Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32197 del 28/05/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 32197 Anno 2015
Presidente: CHIEFFI SEVERO
Relatore: BONI MONICA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BOUJDAR RACHID N. IL 15/03/1979
avverso l’ordinanza n. 179/2014 TRIBUNALE di PADOVA, del
12/06/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MONICA BONI; .A
lette/somt44e le conclusioni del PG Dott.
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72)

Data Udienza: 28/05/2015

Ritenuto in fatto

1.Con ordinanza resa in data 12 giugno 2014 il Tribunale di Padova,
pronunciando quale giudice dell’esecuzione, su istanza, proposta da Rachid Boujdar,
rideterminava in anni due di reclusione ed in euro 8.000,00 la pena, già inflitta

irrevocabile il 12/11/2010 ed in anni due, mesi otto di reclusione ed euro 12.000,00
di multa quella inflittagli con sentenza del G.I.P. del Tribunale di Genova del
10/2/2011, irrevocabile il 19/10/2011 in conseguenza della sentenza della Corte
Costituzionale 32/14 del 25/2/2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
degli articolo 4 bis e 4 vicies ter D.L. 272/205 convertito in Legge 49/2006.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso l’interessato a mezzo del
difensore, il quale ne ha chiesto l’annullamento per inosservanza o erronea
applicazione della legge penale in relazione al disposto degli artt. 3 e 27 Cost., agli
artt. 132 e 133 cod. pen., nonché per vizio di motivazione quanto all’operata
rideterminazione della pena. Il Giudice dell’esecuzione ha ritenuto di assumere
quale pena base quella di anni sei di reclusione, oltre alla multa, ossia il massimo
consentito dalla disciplina vigente, ma tale soluzione è illegittima, illogica ed
immotivata, non essendo sufficiente il riferimento al dato ponderale, -12 kg. di
hashish in un caso ed alcuni kg. della stessa sostanza nell’altro-, e non essendo
stati considerati gli altri criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., quali la
personalità del reo e l’effettiva gravità dei fatti, e nemmeno che in sede di
cognizione la pena non era stata determinata in prossimità dell’allora massimo
vigente. Inoltre, è priva di motivazione anche la statuizione di conferma della pena
per il reato unificato per continuazione, già giudicato con sentenza del G.I.P. del
Tribunale di Padova del 26/5/2011 ed il risultato finale ha coinciso quasi
integralmente con la pena precedentemente inflitta.
3.

Con requisitoria scritta il Procuratore Generale presso la Corte di

Cassazione, dr. Aurelio Galasso, ha chiesto il rigetto del ricorso.

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato e va dunque accolto.
1.L’ordinanza impugnata ha accolto l’istanza del ricorrente, ma ha proceduto
direttamente alla rideternninazione della pena secondo un criterio proporzionale, che
ha comportato l’adattamento del trattamento punitivo già concordato dalle parti ai
1

all’istante con la sentenza del G.I.P. del Tribunale di Padova del 15/7/2010,

sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., alla cornice edittale della sanzione irrogabile a
chi sia giudicato responsabile del delitto di cui all’art. 73, comma 1-bis, D.P.R. nr.
309/90 avente ad oggetto sostanze stupefacenti del tipo hashish, nel testo
previgente la legge nr. 49/2006. Ha quindi, dapprima riscontrato che l’intervento
del giudice costituzionale con la pronuncia nr. 32 del 2014 non ha determinato
l’abrogazione della fattispecie di reato per la quale l’istante ha riportato condanna
irrevocabile, ma soltanto il più limitato effetto incidente sul trattamento
sanzionatorio, da rapportare al regime previgente rispetto la norma dichiarata

