Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32192 del 26/05/2015


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Penale Ord. Sez. 1 Num. 32192 Anno 2015
Presidente: DI TOMASSI MARIASTEFANIA
Relatore: CASA FILIPPO

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
DI PASQUALE VINCENZO N. IL 25/07/1956
avverso l’ordinanza n. 17/2014 CORTE ASSISE di MILANO, del
23/09/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FILIPPO CASA;
lette/~e le conclusioni del PG Dott. Oc c,L.

.777

Uditi difensor Avv.;

COL

Data Udienza: 26/05/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 23.9.2014, la Corte di Assise di Milano, in funzione di giudice
dell’esecuzione, rigettava l’istanza presentata da DI PASQUALE Vincenzo, volta ad ottenere
l’applicazione della pena di trent’anni di reclusione in sostituzione di quella dell’ergastolo,
inflittagli dalla medesima Corte ambrosiana con sentenza in data 21.5.2003 (irrevocabile il

Il DI PASQUALE motivava la sua richiesta esponendo di essere stato ammesso al rito
abbreviato in forza dell’art. 30 L. n. 479/99 e di aver, quindi, revocato detta richiesta,
optando per il rito ordinario, a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 341/2000, che,
all’art. 7, aveva specificato, in via di “interpretazione autentica” dell’art. 30 citato, come la
pena di trent’anni di reclusione potesse applicarsi nel rito speciale solo con riferimento a
reati punibili con l’ergastolo senza isolamento diurno.
Richiamate, a sostegno della sua istanza, la decisione della Corte EDU del 17.9.2009
nel caso SCOPPOLA c. Italia e la sentenza n. 210/2013 con la quale la Corte Costituzionale
aveva dichiarato illegittimo l’art. 7 D.L. n. 341/2000, qualificato norma di natura sostanziale,
il DI PASQUALE sottolineava che la revoca della scelta del rito speciale era stata
“condizionata” proprio dalla introduzione, con efficacia retroattiva, dell’art. 7 poi dichiarato
illegittimo; doveva, quindi, tenersi conto della già avanzata richiesta di accesso al rito
abbreviato, applicando i limiti di pena previsti dall’art. 442 c.p.p. nell’originaria formulazione.
Il Giudice dell’esecuzione, conformandosi a recente giurisprudenza di legittimità
pronunciatasi in un caso del tutto sovrapponibile, osservava che la scelta del rito ordinario
da parte dell’interessato aveva precluso in via definitiva la possibilità di avvalersi del giudizio
abbreviato, costituendo detta opzione un atto inconciliabile con la volontà di avvalersi del
rito semplificato e delle conseguenze premiali da esso derivanti.
Né l’intervenuta revoca poteva ritenersi “viziata” in funzione dell’introduzione dell’art.
7 D.L. n. 341/2000, atteso che l’imputato era stato posto in grado di esercitare una libera e
consapevole scelta tra le maggiori garanzie derivanti dalla celebrazione del dibattimento e i
benefici premiali scaturenti dalla scelta del rito abbreviato.
2. Avverso la suddetta ordinanza DI PASQUALE Vincenzo ha proposto ricorso per
cassazione tramite il difensore di fiducia.
2.1. Con il primo motivo, si deduce inosservanza o erronea applicazione dell’art. 2,
comma 4, c.p. e 7 CEDU.
Il Giudicante avrebbe dovuto applicare il principio di retroattività della

lex mitior

tenendo primariamente in conto la sua ratio di tutela sostanziale e non solo formale della
libertà di cittadino.
1

5.5.2004).

