è ritenuto ammissibile che la relativa
domanda possa essere avanzata in sede di appello, trovando in tal caso
applicazione analogica la disciplina prevista dall’art. 604, comma 7, cod. proc.
pen. per il caso in cui il giudice d’appello riconosca erronea la reiezione della
domanda di oblazione da parte del giudice di primo grado (Sez. 3, n. 10634 del
26/06/1999, Stacchini, Rv. 214038).
La tesi, che, peraltro, come si è detto, non è stata più riproposta nella
giurisprudenza di legittimità, ha il difetto di configurare una sorta di “diritto
6

Anzi, una iniziativa in tal senso dell’imputato, volta a proporre l’istanza nella

d’appello” non in presenza di un difetto della sentenza impugnata ma in forza ed
a causa di un evento del tutto fisiologico ed espressamente riservato al giudice
all’atto della pronuncia della sentenza, quale è quello di dare al fatto, a norma
dell’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., una definizione giuridica diversa da
quella enunciata nell’imputazione n che, finirebbe ineluttabilmente per generare
una non consentita estensione di ciò che può formare oggetto di devoluzione
all’organo del gravame – posto che, per definizione, l’oblazione è, ove non
richiesta, un punto del tutto estraneo all’oggetto della decisione adottata in

tassatività che regola la materia delle impugnazioni.
D’altra parte, il riferimento all’art. 604, comma 7, cod. proc. pen., evocato
nella pronuncia che qui si critica, funge proprio da limite “inverso” rispetto alla
tesi della rinviabilità all’appello del tema e della richiesta di oblazione:
considerato, infatti, che, in base a quella previsione, al giudice di appello è
devolvibile esclusivamente il punto concernente la reiezione della domanda di
oblazione da parte del giudice di primo grado, ne deriva che, ove nessuna
richiesta di oblazione abbia investito il primo giudice, il suo silenzio su tale punto
è evidentemente eccentrico rispetto al perimetro della appellabilità. Per altro
verso, la tesi che vorrebbe affidare al giudice dell’appello un potere di
riammissione dell’imputato al diritto di chiedere l’oblazione, ove il primo giudice
abbia riqualificato il fatto come reato oblabile, si scontra con l’obiezione che le
sentenze di condanna per le quali sia stata applicata la sola pena dell’ammenda
non sono appellabili, a norma dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., con la
conseguenza che, in una ipotesi siffatta, verrebbe ad essere chiamato in causa come impropria sede “restitutoria” – il giudizio di legittimità, in evidente antitesi
sistematica con le funzioni e le caratteristiche proprie di quel giudizio, ed in
carenza, per di più, di uno specifico vizio della sentenza impugnata.
1.3. Secondo un terzo orientamento, avallato da pronunce adottate anche in
tempi recenti, per consentire all’imputato l’esercizio del diritto di richiedere

primo grado – con correlativo inammissibile superamento del regime di

l’oblazione nella ipotesi in cui la derubricazione del reato in una fattispecie
oblabile sia intervenuta direttamente con la decisione conclusiva del giudizio, si è
ritenuto di far leva sulla adozione di una “sentenza condizionata”, la quale,
restituendo d’ufficio l’imputato nel termine per proporre la richiesta, contenga,
oltre alla statuizione di condanna, anche l’ammissione al beneficio, con fissazione
di termini e modalità di pagamento della somma prevista dalla legge per
ottenere tempestivamente l’effetto estintivo del reato.
Secondo tale indirizzo, infatti, «qualora l’estinzione del reato per oblazione
divenga possibile solo in seguito alla modifica dell’ originaria imputazione
disposta con la sentenza pronunciata all’esito del dibattimento, mediante la
7

–“—–1

quale venga inflitta la pena per il reato in essa ritenuto, il giudice, con la stessa
sentenza, è tenuto d’ufficio ad ammettere l’imputato, che non ne abbia fatto
preventiva richiesta, all’oblazione, fissandone le modalità e subordinando
l’efficacia della condanna al mancato adempimento nel termine non superiore a
dieci giorni dal passaggio in giudicato della sentenza; sicché ove il pagamento
intervenga entro il termine stabilito, il reato deve essere dichiarato estinto dal
giudice dell’esecuzione; altrimenti la condanna diviene efficace ed eseguibile».
A meno che non si voglia pervenire ad una interpretazione sostanzialmente