quantitativo di sostanza oggetto delle condotte, per cui per i fatti di cui alle due
sentenze del 15/7/2010 e del 10/2/2011 ha rideterminato le pene e ha confermato
quella già individuata a titolo di aumento per continuazione.
2.La soluzione così offerta recepisce in parte degli orientamenti espressi dalle
Sezioni Unite di questa Corte, che con la sentenza n. 42858 del 29/5/2014, Gatto,
rv. 260697, hanno tracciato le linee ermeneutiche fondamentali per la
comprensione della tematica devoluta dal ricorso.
In particolare, innestandosi su un percorso interpretativo già intrapreso da
precedenti decisioni (Sez. U., n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano, rv. 258650; Sez.
U., n. 4687 del 20/12/2005, Catanzaro, rv. 232610), si è affermato che in linea di
principio la formazione del giudicato non rappresenta un ostacolo insormontabile
all’accoglimento di istanze avanzate in sede esecutiva per adeguare il rapporto
esecutivo ai mutamenti intervenuti nel titolo di condanna e nella sanzione inflitta, in
quanto, sebbene la pronuncia irrevocabile mantenga nell’ordinamento processuale il
suo valore a garanzia della certezza e della stabilità delle situazioni giuridiche,
oggetto di accertamento giudiziale e della libertà individuale, non perseguibile per
Io stesso fatto illecito quando sia pronunciata condanna irrevocabile, ciò nonostante
non esplica efficacia assoluta e totalmente preclusiva in ragione della previsione
legislativa di plurimi strumenti che consentono al giudice dell’esecuzione di operare
interventi integrativi o modificativi delle statuizioni già divenute definitive, primo fra
tutti la possibilità di revoca della sentenza di condanna di cui all’art. 673 cod. proc.
pen..
Si è quindi affrontato il tema della distinzione ontologica tra declaratoria di
incostituzionalità della norma penale ed ordinario intervento legislativo abrogativo,
giustificato da mutata considerazione delle finalità da perseguire con le disposizioni
penali: nel primo caso la pronuncia di illegittimità costituzionale travolge sin
all’origine la norma scrutinata secondo un fenomeno diverso da quello
dell’abrogazione, che limita l’efficacia della sua applicazione a fatti verificatisi sino
ad un certo limite temporale, potendo dar luogo a successione di leggi nel tempo in
relazione alla diversa regolamentazione della stessa materia introdotta. Pertanto,
2

incostituzionale e da individuare nell’attuale massimo edittale, in forza dell’elevato

nella prima situazione, poichè la norma incostituzionale viene “espunta
dall’ordinamento proprio perché affetta da invalidità originaria” sorge l’obbligo per i
giudici avanti ai quali si invocano le norme dichiarate incostituzionali di non
applicarle, obbligo vincolante anche quando il contrasto con i valori costituzionali sia
riscontrato in disposizione di legge penale sostanziale, diversa da quella
incriminatrice perché incidente soltanto sulla pena, così divenuta illegale nella sua
misura, sebbene irrogata a punizione di un fatto di immodificata illiceità penale.
Ne discende che “tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza

incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei limiti
in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già
compiuti e del tutto consumati”. In tal modo si è precisato, in aderenza al disposto
dell’art. 30, comma 4, della L. n. 87 del 1953, secondo il quale, quando in
applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali, da un
lato che l’omesso inserimento nel testo dell’art. 673 cod.proc.pen. del caso di
declaratoria di incostituzionalità di norma penale relativa al solo trattamento
sanzionatorio non impedisce l’esercizio dei poteri del giudice dell’esecuzione,
dall’altro che la rilevanza della pronunzia di incostituzionalità della disposizione sulla
pena incontra il limite dell’esaurimento del rapporto esecutivo.
2.2 Tali principi hanno poi ricevuto ulteriore precisazione per effetto di un
successivo intervento delle Sez. Unite di questa Corte con la sentenza del 26
Febbraio 2015, Marcon, non ancora depositata corredata da motivazione, la quale
ha stabilito che la pena applicata su richiesta delle parti per i delitti previsti dall’art.
73 D.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle droghe c.d. leggere, con pronuncia
divenuta irrevocabile prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del
2014, deve essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione mediante
la “rinegoziazione” dell’accordo tra le parti, ratificato dal giudice dell’esecuzione,
che viene investito di incidente di esecuzione, attivato dal condannato o dal
pubblico ministero: in caso di mancato accordo, dovrà provvedere di sua iniziativa,
facendo ricorso ai criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen..
2.3 Siffatta soluzione merita condivisione, poiché, oltre all’autorevolezza della
fonte, valorizza la natura irrevocabile della definizione pattizia del procedimento
(sulla irreversibilità dell’accordo ex art. 444 c.p.p., comma 1, da ultimo Sez. 5, n.
44456 del 27/06/2012, Bernardini, Rv. 254058) e preserva la volontà delle parti
che hanno proceduto di loro comune iniziativa all’individuazione del trattamento
punitivo, ritenuto congruo dal giudice della cognizione a norma dell’art. 444
cod.proc.pen., comma 2: mantiene dunque inalterata la natura pattizia dell’accordo
e demanda alle parti di rinnovarlo alla luce del mutato quadro normativo