L’unica differenza rilevabile tra il caso dello SCOPPOLA e quello del ricorrente
consisteva nella rinuncia al rito abbreviato da parte di quest’ultimo.
Tuttavia, tale rinuncia non era stata affatto libera, ma influenzata dal

novum

legislativo del D.L. n. 341/2000, sicché penalizzare l’interessato per una scelta che aveva
compiuto per ragioni del tutto contingenti e condizionate dal legislatore si configurava come
violazione del principio di difesa (art. 24 Cost.) e di quello di eguaglianza sostanziale (art. 3

Il principio del favor rei, posto a fondamento degli artt. 2, comma 4, c.p. e 7 CEDU,
avrebbe dovuto operare tenendo conto delle peculiarità del caso concreto e non secondo una
lettura solo formale di essi, di cui si censurava l’erroneità.
2.2.

Con il secondo motivo, si denunciano contraddittorietà e illogicità della

motivazione circa l’impossibilità di assimilare il caso del ricorrente a quello dello SCOPPOLA.
In sintesi, secondo il ricorrente, il nodo cruciale della vicenda de qua, vale a dire
l’efficacia “viziante” delle influenze che lo avevano portato a revocare la richiesta di rito
abbreviato, era stato trattato dalla Corte di merito solo superficialmente, attraverso
argomentazioni tautologiche e con il richiamo a una sentenza (la n. 15748 del 2014) che, sul
punto, adduceva motivazioni altrettanto carenti e tautologiche.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha
concluso per il rigetto del ricorso.

OSSERVATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Ed invero, sul tema proposto dall’odierno ricorrente, la giurisprudenza di questa
Corte abbia costantemente insegnato che il principio discendente dalla sentenza 17.9.2009
della CEDU sul caso SCOPPOLA c. Italia si può applicare solo a coloro che abbiano chiesto e
ottenuto l’accesso al rito abbreviato nel periodo di vigenza della L. n. 479 del 1999 (quindi,
tra il 2.1.2000 e il 24.11.2000), perché solo in quel caso l’intervenuta modifica legislativa
ebbe a creare un irragionevole pregiudizio a carico dell’imputato (sul punto, assolutamente
pacifico, cfr. Rv. 258272, 256257, 255388, 254524, 254212, 254096, 251857, 253093,
252211 e altre).
In particolare, va rammentato come, sui temi in discussione, siano già intervenute in
modo approfondito due fondamentali decisioni delle Sezioni Unite di questa Corte, entrambe
pronunciate in data 19.04.2012, la n. 34233, in proc. Giannone (dep. il 7.9.2012) e la n.
34472, in proc. Ercolano (dep. il 10.9.2012), peraltro ribadite e completate dalla più recente
decisione n. 18821 del 24.10.2013, dep. 7.5.2014, Ercolano, Rv. 258649, emessa, ancora
2

Cost.).

dalle Sezioni Unite, dopo l’intervento della Corte costituzionale (investita proprio dal
Supremo consesso con la citata ordinanza n. 34472/2012) che aveva dichiarato
costituzionalmente illegittimo l’art. 7, comma 1, D.L. 24.11.2000, n. 341, convertito dalla L.
19.1.2001, n. 4, per contrasto con l’art. 117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 7
CEDU (sent. n. 210 del 2013).
Per quel che qui rileva, è sufficiente richiamare e ribadire i seguenti essenziali principi