della conformità ai principi di uguaglianza e ragionevolezza, nella ipotesi
considerata, si è infatti puntualizzato, l’impasse sarebbe superabile mutuando
dal processo civile l’istituto della “sentenza condizionata”, la quale «consiste nel
subordinare l’efficacia della condanna al verificarsi di determinati eventi futuri ed
incerti, allo scadere del termine, all’adempimento di una prestazione, ed è
ammissibile se circoscritta ai casi in cui l’accertamento dell’avverarsi della
condizione non comporti un nuovo giudizio di cognizione, ma possa essere fatto
valere in sede esecutiva» (Sez. 2, n. 40509 del 22/10/2001, Elidrissi, Rv.
220861; Sez. 2, n. 33420 del 10/09/2002, Bonavoglia, Rv. 222384; Sez. 3, n.
28682 del 06/04/2004, Bertalli, Rv. 229422; Sez. 3, n. 35113 del 05/05/2004,
Barletta, Rv. 229553; Sez. 2, n. 9921 del 20/10/2004, El Anoualy, Rv. 230919).
Posizioni analoghe sono state assunte, come si è accennato, anche in un
recente arresto, nel quale, pur prestandosi formalmente ossequio alla decisione
delle Sezioni Unite Autolitano, si è tuttavia rilevato come i relativi principi si
attagliassero a fattispecie diversa da quella oggetto dello scrutinio in quella
occasione devoluto alla Corte, in quanto, mentre nel caso affrontato dalle Sezioni
Unite non era stata formulata alcuna richiesta di oblazione, in quello oggetto di
esame la domanda di oblazione era stata formulata e pertanto alla stessa doveva
essere data risposta. Si è così affermato che qualora la proponibilità della
richiesta di oblazione divenga possibile solo in seguito alla modifica della
originaria e preclusiva imputazione, disposta con la sentenza che definisce il
giudizio, il giudice, oltre ad irrogare la corrispondente sanzione, è tenuto, con la
stessa sentenza e previa richiesta dell’imputato, a rimettere quest’ultimo in
termini per proporre la richiesta di oblazione, subordinando l’efficacia della
condanna al perfezionamento del relativo iter procedimentale. Precisandosi, al
riguardo, che, se il pagamento avviene nel termine stabilito, il reato si estingue e
la relativa declaratoria è pronunciata, ad istanza di parte, dal giudice
dell’esecuzione; altrimenti, la sentenza di condanna diviene efficace ed
eseguibile (Sez. 2, n. 40037 del 14/10/2011, Mosole, Rv. 251546).

8

abrogativa della norma che consente l’oblazione, con evidenti ricadute sul piano

Anche questo orientamento non può essere condiviso. La categoria delle
“sentenze condizionate” o di condanna condizionale, per la verità non poco
discussa anche in sede di dottrina processualcivilistica, nasce, infatti, dalla
varietà delle azioni esperibili nel processo civile e che sono ad esso intimamente
coese; senza, dunque, una reale possibilità di “esportare” quella categoria in altri
settori dell’ordinamento. Le cosiddette sentenze di condanna condizionate,
infatti, si iscrivono, come è d’altra parte ovvio, nell’ambito di previsioni tutte
tipizzate dalla pertinente disciplina codicistica, in funzione della peculiare natura

processuali delle parti nel giudizio civile. Una tematica, come è evidente, del
tutto eccentrica rispetto alla azione penale, pubblica, obbligatoria ed a schema
rigorosamente predefinito, così come altrettanto scandite dall’ordinamento
positivo si rivelano le alternative decisorie che sono offerte al giudice. La
assenza, dunque, di qualsiasi base normativa per poter configurare, non soltanto
una generale categoria di sentenze penali sub condicione, quanto, nello specifico,
una condanna “condizionata” alla eventuale, futura, domanda di oblazione, rende
impraticabile la strada ermeneutica additata nelle richiamate pronunce; non
senza rilevare, d’altra parte, come siano proprio gli esempi che vengono evocati
a sostegno di quella tesi a dimostrarne la sostanziale impraticabilità. Si
richiamano, infatti, le ipotesi della sospensione condizionale della pena o della
concessione dell’amnistia o dell’indulto subordinati all’adempimento di obblighi.
Ma è agevole osservare come gli istituti richiamati, specie la sospensione
condizionale della pena, dimostrino la tassatività delle relative previsioni, in sé
derogatorie rispetto al principio della immediata esecutività della sentenza di
condanna irrevocabile, anche se a contenuto “parziale”: al punto che, come è
noto, si ammette la immediata proponibilità del ricorso straordinario di cui all’art.
625-bis cod. proc. pen., anche da parte della persona condannata nei confronti
della quale sia stata pronunciata sentenza di annullamento con rinvio
limitatamente a profili che attengono alla determinazione del trattamento
sanzionatorio (Sez. U., n. 28717 del 21/06/2012, Brunetto, ove si rievoca la nota
tematica del giudicato cosiddetto progressivo) o da parte del condannato al solo
risarcimento dei danni in favore della parte civile (Sez. U., n. 28719 del
21/06/2012, Marani).
Del pari, risulta inconferente equiparare la procedura oblativa a quella
prevista per l’amnistia impropria o per l’indulto, nelle ipotesi in cui tali
provvedimenti impongano adempimenti comportamentali, dal momento che
quegli istituti, a differenza della oblazione che estingue il reato, operano come
cause estintive della pena, presupponendo, dunque, per necessità di cose, un
accertamento di colpevolezza.
9

dei diritti sostanziali coinvolti e dei petita che contraddistinguono le posizioni

Per altro verso, poiché la pronuncia modificativa del nomen iuris, ancorché
“condizionata” quanto alla esecuzione, sarebbe pur sempre una sentenza di
condanna, ove l’accertamento dei presupposti per la declaratoria di estinzione
del reato fosse riservata al giudice della esecuzione, come le pronunce in
questione suggeriscono, a quest’ultimo sarebbe affidato il compito di modificare
la natura stessa della sentenza, dopo che questa è divenuta irrevocabile.
Evenienza, questa, non soltanto non prevista e dunque non consentita, in quanto
derogatoria rispetto alla ordinaria distribuzione delle attribuzioni tra giudizio di

di economia processuale, imponendo una duplicazione di attività – condanna e
procedimento di oblazione – l’una antitetica rispetto all’altra. Cosicché, e
paradossalmente, un meccanismo di celere definizione della regiudicanda, quale
l’oblazione, volta idealmente ad evitare il giudizio, finirebbe irrazionalmente per
presupporlo.

