Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32211 del 27/06/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 32211 Anno 2014
Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
Di Mauro Paolo n. il 10.4.1955
nei confronti di:
Ministero dell’Economia e delle Finanze
avverso l’ordinanza n. 29/2013 pronunciata dalla Corte d’appello di
Catania 22.11.2013;
sentita nella camera di consiglio del 27.6.2014 la relazione fatta dal
Cons. dott. Marco Dell’Utri;
lette le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del dott. M.
Galli, che ha richiesto il rigetto del ricorso.

Data Udienza: 27/06/2014

Ritenuto in fatto
i. – Con ordinanza in data 22.11.2013, la corte d’appello di Catania ha rigettato l’istanza avanzata da Paolo Di Mauro diretta alla
riparazione dell’asserita ingiusta detenzione dallo stesso subita in relazione alla prospettata commissione, da parte dello stesso, del reato
di associazione per delinquere di stampo mafioso, dalla cui imputazione l’istante era stato definitivamente assolto nel merito.
A sostegno della decisione assunta, la corte territoriale ha rilevato la sussistenza, nella specie, della condizione ostativa alla riparazione rappresentata dall’avere l’istante dato (o concorso a dare) causa
alla detenzione per colpa grave, essendosi il Di Mauro imprudentemente reso responsabile di molteplici frequentazioni con esponenti
del clan mafioso allo stesso accostato, apparendo concretamente partecipe delle attività di quest’ultimo, in tal modo confermando, per
propria colpa grave, il significativo quadro indiziario delineatosi nei
propri confronti.
Avverso il provvedimento della corte d’appello di Catania,
a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione il
Di Mauro, censurando l’ordinanza impugnata per vizio di motivazione.
In particolare, si duole il ricorrente che la corte territoriale abbia ritenuto causalmente rilevante e gravemente colpevole il complessivo comportamento del Di Mauro nel provocare l’adozione del
provvedimento restrittivo dallo stesso sofferto, in assenza di alcun
concreto elemento probatorio di riscontro in tal senso utilizzabile.
Ha depositato memoria il procuratore generale presso la corte
di cassazione, concludendo per il rigetto del ricorso.
Con nota depositata in data 4.6.2014, il ricorrente prodotto
documentazione attestante l’ulteriore aggravamento delle proprie
condizioni di salute, riconducibile all’ingiusta detenzione subita.
Con memoria depositata in data 10.6.2014, il Ministero
dell’Economia e delle Finanze ha concluso per il rigetto del ricorso.
2. –

Considerato in diritto
3. – Il ricorso è fondato.
Secondo il costante insegnamento di questa corte di legittimità, in coerenza al dettato normativo di cui all’art. 314 c.p.p., costitui-

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sce causa ostativa al conseguimento della riparazione per l’ingiusta
detenzione subita, l’adozione, da parte dell’istante, di un comportamento (connotato dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave) oggettivamente e concretamente idoneo a dar causa (o a concorrervi) all’adozione della misura cautelare in concreto eseguita nei relativi confronti.
Va pertanto escluso il ricorso di una causa ostativa al conseguimento dell’equa riparazione nel caso in cui il comportamento (pur
doloso o colposo) contestato all’agente, non abbia concretamente rivestito alcuna influenza causale nell’adozione della misura cautelare
restrittiva dallo stesso sofferta, avuto riguardo alle specifiche ragioni
poste a fondamento della relativa emissione.
Nel caso di specie, la corte territoriale, dopo aver evidenziato
come il ricorrente fosse stato sottoposto alla misura della custodia
cautelare in carcere in quanto indiziato del delitto di associazione per
delinquere di stampo mafioso, nel descrivere i profili della condotta
del Di Mauro asseritamente ostativa al riconoscimento della riparazione dallo stesso invocata, ha valorizzato le circostanze costituite
dalle molteplici frequentazioni dello stesso con esponenti del clan
mafioso allo stesso accostato, nonché di condotte tali da apparire
concretamente espressive di una partecipazione dello stesso alle attività del sodalizio.
In tale guisa compendiata, l’ordinanza impugnata non si sottrae alla censura avanzata dal ricorrente incline a evidenziarne gli evidenti profili d’infondatezza e di contraddittorietà, avendo la corte
territoriale trascurato di considerare come, in sede di merito, il Di
Mauro fosse stato integralmente prosciolto dalle accuse contro lo
stesso avanzate sulla base delle dichiarazioni rese da taluni collaboratori di giustizia riscontrate da alcune videoriprese che confermavano
la sussistenza di incontri del Di Mauro con esponenti del sodalizio
mafioso; collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni — in ragione
dell’insufficienza dei riscontri acquisiti — erano state ritenute inattendibili dai giudici di merito, sì da indurre questi ultimi ad assolvere
l’imputato.
Ciò posto — preso atto che la circostanza (ritenuta decisiva dalla corte territoriale) secondo cui il Di Mauro doveva ritenersi partecipe delle attività del sodalizio mafioso era principalmente emersa in
forza delle dichiarazioni (ritenute definitivamente inattendibili) dei

