Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32183 del 20/06/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 32183 Anno 2014
Presidente: SIRENA PIETRO ANTONIO
Relatore: MONTAGNI ANDREA

SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
MONOPOLI PASQUALE N. 20.11.1971
avverso la sentenza n. 2340/2013 del TRIBUNALE DI FOGGIA, in data 31.10.2013

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI;
lette le conclusioni del Procuratore Generale Dott. SANTE SPINACI,
che ha concluso per l’annullamento della sentenza con trasmissione atti 9

Data Udienza: 20/06/2014

Ritenuto in fatto
1. Monopoli Pasquale ha proposto ricorso per cassazione avverso la
sentenza del Tribunale di Foggia in data 31.10.2013, con la quale, ai sensi dell’art.
444 cod. proc. pen., è stata applicata la pena concordata dalle parti, in ordine al
reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, per la detenzione di gr. 456 di
inflorescenze di cannabis indica.
L’esponente, con unico motivo, denuncia il vizio di motivazione, osservando

motivazione quanto meno sufficiente.
2. Il Procuratore Generale, con requisitoria scritta, ha chiesto che la
Suprema Corte annulli la sentenza impugnata, con restituzione degli atti al
Tribunale di Foggia. L’esponente ha considerato che sussistono i presupposti per
annullare la sentenza in oggetto, per effetto della sentenza della Corte
Costituzionale n. 32 del 2014, che ha determinato una favorevole modifica del
trattamento sanzionatorio.
Considerato in diritto
3. Il ricorso impone le considerazioni che seguono.
Le censure oggetto del ricorso risultano inammissibili.
Si osserva che questa Suprema Corte ha ripetutamente affermato il
principio che l’obbligo della motivazione della sentenza non può non essere
conformato alla particolare natura giuridica della sentenza di patteggiamento: lo
sviluppo delle linee argomentative è necessariamente correlato all’esistenza
dell’atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti
dedotti nell’imputazione. Ciò implica che il giudizio negativo circa la ricorrenza di
una delle ipotesi di cui all’art. 129 cod. proc. pen. deve essere accompagnato da
una specifica motivazione solo nel caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti
emergano concreti elementi circa la possibile applicazione di cause di non
punibilità, dovendo invece ritenersi sufficiente, in caso contrario, una motivazione
consistente nella enunciazione, anche implicita, che è stata compiuta la verifica
richiesta dalla legge e che non ricorrono le condizioni per la pronunzia di
proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. (Cass. Sez. U, sentenza n. 5777 del
27.03.1992, dep. 15.05.1992, Di Benedetto, Rv. 191135; Cass. Sez. U, sentenza
n. 10372 del 27.09.1995, dep. 18.10.1995, Serafino, Rv. 202270). Tale
orientamento è stato concordemente accolto dalla giurisprudenza successiva.
Anche per ciò che riguarda gli altri tratti significativi della decisione, che riguardano
precipuamente la qualificazione giuridica del fatto, la continuazione, l’esistenza e la
comparazione delle circostanze, la congruità della pena e la sua sospensione, la
costante giurisprudenza di questa Corte, nel solco delle enunciazioni delle Sezioni
unite, ha affermato che la motivazione può ben essere sintetica ed a struttura
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che anche per le sentenze di patteggiamento il giudice deve sviluppare una

enunciativa, purché risulti che il giudice abbia compiuto le pertinenti valutazioni. Né
l’imputato può avere interesse a lamentare una siffatta motivazione censurandola
come insufficiente e sollecitandone una più analitica, dal momento che la
statuizione del giudice coincide esattamente con la volontà pattizia del giudicabile.
D’altra parte, attesa la natura pattizia del rito, chi chiede la pena pattuita
rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa. Ne consegue, come questa
Suprema Corte ha più volte avuto modo di affermare, che l’imputato non può
prospettare con il ricorso per cassazione censure che coinvolgono il patto dal