– le decisioni della Corte EDU che evidenziano una situazione di oggettivo contrasto
della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU assumono rilevanza – con le
precisazioni che seguono – anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale è
intervenuta la pronuncia della predetta Corte (ordinanza Ercolano cit., Rv. n. 252933);
– l’art. 442 c.p.p., disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di
condanna secondo il rito abbreviato, è norma di diritto sostanziale e, tenuto conto che la
stessa – con specifico riferimento ai reati punibili con la pena dell’ergastolo – ha subìto, nel
tempo, varie modifiche per interventi della Corte costituzionale e del legislatore, deve
soggiacere al principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, § 1, CEDU, così come
interpretato dalla Corte di Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa
(principio già contenuto nell’art. 25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente,
retroattività o ultrattività della previsione meno severa;
– in conseguenza, la pena dell’ergastolo inflitta all’esito del giudizio abbreviato,
richiesto dall’interessato in base all’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, ma
conclusosi nel vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall’art. 7, comma 1,
D.L. n. 341 del 2000 e in concreto applicata, non può essere ulteriormente eseguita,
essendo stata quest’ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al
principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, § 1, CEDU, come interpretato dalla Corte
EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l’art. 117, comma primo Cost. (cfr. Sez
U del 24.10.2013, dep. il 7.5.2014, Ercolano, cit., con la quale si è affermato che il divieto di
dare esecuzione ad una sanzione penale contemplata da una norma dichiarata
incostituzionale dal Giudice delle leggi esprime un valore che prevale su quello della
intangibilità del giudicato e trova attuazione nell’art. 30, quarto comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87);
– lo strumento processuale di eventuale adeguamento interno, al fine di garantire
concreta applicazione al principio della legalità della pena, anche nella sua valenza
convenzionale ex art. 7 della Carta dei Diritti dell’Uomo quale interpretato dalla Corte EDU,
va individuato nell’incidente di esecuzione ex art. 670 c.p.p., nell’ambito del quale superare se del caso – il giudicato.
3

– cui il Collegio aderisce – affermati con le menzionate pronunce, nel senso che:

Ancora la Corte Costituzionale, nella recente sentenza n. 235 del 2.7.2013 – con la
quale ha dichiarato manifestamente inammissibile, per irrilevanza, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4-ter del d.l. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito, con modificazioni, dalla
legge 5 giugno 2000, n. 144), sollevata dal Tribunale di Lecce, in veste di giudice
dell’esecuzione, con riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6
e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali –

si può fare riferimento soltanto nell’ipotesi relativa ad un caso che sia “identico a quello
deciso” e “non richieda la riapertura del processo”.
Con riguardo al tema dell’adeguamento concreto a tali principi nel diritto interno, la
citata sentenza n. 34233, ric. Giannone, ha precisato che l’individuazione della pena
sostitutiva da applicare in sede di giudizio abbreviato per i reati punibili in astratto con
l’ergastolo, con o senza isolamento diurno, è subordinata al verificarsi di una “fattispecie
complessa” integrata dalla commissione di reati per i quali sia prevista tale sanzione e dalla
richiesta di accesso al rito speciale avanzata dall’interessato, elementi questi che, in quanto
inscindibilmente connessi tra loro, devono concorrere entrambi, affinché possa trovare
applicazione, in caso di condanna, la comminatoria punitiva prevista dalla legge al momento
della richiesta: è quest’ultima, infatti, che cristallizza, in rapporto al reato o ai reati per i
quali si procede, il trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa.
Tutto ciò premesso e ritenuto, va, ancora una volta, affermata la concreta
inapplicabilità del principio discendente dalla sentenza della CEDU 17.9.2009 (nel caso
SCOPPOLA c. Italia) a tutte quelle situazioni che non siano sovrapponibili, nei loro elementi
essenziali aventi rilievo nello schema sopra illustrato, alla situazione valutata dall’anzidetta
Corte sopranazionale.
In particolare, come in precedenza accennato, la conversione della pena dell’ergastolo
in quella di anni trenta deve reputarsi possibile, in sede esecutiva, solo ove il rito abbreviato
sia stato chiesto e sia stato ammesso tra il 2 gennaio ed il 24 novembre 2000, e cioè nella
vigenza della L. n. 479 del 1999, art. 30, comma 1, lett. b, (che prevedeva che, in esito al
rito speciale, all’ergastolo si sostituisse la pena di anni trenta di reclusione), mentre la
decisione definitiva sia stata pronunciata dopo il 24.11.2000, con applicazione del più severo
trattamento sanzionatorio introdotto con l’art. 7 D.L. n. 341 del 2000 (che ripristinava
l’ergastolo senza isolamento diurno: norma giudicata dalla Corte costituzionale, nella citata
decisione n. 210/2013, non di “interpretazione autentica” dell’art. 442, comma 2, ult.
periodo, c.p.p., come esplicitamente enunciato dal legislatore, ma norma sostanzialmente
innovativa, che andava a modificare in malam partem il contenuto sanzionatorio della
disposizione suddetta e non poteva, perciò, avere efficacia retroattiva).
4

ha ribadito che alla suddetta sentenza 17.9.2009 della Corte EDU sul caso Scoppola c. Italia