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collaboratori di giustizia (rimanendo pertanto priva di alcun ulteriore
e plausibile riscontro) -, dev’essere rilevato come l’indicata contraddittorietà della motivazione su tale punto determinante della decisione valga a pregiudicarne la complessiva tenuta logica, avendo la corte
d’appello omesso di articolare adeguatamente il giudizio probatorio
condotto proprio con riguardo alle sicure occorrenze e alla specifica
identificazione del comportamento del Di Mauro ritenuto ostativo al
conseguimento dell’indennità riparatoria rivendicata.
Sul punto, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass., Sez. Un., n.
43/1995, Rv. 203638) ai sensi del quale, nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta
all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione il quale, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un iter logico-motivazionale del tutto autonomo,
perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione
dell’evento `detenzione’; ed in relazione a tale aspetto della decisione
egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel
processo, non già per rivalutarlo,bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione, sia in senso positivo che
negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione
del diritto alla riparazione.
Questa Corte ha al riguardo ripetutamente enunciato il principio secondo cui la condizione ostativa al riconoscimento del diritto
all’indennizzo, rappresentata dall’avere il richiedente dato causa
all’ingiusta carcerazione, deve concretarsi in comportamenti che non
siano stati esclusi dal giudice della cognizione e che possano essere
di tipo extra-processuale (grave leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da aver determinato l’imputazione), o di tipo processuale
(autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi).
Il giudice è peraltro tenuto a motivare specificamente sia in
ordine all’addebitabilità all’interessato di tali comportamenti, sia in
ordine all’incidenza di essi sulla determinazione della detenzione.