2. L’orientamento privilegiato dalle Sezioni Unite nella richiamata sentenza
Autolitano deve pertanto essere riaffermato, pur se con talune puntualizzazioni.
Merita, infatti di essere preliminarmente sottolineata la circostanza che lo
specifico problema che viene qui in discorso finisce per iscriversi nel più ampio e
delicato contesto rappresentato dalle interferenze che scaturiscono dalle
modifiche che può subire l’imputazione nel corso del giudizio, rispetto alle scelte
difensive: prime fra tutte quelle che, appunto, si collegano con le opzioni per i
riti alternativi, fra i quali non può non essere annoverato proprio il procedimento
per oblazione.
Il tema ha, come è noto, rappresentato uno dei settori del nuovo processo
sui quali si è maggiormente concentrata l’attenzione della giurisprudenza
costituzionale, la quale, snodatasi attraverso percorsi evolutivi sempre più attenti
al soddisfacimento delle garanzie sostanziali, è giunta fino in tempi recentissimi
(l’ultima pronuncia, in ordine di tempo, è la sentenza n. 184 del 2014, depositata
il 25 giugno 2014) a colmare quelle lacune che il sistema – anche alla luce delle
profonde modifiche subite nel tempo dal giudizio abbreviato – era venuto via via
a profilare.
In via di prima approssimazione, può infatti subito osservarsi come, per
opinione corrente, uno degli aspetti che ha maggiormente caratterizzato il
modello processuale adottato dal codice del 1988 è rappresentato proprio dalla
relativa fluidità della imputazione, in stretta dipendenza con il radicale
mutamento del rapporto tra fase dibattimentale e la fase delle indagini.
Assegnata, infatti, alle indagini la semplice funzione preparatoria di consentire al
pubblico ministero di assumere le proprie determinazioni in ordine all’esercizio

10

cognizione e fase esecutiva, ma che appare porsi al di fuori anche di una logica

della azione penale, ne è derivato che soltanto al dibattimento, come sede
elettiva di formazione della prova, può essere riservata la prerogativa di
momento destinato alla progressiva configurazione degli esatti contorni del
thema decidendum e di effettiva cristallizzazione della accusa. Se, dunque, è
certamente presente nel sistema la necessità che con l’atto di esercizio della
azione penale venga enunciata una precisa definizione della imputazione, dal
momento che il diritto di difesa può essere concretamente esercitato (anche in
riferimento alle opzioni per i riti alternativi) soltanto se l’imputato sia messo in

però altrettanto vero che l’emersione in dibattimento di elementi modificativi
dell’accusa originaria rappresenta, nel sistema vigente, una evenienza tutt’altro
che eccezionale.
Mentre, dunque, il codice del 1930 – coerentemente con la scelta del
consolidamento della accusa con la translatio iudicii – stabiliva uno sbarramento,
in tema di mutatio libelli, con gli artt. 445 e 477, evocando epiloghi regressivi
che invece il nuovo codice ha teso a scongiurare attraverso il meccanismo delle
nuove contestazioni, le possibilità di “trasformazione” dibattimentale della accusa
hanno finito per subire, nel sistema delineato dagli artt. 516 e seguenti, un
sensibile incremento. Accanto, infatti, alla “contestazione sostitutiva,” con la
quale l’imputazione viene modificata ove il fatto risulti diverso da quello
contestato nel provvedimento che dispone il giudizio (art. 516), si mantiene la
possibilità della “contestazione suppletiva,” afferente il reato connesso o la
circostanza aggravante (art. 517) e si aggiunge, infine, la possibilità di operare sia pure previo consenso dell’imputato – una “contestazione aggiuntiva,” ove a
carico del medesimo risulti un fatto nuovo (art. 518).
Tuttavia, a fronte di una così ampliata platea di situazioni legittimanti la
modifica della imputazione nel corso del giudizio, la disciplina dettata dal vigente
codice di rito non ha affatto preso in considerazione un forte elemento di
torsione interna al sistema, costituita proprio dalle ricadute, in senso preclusivo,
che dalle nuove contestazioni dibattimentali venivano a scaturire sul versante
tanto dei riti alternativi a contenuto premiale, come il giudizio abbreviato e
l’applicazione di pena su richiesta delle parti, quanto, ancor più, dei meccanismi
di definizione anticipata del procedimento, come, appunto, l’oblazione. Riti e
meccanismi che la stessa giurisprudenza costituzionale ha reiteratamente
affermato costituire modalità di esercizio – e tra le più qualificanti – del diritto di
difesa (ex plurimis, Corte cost. sentenze n. 219 del 2004; n. 148 del 2004; n. 70
del 1996; n. 497 del 1995).
Da qui il contrapporsi di esigenze antitetiche, che naturalmente hanno
influenzato le stesse soluzioni adottate dal giudice delle leggi: per un verso,

11

condizione di conoscere, in modo puntuale, gli addebiti che gli vengono mossi, è

quella di considerare rigidi e comunque non superabili i limiti di stadio
processuale stabiliti per la formulazione della richiesta dei riti alternativi, ai fini
della valorizzazione al massimo grado delle esigenze di economia processuale e
di deflazione del carico dibattimentale, che costituiscono – come è noto – la
ragion d’essere dei riti alternativi e dei benefici che, sul piano sanzionatorio,
derivano dalla loro adozione; all’inverso, quella di modulare quei limiti in modo
tale da consentire il possibile recupero di quelle forme speciali di giudizio, nella
specifica ipotesi di modifica dibattimentale della imputazione, così da bilanciare