medesimo accettato. Occorre, peraltro, rilevare che, nel caso di specie, il giudice,
dopo avere considerato che il dissenso originariamente formulato dal pubblico
ministero rispetto alla richiesta di applicazione della pena risultava ingiustificato,
ha espressamente rilevato che non ricorreva alcuna delle ipotesi di cui all’art. 129
cod. proc. pen. e che la richiesta di applicazione della pena poteva trovare
accoglimento.
4. Tanto ritenuto, osserva il Collegio che sussistono i presupposti per
rilevare l’illegittimità della pena applicata al prevenuto, in riferimento al reato per
cui si procede.
Invero, l’inammissibilità del ricorso originario non impedisce a questa Corte
regolatrice di annullare la sentenza impugnata, in ragione delle modifiche
normative che sono intervenute dopo il deposito del presente ricorso. Deve in
questa sede ribadirsi che per il caso di modifiche normative sopravvenute,
l’inammissibilità del ricorso non impedisce l’adozione di una pronuncia di
annullamento da parte della Corte regolatrice (cfr. Cass. Sez. VI, sentenza n.
21982, del 16 maggio 2013, n. 21982, Rv 255674, ove l’inammissibilità del ricorso
non ha impedito l’annullamento della sentenza impugnata, in conseguenza della
declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata al caso di giudizio).
Ciò posto, deve considerarsi che, per effetto della sentenza della Corte
Costituzionale del 12 febbraio 2014 n. 32, la disciplina in materia di sostanze
stupefacenti che viene in rilievo è quella prevista dal d.P.R. n. 309/1990, nella
versione antecedente alle modifiche introdotte dal d.l. 30 dicembre 2005, n. 272,
convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, di talché la pena
per le sostanze di cui alle tabelle II e IV dell’art. 14, risulta ricompresa dal minimo
di due anni al massimo di sei anni di reclusione, oltre la multa.
Come noto, la Corte Costituzionale, con sentenza del 12.02.2014 n. 32 ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decretolegge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i
finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità
dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di
tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di
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A

disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49. Le disposizioni colpite dalla
declaratoria illegittimità costituzionale avevano introdotto significative modifiche
nell’ordinamento, apportando una innovazione sistematica alla disciplina dei reati in
materia di stupefacenti, sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello

delitti riguardanti le droghe cosiddette “pesanti” e di quelli aventi ad oggetto le
droghe cosiddette “leggere”, fattispecie differenziate invece dalla precedente
disciplina, di cui al d.P.R. n. 309/1990.
Occorre allora considerare che, a causa della intervenuta declaratoria di
illegittimità costituzionale ad opera della citata sentenza n. 32 del 2014, la pena
edittale relativa all’ipotesi delittuosa di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, rispetto
alla detenzione a fine di spaccio di sostanze rientranti nelle tabelle II e IV, è quella
della reclusione da due a sei anni, oltre la multa, laddove il testo oggetto della
declaratoria di incostituzionalità, stabiliva un più grave trattamento sanzionatorio,
compreso da un minimo di sei ad un massimo di venti anni di reclusione, oltre la
multa.
Orbene, nel caso di specie, al Monopoli, per la detenzione di un quantitativo
pari gr. 456 di cannabis indica è stata applicata la pena di anni due e mesi dieci di
reclusione, oltre la multa, muovendo dalla pena base pari ad anni sei di reclusione,
oltre la multa. Si tratta di una misura di pena corrispondente al limite edittale
massimo che risulta applicabile al caso di giudizio, per le spiegate ragioni. Come si
vede, l’accordo concluso dalle parti e ratificato dal giudice concerne l’applicazione
di una pena che non può ritenersi congrua, rispetto al mutato scenario
sanzionatorio, in considerazione dei richiamati termini di fatto della condotta
addebitata.
5. Si impone, pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata, giacché l’evidenziata illegittimità della pena applicata ai sensi dell’art.
444 cod. proc. pen., rende invalido il patto concluso dalle parti. Deve disporsi la

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trasmissione degli atti al Tribunale di Foggia, perché proceda a nuovo giudizio. La
giurisprudenza di legittimità ha infatti chiarito che, in tali ipotesi, le parti sono

reintegrate nella facoltà di rinegoziare l’accordo sulla pena su altre basi e che, in

mancanza, il giudizio deve proseguire nelle forme ordinarie (cfr. Cass. Sez. 1,
Sentenza n. 16766 del 07/04/2010, dep. 03/05/2010, Rv. 246930).

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sanzionatorio. Il fulcro della novella, infatti, era costituito dalla parificazione dei

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone trasmettersi gli atti al
Tribunale di Foggia per l’ulteriore corso.

Così deciso in Roma, in data 20 giugno 2014.

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