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Infatti, ove fosse consentita la valorizzazione di emergenze
probatorie confutate dal giudizio di fatto espresso con sentenza irrevocabile, verrebbe caducato il cardine del vigente sistema di riparazione per l’ingiusta detenzione, costituito appunto dal giudicato
sull’incolpazione e sulle circostanze di fatto ad essa pertinenti.
Dunque, in breve, non è consentito al giudice della riparazione
mettere in discussione l’esito del giudizio di merito, esprimendo valutazioni dissonanti (cfr. Cass., Sez. 4, n. 13096/2010, Rv. 247128): occorre invece ponderare circostanze di fatto accertate nel processo e,
sulla base di esse, valutare se sussistano condotte dolose o gravemente colpose eziologicamente rilevanti, idonee ad escludere il diritto
all’indennizzo.
Nel caso di specie, la Corte territoriale non si è attenuta a tali
principi, avendo attribuito al Di Mauro la colpevole responsabilità di
comportamenti espressivi di una verosimile partecipazione alle attività del sodalizio criminale, dopo che lo stesso giudice della cognizione
aveva definitivamente ritenuto di escludere l’avvenuta attestazione
probatoria di tali circostanze, destituendo di alcuna attendibilità le
fonti probatorie in forza delle quali tali fatti erano stati originariamente prefigurati.
Quante alle denunciate ambiguità delle sospette frequentazioni ascritte al Di Mauro, è appena di richiamare il consolidato insegnamento di questa corte di legittimità, ai sensi del quale, in tema di
riparazione per l’ingiusta detenzione subita, le frequentazioni ambigue, ossia quelle che si prestano oggettivamente ad essere interpretate come indizi di complicità, possono dar luogo ad un comportamento gravemente colposo, idoneo a escludere la riparazione stessa,
quando non siano giustificate da significativi rapporti affettivi e siano
poste in essere con la consapevolezza che trattasi di soggetti coinvolti
in traffici illeciti (cfr. Cass., Sez. 3, n. 363/2007, Rv. 238782).
In particolare, nei reati contestati in concorso, la condotta di
chi abbia tenuto comportamenti idonei ad essere percepiti come indicativi di una sua contiguità all’attività criminale altrui, integra gli estremi della colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, purché l’agente fosse consapevole di detta attività illecita
(Cass., Sez. 4, n. 45418/2010, Rv. 249237; Cass., Sez. 4, n.
37528/2008, Rv. 241218).

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Sotto altro profilo — e in coerenza con tali principi — si è ritenuto che la colpa grave rilevante ai fini della riparazione per l’ingiusta
detenzione subita, pur potendo essere ravvisata anche in relazione a
un atteggiamento di connivenza passiva (allorché esso risulti aver rafforzato la volontà criminosa dell’agente), richiede, tuttavia, per essere
accertata, la prova positiva che il connivente fosse a conoscenza
dell’attività criminosa dell’agente medesimo (Cass., Sez. 4, n.
6878/2011, Rv. 252725; Cass., Sez. 4, n. 42039/2006, Rv. 235397).
Nel caso di specie, le argomentazioni indicate dalla corte catanese a sostegno del rigetto della domanda di riparazione avanzata dal
ricorrente devono ritenersi del tutto inadeguate sul piano logico.
In particolare, non può essere ascritto, nel caso di specie, alcun valore alle ritenute frequentazioni sospette del Di Mauro indicate
nel provvedimento impugnato, non avendo la corte territoriale evidenziato quali sarebbero stati gli indici di obiettiva riconoscibilità ‘esterna’ dell’illecita condotta dei soggetti frequentati dal ricorrente, né
adeguatamente specificato l’origine, le ragioni e le forme di tali frequentazioni idonee a evidenziare gli eventuali profili d’imprudenza o
l’indole incauta del comportamento in tale contesto osservato dal Di
Mauro eventualmente idonei a giustificare l’adozione del provvedimento restrittivo dello stesso sofferto.
Nella specie, il giudice a quo si è limitato a evidenziare unicamente gli aspetti di un rapporto di frequentazione di per sé privi di
alcun obiettivo elemento di ambiguità, siccome non corroborati
dall’eventuale indicazione di indici probatori suscettibili di giustificarne un’interpretazione ragionevolmente sostenibile in termini di
prospettabile illiceità.
4. – Sulla base di tali premesse, avendo la corte territoriale
omesso di articolare, in termini coerenti e probatoriamente argomentati, il tema relativo alla colpa grave del Di Mauro e quello concernente il rapporto di influenza causale tra il comportamento asseritamente colpevole ascritto all’istante e la concreta adozione della misura
restrittiva dallo stesso sofferta, dev’essere disposto l’annullamento
del provvedimento impugnato, con rinvio per nuovo esame alla corte
d’appello di Catania.

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Per questi motivi
la Corte Suprema di Cassazione, annulla l’ impugnata ordinanza e rinvia per nuovo esame alla Corte d’appello di Catania cui demanda il regolamento delle spese tra le parti anche per il presente
giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 27.6.2014.

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