sacrificabile unilateralmente sull’altare della deflazione.
Ebbene, il percorso seguito dalla giurisprudenza costituzionale, fu, come è
noto, contrassegnato da una sorta di progressione verso la garanzia difensiva,
attraverso ampliamenti sempre più sensibili alla prospettiva di assicurare il
possibile recupero “postumo” dei procedimenti speciali, in presenza di nuove
contestazioni.
In una prima fase, infatti, la Corte costituzionale si era attestata su posizioni
di netta chiusura, che privilegiavano le esigenze di economia processuale,
tracciando un nesso di inscindibile collegamento tra il profilo della premialità dei
riti con quello della deflazione. Si reputava, dunque, che l’interesse dell’imputato
ai riti alternativi trovasse tutela solo in quanto la sua condotta consentisse la
effettiva adozione della sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento,
permettesse di raggiungere l’obiettivo di una rapida definizione del processo (v.,
tra le altre, le sentenze n. 593 del 1990; n. 316 del 1992; n. 129 del 1993). La
variazione della imputazione – come si è già posto in luce – è infatti una
eventualità non infrequente in un sistema processuale imperniato sulla
formazione della prova in dibattimento, cosicché la stessa

mutati° libelli

costituisce un accidente non imprevedibile, con la conseguenza che il rischio
della nuova contestazione in dibattimento rappresenta nulla più che un elemento
che rientra «naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a
chiedere o meno tale rito, onde egli non ha che addebitare a sé medesimo le
conseguenze della propria scelta» (v. le già citate sentenze n. 316 del 1992 e
129 del 1993).
Il rito alternativo finiva, quindi, in tale prospettiva, per costituire anche una
garanzia di “cristallizzazione” della accusa, non più emendabile (secondo la
disciplina dell’epoca) dopo l’opzione per uno dei procedimenti a base premiale.
Un simile rigore ha però poi ceduto il passo, dapprima ad un orientamento
intermedio, teso a privilegiare i connotati “patologici” della contestazione
dibattimentale, ove gli elementi relativi alla nuova contestazione fossero già
presenti negli atti delle indagini, e quindi la modifica della imputazione

12

le esigenze di economia processuale con quelle connesse al diritto di difesa, non

rappresentasse una ipotesi di contestazione “tardiva” frutto degli errori dello
stesso pubblico ministero (v. le sentenze n. 265 del 1994 e n. 184 del 2014 in
tema di patteggiamento e la sentenza n. 333 del 2009 in tema di giudizio
abbreviato); fino a pervenire, successivamente, ad un diverso approdo
ricostruttivo, teso a valorizzare il diritto ai riti alternativi attraverso il
superamento del limite della “patologia”, nella consapevole constatazione per la
quale «l’imputato che subisce una contestazione suppletiva dibattimentale viene
a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti

della stessa imputazione, fosse chiamato a rispondere fin dall’inizio». (v. la
sentenza n. 237 del 2012).
Una logica sostanzialmente autonoma (si veda, al riguardo, lo specifico
distinguo operato nella citata sentenza n. 237 del 2012) ha invece ispirato l’unica
pronuncia soffermatasi sul tema dei rapporti tra la modifica della imputazione e il
procedimento di oblazione, vale a dire la sentenza n. 530 del 1995. Nel
frangente, infatti, la Corte cost. ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale
degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedevano la
facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione relativamente al fatto
diverso ed al reato concorrente: vale a dire – e tale aspetto assume risalto
ineludibile agli effetti della odierna decisione – in riferimento ad una “novazione”
totale del fatto oggetto del giudizio, essendo quello scaturito dalla contestazione
dibattimentale diverso o nuovo rispetto al fatto dedotto nella originaria
imputazione. Nella circostanza, la Corte sottolineò come l’istituto della oblazione
si fondasse «sia sull’interesse dello Stato di definire con economia di tempo e di
spese i procedimenti relativi ai reati di minore importanza, sia sull’interesse del
contravventore di evitare l’ulteriore corso del procedimento e la eventuale
condanna, con tutte le conseguenze di essa». «Effetto tipico di tale forma di
definizione anticipata del procedimento è, infatti, la estinzione del reato, per cui
appare del tutto evidente come la domanda di ammissione all’oblazione esprima
una modalità di esercizio del diritto di difesa». Nella ipotesi di specie, dunque, la
preclusione dell’accesso all’oblazione risultava lesiva del diritto di difesa, perché
priva di razionale giustificazione: l’avvenuto superamento del limite temporale
previsto per la proposizione della domanda di oblazione, vale a dire l’apertura del
dibattimento, non poteva infatti dirsi riconducibile ad una libera scelta
dell’imputato, e cioè ad una inerzia allo stesso addebitabile, dal momento che la
facoltà di proporre quella domanda «non può che sorgere nel momento in cui il
reato stesso è oggetto di contestazione». Né, d’altra parte – soggiunse la Corte sussistevano ostacoli di ordine sistematico alla ammissione della oblazione nel
corso del dibattimento, dal momento che lo stesso art. 162-bis cod. pen.