3

penale di condanna fondata, sia pure in parte, sulla norma dichiarata

riferimento, prevedendo un intervento decisorio del giudice dell’esecuzione di
verifica della congruità e correttezza del calcolo, in analogia con gli stessi poteri
conferitigli in sede di cognizione, e, di autonoma determinazione in via suppletiva
fronte dell’insuperabile dissenso tra le parti.
In altri termini, quella così formulata costituisce soluzione che replica la
previsione di cui all’art. 188 disp. att. cod. proc. pen., il quale contempla
un’autonoma disciplina dell’istituto della continuazione quando ne sia chiesta
l’applicazione in sede esecutiva in riferimento a reati giudicati con più sentenze di

applicazione della pena a richiesta delle parti; prevede quindi che il condannato ed
il pubblico ministero possano chiedere al giudice dell’esecuzione l’unificazione dei
reati per effetto della disciplina del concorso formale o del reato continuato, quando
abbiano raggiunto un accordo sull’entità della sanzione sostitutiva o della pena, da
rideterminare comunque in misura non superiore a complessivi cinque anni di pena
detentiva, limite previsto dalla legge per i casi di patteggiamento e deducibile
dall’art. 444 cod.proc.pen., comma 1, nel testo modificato dalla L. 12 giugno 2003,
n. 134, e dall’ art. 188 disp. att. cod.proc.pen., a sua volta novellato dalla L. 2
agosto 2004, n. 205, che ha introdotto l’istituto del patteggiamento allargato
plurimo, ovvero a due anni di reclusione o di arresto, soli o congiunti a pena
pecuniaria, secondo quanto previsto dall’art. 444 cod.proc.pen., comma 1 – bis. In
caso di disaccordo del pubblico ministero il giudice, se lo ritiene ingiustificato, può
accogliere egualmente la richiesta. L’ordinamento quindi prevede per la fase
dell’esecuzione un meccanismo pattizio, analogo a quello disciplinato dalla norma di
cui all’art. 444 cod.proc.pen., per il giudizio di cognizione, caratterizzato dalla
determinazione negoziale tra le parti della pena da applicare a titolo di concorso
formale o continuazione, implicante l’adesione della parte pubblica e per il giudice le
facoltà alternative di recepire l’accordo delle parti, oppure di procedere egualmente
alla unificazione dei reati nei termini indicati dall’interessato a fronte di un dissenso
del P.M. ritenuto ingiustificato, ovvero, se il dissenso venga considerato giustificato,
di respingere la richiesta.
2.4 Nel caso in esame è però mancata la rinegoziazione della pena tra le parti
e non risulta che esse abbiano sottoposto al giudice dell’esecuzione uno specifico
accordo sulla pena da rideterminare, essendosi limitate a sollecitarne 1″intervento
decisorio autonomo; in tal modo il procedimento seguito si discosta dai principi
interpretativi elaborati dalle Sezioni Unite e comporta l’annullamento dell’ordinanza
impugnata col rinvio per il rinnovato esame dell’istanza al G.I.P. del Tribunale di
Padova.

P. Q. M.

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Ak —

2

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al G.I.P. del Tribunale di
Padova

Così deciso in Roma, il 28 maggio 2015.

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