Tutti i casi diversi da quello appena delineato, siccome strutturalmente non
riconducibili a quello per cui è stato espresso il principio, non possono, dunque, trovare
soluzione positiva (vedi, tra le più recenti, Sez. 1, n. 6004 del 10/1/2014, Papalia, Rv.
250026; Sez. 1, n. 4008 del 10/1/2014, Ganci, Rv. 258272; Sez. 1, n. 23931 del
17/5/2013, Lombardi, Rv. 256257).
3. Tanto premesso in ordine al contesto normativo e giurisprudenziale in cui si colloca

forza dell’art. 30 L. n. 479/99 (vigente dal 2.1.2000), che aveva reintrodotto l’ammissibilità
del giudizio alternativo per i reati punibili con l’ergastolo, stabilendo genericamente che, in
caso di condanna, la pena perpetua doveva essere sostituita con quella di trenta anni di
reclusione.
Successivamente, il DI PASQUALE revocò la richiesta di giudizio abbreviato, in
precedenza formulata, avvalendosi del disposto di cui al D.L. n. 341 del 2000, art. 8.
Tale revoca, per come meglio verrà precisato, non poteva che precludere al Giudice
dell’esecuzione l’apprezzamento della originaria richiesta di rito abbreviato.
4. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non può, invero, riconoscersi
natura sostanziale alla disciplina applicata dal Giudice della cognizione che, preso atto
dell’intervenuta revoca ex art. 8 citato della richiesta di giudizio abbreviato avanzata
dall’imputato, dispose la prosecuzione del processo nelle forme ordinarie (si veda, in
relazione a caso analogo, Sez. 1, n. 15748 del 21/1/2014, Riina, Rv. 259417).
Il legislatore, infatti, in presenza del mutato quadro ordinamentale e delle profonde
innovazioni che avevano contrassegnato l’intero scenario, sul piano dei presupposti e delle
cadenze, del rito alternativo, consentiva, in via transitoria e in presenza di precisi
presupposti tassativamente elencati (astratta punibilità dei reati contestati all’imputato con
la pena dell’ergastolo con isolamento diurno; precedente formulazione della domanda in
base alle modifiche introdotte all’art. 442 c.p.p., comma 2, dalla L. n. 479 del 1999, art. 30
comma 1, lett. b, ovvero in base al D.L. 7 aprile 2000, n. 82, art. 4-ter, nel testo modificato
dalla Legge di Conversione 5 giugno 2000, n. 144; rispetto del termine di trenta giorni
decorrente dalla data di entrata in vigore del suddetto decreto-legge) la revoca della
domanda di giudizio abbreviato in precedenza presentata.
Tale scelta costituiva un ragionevole bilanciamento tra il mutato quadro normativo di
riferimento e le esigenze di deflazione insite – anche in regime transitorio – nel giudizio
abbreviato rispetto all’ordinario epilogo dibattimentale con conseguente speciale diminuzione
della pena in ipotesi di condanna.
Da tali considerazioni derivano due evidenti corollari.