13

alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi,

prevede, in riferimento alla oblazione speciale, che la domanda, già rigettata,
possa essere riproposta sino all’inizio della discussione finale del dibattimento di
primo grado.
I dicta della Corte – che prescindevano da qualsiasi riferimento alla natura
“fisiologica” o “patologica” delle nuove contestazioni – vennero, poi, come è noto
recepiti dal legislatore con la legge n. 479 del 1999, la quale ha aggiunto all’art.
141 disp. att. cod. proc. pen. il comma 4-bis, in forza del quale «in caso di
modifica della originaria imputazione in altra per la quale sia ammissibile

3. Ma se è ben vero che l’imputato “subisce” la modifica della imputazione,
secondo le cadenze tracciate dagli artt. 516 e seguenti, in dipendenza da una
scelta, per così dire “monologante,” del pubblico ministero, la quale, per di più,
può indifferentemente trarre origine da circostanze nuove emerse soltanto in
dibattimento oppure dalla semplice rivalutazione delle emergenze già scaturite
dalle indagini (Sez. U., n. 4 del 28/10/1998, Barbagallo, Rv. 212757, nonché,
più di recente, Sez. 6, n. 44980 del 22/09/2009, Naso, Rv. 245284), con la
conseguenza che – al lume dei richiamati principi di rango costituzionale (e,
come si dirà, anche convenzionale) – l’imputato stesso non può non essere
“restituito nel termine” per l’esercizio del diritto di chiedere l’oblazione in
rapporto alla imputazione modificata, la situazione si presenta evidentemente
diversa, ove il mutamento non coinvolga il fatto oggetto del giudizio, ma
semplicemente la sua qualificazione giuridica, posto che tale ultimo profilo non è
“patrimonio” del munus contestativo del pubblico ministero, ma tema di diritto,
sul quale le parti – e il giudice – sono chiamati a misurarsi, nell’ambito e nel
quadro di una prospettiva eminentemente dialettica.
Va infatti rammentato, al riguardo, che già l’art. 477, primo comma, del
codice di rito del 1930, conferiva al giudice il compito di qualificare, senza vincoli
di sorta, il fatto ricostruito durante il dibattimento, anche applicando una norma
di diritto sostanziale diversa rispetto a quella indicata nella imputazione e mai
prospettata all’imputato quale tema del giudizio, purché la sopravvenuta
configurazione del titolo di reato non imponesse una declaratoria di
incompetenza per materia o di difetto di giurisdizione: conferendo al giudice il
potere di trarre, dal diverso nomen iuris, tutte le conseguenze del caso, ivi
compresa quella di «infliggere le pene corrispondenti, quantunque più gravi, e
applicare le misure di sicurezza».
Ebbene, tale scelta è stata, come è noto, mantenuta nel nuovo codice, ove
si è dunque esclusa – come si puntualizza nella Relazione al Progetto preliminare
– la necessità di «una correlazione obbligatoria fra la decisione sul tema giuridico
14

l’oblazione, l’imputato è rimesso in termini per chiedere la medesima».

dell’accusa e le conclusioni del pubblico ministero»; non senza, tuttavia, un
esplicito riferimento ai possibili riflessi in tema di contraddittorio e di diritto di
difesa. Nel corso dei lavori preparatori del codice, infatti, si rilevò come lo íus
variandi in punto di qualificazione giuridica del fatto, potesse incidere in qualche
misura con le esigenze della difesa, specie nelle ipotesi in cui la diversa
qualificazione avesse comportato una pena più grave. Si ritenne, però, di
«confermare la regola tradizionale, considerato che le richieste del pubblico
ministero, anche nel nuovo sistema, non sono vincolanti per il giudice, che può

potuto essere una disciplina costruita in modo analogo a quella concernente la
contestazione del fatto diverso (iniziativa del pubblico ministero, termine a
difesa, eventuale trasmissione degli atti), ovvero la previsione di un dovere del
giudice di rendere nota preventivamente la decisione di modificare la
qualificazione giuridica, consentendo la discussione sul punto. Entrambi le
soluzioni – si concluse nella circostanza – avrebbero però comportato un
dispendio di attività probabilmente eccessivo, e il rischio, in pratica, di indurre il
giudice a conformarsi in ogni caso al nomen iuris contestato» (v. la Relazione al
progetto preliminare, p . 119).

La scelta del legislatore, come si osserverà, parzialmente da correggere alla
luce della giurisprudenza della CEDU soffermatasi sul punto, è stata dunque
quella di affidare al giudice il potere-dovere di verificare la correttezza della
qualificazione giuridica del fatto contestato, nella logica consapevolezza, d’altra
parte, che ove così non fosse stato, non potendosi concepire l’esercizio di un
funzione giurisdizionale condizionata al mantenimento della “scelta” contestativa
formulata dal pubblico ministero, l’unica alternativa possibile era quella di
imporre un epilogo regressivo dell’intero procedimento, ove il giudice avesse
ritenuto di dover qualificare il fatto diversamente da come enunciato nella
translatio iudicii.
La garanzia del (circoscritto) perimetro applicativo del potere “qualificatorio”
del giudice è comunque assicurata dal permanere della identità del fatto
contestato rispetto a quello ritenuto in sentenza. Anche qui, per la verità, le
opzioni del legislatore si sono espresse per il mantenimento di una linea ispirata
alla tradizione. La legge-delega n. 81 del 1987, infatti, pur avendo dedicato la
direttiva 2/78 ai mutamenti del tema decisorio in dibattimento, conferendo al
pubblico ministero il potere di «procedere alla modifica dell’imputazione» e di
«formulare nuove contestazioni inerenti ai fatti oggetto del giudizio», non si era
fatta carico di fornire al legislatore delegato indicazioni esplicite relativamente
alla attuazione del principio di necessaria correlazione tra la imputazione elevata
e la sentenza. Un silenzio, questo, che ha consentito la reintroduzione della

15

pronunciare extra petita. In tale contestò – si osservò – le alternative avrebbero

disciplina prevista dall’ad. 477, secondo comma, del codice previgente, inserita,
senza innovazioni sostanziali, sotto il titolo «correlazione tra accusa contestata e
sentenza», nell’ad. 521, comma 2, all’esplicito scopo di scongiurare il pericolo
che, di fronte alla diversità del fatto, il giudice fosse costretto ad emettere una
sentenza di proscioglimento, idonea a divenire irrevocabile e, in quanto tale,
fonte di possibili preclusioni (v. la Relazione, cit.).
Il nucleo del potere di riqualificazione dell’addebito sta, dunque, tutto nella
individuazione del fatto-storico che forma oggetto del

thema che può estendersi la

variazione del titolo di reato; pena, altrimenti, il superamento dell’invalicabile
limite rappresentato dalla necessaria corrispondenza tra il “deciso” ed il
“contestato”.
Ebbene, è noto, al riguardo, come la giurisprudenza delle Sezioni Unite
abbia avuto modo di sottolineare, con riferimento al principio di correlazione fra
imputazione contestata e sentenza, che, per aversi mutamento del fatto, occorre
una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie
concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo
tale da pervenire ad una incertezza sull’oggetto della imputazione e da cui
scaturisce un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Consegue da ciò che
l’indagine volta ad accertare la violazione del principio di cui si è detto, non va
esaurita nel pedissequo e mero confronto letterale fra la contestazione e la
sentenza, perché, vedendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è
del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia
venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto
dell’imputazione (Sez. U., n. 366551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez.
U., n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619; più di recente e nel
medesimo senso, Sez. 2, n. 34969 del 10/05/2013, Caterino, Rv. 257782; Sez.
6, n. 6346 del 09/11/2012, Domizi, Rv. 254888; Sez. 6, n. 29114, del
30/03/2012, X., Rv. 253225).
In tale prospettiva assume, quindi, portata dirimente un approccio
“sostanzialistico” che tenga conto dell’analisi funzionale delle disposizioni
coinvolte. Poiché, dunque, le norme che disciplinano le nuove contestazioni, la
modifica dell’imputazione e la correlazione tra imputazione contestata e sentenza
hanno lo scopo di consentire la necessaria fluidità della accusa assicurando al
tempo stesso il contradditorio sul contenuto dell’accusa e, pertanto, il pieno
esercizio del diritto di difesa dell’imputato, le stesse devono necessariamente
essere interpretate in stretta aderenza alle finalità che nel sistema sono
chiamate a perseguire, con la conseguenza che non possono ritenersi violate da
qualsiasi modifica rispetto alla imputazione originaria, ma soltanto nel caso in cui
16

giacché è soltanto all’interno di quello stesso

thema decidendum,

la modifica dell’addebito pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In altri
termini – si è sottolineato – poiché la notazione strutturale di “fatto”, contenuta
nell’enunciato normativo, va coniugata con quella funzionale, fondata
sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, il principio
di necessaria correlazione tra accusa contestata – oggetto di un potere del
pubblico ministero – e decisione giurisdizionale – oggetto del potere del giudice risponde alla esigenza (ed in tal senso va commisurato) di evitare che l’imputato
sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita, rispetto al quale

232423).

4. A proposito, peraltro, dei rapporti (e delle possibili frizioni) che
ineluttabilmente vengono a stabilirsi tra contestazione e diritto di difesa rappresentando la prima il fisiologico “oggetto” del secondo – non può non
sottolinearsi come le modalità attraverso le quali può esprimersi quel diritto sono
indubbiamente le più varie, e tra queste, come si è dianzi più volte sottolineato,
va annoverata anche la scelta dei riti alternativi, e, per quanto qui rileva, anche
la possibilità di beneficiare del procedimento di oblazione. Ma si tratta di un
diritto che, ferma restando la identificazione del fatto storico che viene
addebitato – nella specie, e per quel che risulta dallo stesso capo di imputazione,
aver realizzato un balcone, un vano ed una veranda in totale difformità del
permesso di costruire – non può non formare oggetto di una disamina “critica,”
proprio in vista della correttezza o meno del nomen iuris a quel fatto attribuito
dal pubblico ministero. Alla difesa come diritto, infatti, deve necessariamente
riconnettersi anche – proprio sul versante dell’indispensabile contraddittorio fra
le parti ed ai fini dei petita da rivolgere al giudice – uno specifico onere di
interlocuzione su tutti i punti che costituiscono oggetto della devoluzione; e ciò al
fine di scongiurare l’insorgere di effetti preclusivi che il sistema è
fisiologicamente chiamato a predisporre a salvaguardia dello stesso

ordo

iudiciorum.
In una prospettiva siffatta, nella ipotesi in cui l’imputato, a fronte di una
contestazione «in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e
di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con
l’indicazione dei relativi articoli di legge» (art. 429, comma 1, lett. c, cod. proc.
pen.) , il tutto corroborato – ad ulteriore specificazione – dalla «indicazione delle
fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono» (lett. d della disposizione sopra
richiamata), ometta di contestare la non pertinenza del

nomen iuris alla

fattispecie dedotta in rubrica, assumendo una posizione di nolo contendere su
tale qualificante punto della futura decisione, nessun tipo di doglianza potrà
17

non abbia potuto difendersi (Sez. 4, n. 41663 del 25/10/2005, Cannizzo, Rv.