5

la questione, il Collegio osserva che il DI PASQUALE venne ammesso al rito abbreviato in

Per un verso, infatti, risolvendosi la diminuente di pena in un trattamento premiale
accessorio che scaturisce dalla scelta, ormai unilaterale, di un rito che si configura a
struttura probatoria eventuale e contratta, è evidente che un siffatto trattamento
sanzionatorio vive e trae la propria ragione d’essere esclusivamente nell’alveo del rito cui
accede, senza pertanto assumere – come pure il ricorrente pretenderebbe – l’autonomia
tipica di una disciplina di natura sostanziale.

pur in presenza dell’intervenuta revoca della domanda di accesso allo stesso in precedenza
avanzata, sarebbe del tutto eccentrica rispetto ad un ipotetico “recupero” di facoltà ormai
naturalmente precluse, attesa l’omessa rinuncia al diritto alla prova nel contraddittorio di
merito, essendo stato tale diritto per definizione già integralmente esercitato.
Paradossalmente, non accedendo a tale ipotesi ricostruttiva, si assisterebbe ad un incoerente
“privilegio”, giacché, senza alcuna giustificazione, si dovrebbe applicare una diminuente di
pena, totalmente disancorata da qualsiasi riconducibilità al rito speciale ed alle “limitazioni”
probatorie che da esso conseguono.
5.

Non può neppure ritenersi che l’intervenuta revoca della richiesta di giudizio

abbreviato sia stata “viziata” dalla disciplina contenuta nel D.L. 24 novembre 2000, n. 341,
art. 7, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 gennaio 2001, n. 4, atteso che l’imputato è
stato posto in grado di esercitare una libera e consapevole scelta tra le maggiori garanzie
derivanti dalla celebrazione del dibattimento e i benefici premiali scaturenti dalla scelta del
rito abbreviato.
6. Una conclusione del genere appare, del resto, coerente con i principi elaborati dalla
giurisprudenza di questa Corte in tema di preclusione, istituto che assolve la funzione di
scandire i singoli passaggi della progressione del processo e dì regolare i tempi e ì modi
dell’esercizio dei poteri delle parti e del giudice, dai quali quello sviluppo dipende, con la
conseguenza di rappresentare il presidio apprestato dall’ordinamento per assicurare la
funzionalità del processo in relazione alle sue peculiari conformazioni risultanti dalle scelte
del legislatore e, pertanto, di impedire l’esercizio di un potere del giudice o delle parti in
dipendenza dell’inosservanza delle modalità prescritte dalla legge processuale, o del
precedente compimento di un atto incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso
potere.
Nel caso di specie, il ricorrente, revocando la domanda di giudizio abbreviato in
precedenza avanzata, ha compiuto un atto inconciliabile con la volontà di avvalersi del
suddetto rito semplificato e delle conseguenze premiali da esso derivanti, avendo già
“consumato” l’esercizio delle facoltà a lui assegnate.

6

Sotto altro profilo, è del tutto evidente che il riconoscimento della diminuente del rito

Tali principi, come autorevolmente affermato dalla Corte Costituzionale (sentenze n.
236 del 2011 e n. 210 del 2013), non sono estranei alla Convenzione Europea dei diritti
dell’uomo, come si desume dalla sentenza SCOPPOLA che vi ha ravvisato un limite
all’espansione della legge penale più favorevole.
È, quindi, da ritenere e riaffermare che, in linea di principio, l’obbligo di adeguamento
alla Convenzione, nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi,

diversità rispetto a quello oggetto del presente scrutinio – nei quali (come quello in esame)
per l’ordinamento interno si è formato il giudicato, e che le deroghe a tale limite vanno
ricavate, non dalla CEDU, che non le esige, ma nell’ambito dell’ordinamento nazionale (Corte
Cost., sent. n. 210 del 2013).
7. In definitiva, il ricorso, manifestamente infondato, e dimentico di principi affermati
anche dalle sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte, deve essere dichiarato
inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del procedimento.
La peculiare natura della questione consente di escludere evidenti profili di colpa nella
proposizione del ricorso, il che esonera il ricorrente dal versamento della prevista somma
alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, il 26 maggio 2015

Il Consigliere

nsore

Il Presiden

diversi da quello oggetto della decisione nel caso SCOPPOLA – connotato da significative

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