essere formulata – circa le preclusioni che ne possono essere derivate per i riti
alternativi – ove il giudice, in sede di decisione, abbia ritenuto di dare a quel fatto
una diversa qualificazione giuridica.
Va infatti condiviso l’orientamento secondo il quale la garanzia del
contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto deve ritenersi
assicurata quando l’imputato abbia avuto modo di interloquire sul tema in una
delle fasi del procedimento, qualunque sia la modalità con cui il contraddittorio è
stato preservato (Sez. 2, n. 44615 del 12/07/2013, Paladini, Rv. n. 257750;

e, in tema di misure di prevenzione, Sez. 6, n. 10148 del 04/10/2012, Pilato, Rv.
254409).
Al riguardo, non può d’altra parte trascurarsi la circostanza che tra il diritto
di interlocuzione delle parti, da un lato, e il potere decisorio del giudice,
dall’altro, si stabilisce, agli effetti che qui interessano, un nesso di naturale
interdipendenza del secondo dal primo, nel senso che se il giudice è libero di
assegnare al fatto, ex officio, la qualificazione giuridica che ritenga corretta, lo
stesso giudice è tenuto a scrutinare motivatamente la richiesta delle parti di
procedere a nuova qualificazione del fatto. Il che sta quindi a significare che, ove
le parti nulla abbiano domandato o eccepito in punto di nomen iuris, il diritto di
difesa che quel tema coinvolge – e con esso il relativo (potenziale)
contraddittorio sul punto – può dirsi integralmente soddisfatto, con tutto ciò che
ne consegue sul piano dei diritti il cui esercizio si fondi proprio sulla correttezza
di quella qualificazione.
Ove, quindi, la qualificazione del fatto integri un reato la cui pena edittale
non consenta il procedimento per oblazione, è onere dell’imputato sindacare la
correttezza della qualificazione stessa, investendo il giudice di una richiesta
specifica con la quale formuli istanza di oblazione in riferimento alla
qualificazione giuridica del fatto che ritenga corretta: in modo tale da
permettere, all’esito del necessario contraddittorio, una decisone altrettanto
specifica sul punto, con gli evidenti, naturali riverberi in sede di impugnazione.
Solo in presenza di una effettiva domanda di oblazione è infatti possibile
soddisfare l’esigenza del contraddittorio e del rispetto delle regole sancite dal
procedimento scandito dell’art. 141 disp. att. cod. proc. pen., con la
conseguenza di permettere al pubblico ministero di interloquire e, al tempo
stesso, investire formalmente il giudice della questione.

5. In tale cornice, risulta dunque non condivisibile l’assunto della Sezione
rimettente secondo la quale, ove si dovesse accedere alla impostazione data alla
questione dalla sentenza Autolitano, verrebbe «rimessa alla sola parte

18

nonché, in senso analogo, Sez. 6, n. 49820 del 05/12/2013, Billizzi, Rv. 258138,

processuale pubblica una decisione che risulta decisiva per l’esperibilità della
procedura di oblazione e che, in caso di mancata modifica della contestazione,
verrà successivamente smentita dal giudice». L’unica preclusione che infatti
sorgeva, in riferimento alla oblazione, a seguito della modifica della imputazione
contestata in dibattimento dal pubblico ministero, è stata, come si è detto ,
rimossa, dapprima ad opera della sentenza n. 530 del 1995 della Corte cost. e,
poi, dalla introduzione dell’art. 141, comma 4-bis, disp. att. cod. proc. pen. La
diversa qualificazione giuridica del fatto, invece, è , come già si è osservato,

scelte del pubblico ministero) della contestazione del fatto diverso, del reato
concorrente o della circostanza aggravante o del fatto nuovo in dibattimento,
giacché nulla impedisce alle parti di chiedere al giudice di procedere ad una
diversa designazione del nomen iuris, senza che sia affidato al pubblico ministero
alcun potere autonomamente modificativo, con effetti, per di più, preclusivi,
come ipotizza la Sezione rimettente.
Né, allo stesso modo, pare corretto l’ulteriore assunto secondo il quale,
sempre a parere della Sezione rimettente, non sarebbe legittimo «pretendere
che l’imputato e la sua difesa tecnica prendano preventivamente in esame tutte
le possibili qualificazioni del fatto diverse da quella oggetto della formale
contestazione e avanzino prima delle conclusioni del pubblico ministero una
richiesta di oblazione “condizionata” alla eventuale decisione». Qui non si tratta,
infatti, di “antevedere” le possibili scelte del giudice in ordine ad una eventuale
riqualificazione del fatto: si tratta, più semplicemente, di esercitare il proprio
diritto ad una qualificazione giuridica corretta, con le conseguenze che da ciò
possono derivare proprio sul terreno della oblabilità del reato; un diritto che,
come si è detto, rappresenta al tempo stesso un onere che, se non adempiuto,
ben può far insorgere la preclusione temporale connessa alla procedura di
oblazione, quale istituto idealmente teso ad evitare, e non a seguire, gli esiti del
dibattimento. Ove così non fosse, infatti, in presenza di una scorretta
qualificazione giuridica del fatto, emergente già all’atto del rinvio a giudizio e tale
da precludergli formalmente l’accesso all’oblazione, l’imputato finirebbe
paradossalmente per fruire di un singolare meccanismo di restituzione nel
termine, che gli consentirebbe di beneficiare di tutto il dibattimento e regolarsi,
all’esito delle sue risultanze, se domandare l’oblazione previa derubricazione del
fatto.
Non risulta, infine, pertinente neppure l’ulteriore rilievo posto a fondamento
della ordinanza di rimessione, secondo cui l’interpretazione fatta propria dalla
sentenza Autolitano risulterebbe dissonante rispetto ai principi della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo per come interpretati dalla Corte EDU e, in

19

fenomeno processuale profondamente diverso da quello (questo sì devoluto alle

particolare, con i principi dettati dall’art. 6 della Convenzione, fissati con la
sentenza 11/12/2007, Drassich c. Italia. In tale pronuncia, infatti, la Corte di
Strasburgo ravvisò la violazione dell’art. 6, § 1 e 3, lettere

a) e c), della

Convenzione, con riferimento ad una pronuncia della Corte di cassazione che,
riqualificando direttamente in sentenza alcuni dei fatti ascritti all’imputato ridefiniti da corruzione in corruzione in atti giudiziari -, aveva confermato la
condanna pronunciata dal giudice di appello, invece di dichiarare la estinzione del
reato per prescrizione. La Corte, in particolare, sottolineò come, al lume anche

riqualificare i fatti per i quali sono stati regolarmente adìti, essi devono
assicurarsi che gli imputati abbiano avuto l’opportunità di esercitare i loro diritti
di difesa su questo punto in maniera concreta ed effettiva. Il che implica,
soggiunse la Corte, «che essi vengano informati in tempo utile non solo del
motivo dell’accusa, cioè dei fatti materiali che vengono loro attribuiti e sui quali
si fonda l’accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione
giuridica data a tali fatti».
Posto dunque che, nel frangente, la riqualificazione dei fatti non poteva dirsi
“sufficientemente prevedibile”, e poiché la modifica dell’accusa aveva
«influenzato la determinazione della pena pronunciata nei confronti del
ricorrente», la cui eccezione di prescrizione era stata rigettata proprio in ragione
della nuova e più severa qualificazione giuridica dei fatti, doveva reputarsi
sussistente «una violazione del diritto del ricorrente ad essere informato in
maniera dettagliata della natura e dei motivi dell’accusa formulata nei suoi
confronti».
Ciò che dunque risalta nella decisione della Corte EDU, così come in altre
occasioni in cui la medesima Corte ebbe ad affrontare il tema della modifica della
imputazione (v. fra le altre, le sentenze 01/03/2001, Dallos c. Ungheria;
20/04/2006, I.H. c. Austria; 03/07/2006, Vesque c. Francia) è che la diversa
qualificazione dei fatti ha assunto specifici connotati agli effetti del rispetto dei
principi del giusto processo e della conoscenza della accusa, in tutti i casi in cui
lo ius variandi riconosciuto da vari ordinamenti ai giudici si accompagni a
modifiche le quali, per la loro natura, siano in grado di influire in peius sul
trattamento dell’imputato. In tal modo coinvolgendo direttamente le facoltà
difensive, compromesse “inopinatamente” da un aggravamento del quadro
dell’accusa.
Una prospettiva, dunque, del tutto diversa dalla ipotesi che viene qui in
risalto, per la quale, vertendosi in tema di emendatio libelli migliorativa, la
stessa poteva (e doveva) formare oggetto di una domanda – ai fini della
attivazione del procedimento di oblazione – che l’imputato stesso – e la sua
20

della propria giurisprudenza, ove i giudici di merito dispongano della possibilità di

difesa tecnica – erano in grado di devolvere al giudice, senza la necessità di
chiamare in causa una ipotetica “sufficiente prevedibilità” della diversa
qualificazione giuridica assegnata al fatto dal giudice nella sentenza di condanna.

6. Deve dunque conclusivamente enunciarsi il seguente principio di diritto:
“Ove la contestazione elevata nei confronti dell’imputato faccia riferimento ad un
reato per il quale non è consentita né l’oblazione ordinaria di cui all’art. 162 cod.
pen. né quella speciale di cui all’art. 162-bis cod. pen., qualora l’imputato ritenga

diversa qualificazione che ammetta il procedimento di oblazione di cui all’art. 141
disp. att. cod. proc. pen., è onere dell’imputato stesso formulare istanza di
ammissione all’oblazione in rapporto alla diversa qualificazione che
contestualmente solleciti al giudice di definire, con la conseguenza che – in
mancanza di tale richiesta – il diritto a fruire della oblazione stessa resta
precluso ove il giudice provveda di ufficio, a norma dell’art. 521, comma 1, cod.
proc. pen., ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe
l’applicazione del beneficio, con la sentenza che definisce il giudizio».

7. Venendo all’esame del ricorso, va rilevato come lo stesso si limiti, in
concreto, a sollecitare null’altro che una pronuncia “di mero principio”, dal
momento che l’oggetto delle doglianze si concentra esclusivamente sulla
mancata previsione di un meccanismo che consenta all’imputato di fruire della
oblazione, ove a seguito di diversa qualificazione giuridica del fatto, il reato
ritenuto in sentenza ammetta astrattamente la proponibilità della domanda di
oblazione. Si tratta, quindi, di una censura meramente ipotetica, rispetto alla
quale difetta qualsiasi concreto interesse, dal momento che in nessuna sede
l’imputato ha formulato la relativa richiesta né ha manifestato l’intenzione di
avanzare la pertinente domanda. Con l’ovvia conseguenza che la pronuncia
rescindente di questa Corte – che pure il ricorrente sollecita – risulterebbe nella
specie priva di qualunque contenuto, dal momento che l’alternativa alla sentenza
di condanna, vale a dire l’oblazione, non è neppure astrattamente ipotizzabile,
proprio per l’assenza del relativo presupposto essenziale, rappresentato,
appunto, dalla istanza dell’imputato.

8. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle
ammende di una somma che si stima equo determinare in mille euro, alla luce
dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.

21

non corretta la relativa qualificazione giuridica del fatto e intenda sollecitare una

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali ed al versamento della somma di euro mille in favore della
cassa delle ammende.

Così deciso il 26/06/2014.

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA