Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32134 del 27/06/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 32134 Anno 2014
Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
NDREU LULJETA N. IL 09/07/1972
avverso la sentenza n. 1247/2011 CORTE APPELLO di FIRENZE, del
21/05/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/06/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. EMILIO IANNELLO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. )1AR 41 6. Foes 4 RO Nt
che ha concluso per i’ ktagm g44.4,14.4;ifstR,
•.

Data Udienza: 27/06/2014

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 15/3/2010 il Tribunale di Firenze condannava Ndreu
Luljeta alla pena (sospesa) di quattro mesi e 15 giorni di reclusione, convertita
nella corrispondente pena pecuniaria di C 5.130 di ammenda, disponendo la
sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida per un anno e
sei mesi per i reati di cui all’art. 189, commi 6 e 7, cod. strada la stessa
contestati per aver omesso di fermarsi dopo che si era verificato un incidente

un’autovettura e per avere inoltre omesso di prestare assistenza al conducente
del motociclo coinvolto nell’incidente: fatto commesso il 3/3/2007.
Interposto gravame, la Corte d’appello di Firenze con sentenza del
21/5/2012, in parziale accoglimento dell’appello, riduceva la pena inflitta a quella
di mesi tre di reclusione, convertita nella pena pecuniaria di C 3.420 di multa.
Confermava nel resto la sentenza impugnata.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’imputata, per
mezzo del proprio difensore, sulla base di tre motivi.

2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge nonché vizio di
motivazione in ordine alla affermazione della penale responsabilità.
Lamenta che la Corte d’appello, nel confermare la valutazione delle prove
acquisite operata dal primo giudice, ha omesso di dare conto dei criteri adottati e
in particolare delle indicazioni emergenti dalle dichiarazioni dei testi Giannini e
Toci che in realtà riscontravano la sua versione dei fatti, secondo cui non vi era
possibilità di fermarsi sul luogo del sinistro ma occorreva spostarsi più avanti,
come nella specie essa stava per fare, senza intendere sottrarsi agli obblighi a
suo carico derivanti in conseguenza del sinistro.

2.2. Con il secondo deduce i medesimi vizi in relazione alla ritenuta
sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati.
Premesso che, a tal fine, la condizione di persona ferita deve essere
percepibile dall’autore del reato e deve altresì palesarsi la necessità del soccorso,
rileva che, nel caso di specie, un tale accertamento non risulta correttamente
operato del giudice di merito. Afferma che era piuttosto accaduto che, a seguito
del contatto tra l’auto e il motociclo, questo aveva perso aderenza ed era
scivolato per terra, ma tuttavia il motociclista si era subito rialzato e aveva
tranquillizzato sul suo stato di salute, ragione per cui essa, convinta che il
predetto non avesse necessità di soccorso, riprendeva lentamente la marcia al

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stradale con lesioni alle persone ricollegabili al suo comportamento di guida di

solo fine di non intralciare il traffico e non provocare altri incidenti.

2.3. Con il terzo motivo deduce ancora violazione di legge e vizio di
motivazione in relazione alla mancata sospensione della sanzione accessoria
inflitta della sospensione della patente di guida.
Assume che, trattandosi di pena accessoria, la sospensione della pena
principale già accordata in primo grado, avrebbe dovuto essere estesa anche ad

Considerato in diritto

5. È infondato il primo motivo di ricorso.
Questa Corte, chiamata ad esaminare la denunciata contraddittorietà e la
carenza motivazionale, non può invero fare a meno di rilevare l’infondatezza
delle censure al riguardo proposte, non potendosi revocare in dubbio l’intrinseca
coerenza logica e l’adeguatezza del percorso argomentativo della impugnata
sentenza, tanto più in quanto suscettibile di essere integrato – per il noto
principio della c.d. doppia conforme – dalle argomentazioni contenute nella
sentenza di primo grado, integralmente confermata in punto di affermazione
della penale responsabilità.
Le presunte lacune o contraddizioni segnalate dalla ricorrente investono
invero, con ogni evidenza, aspetti marginali ovvero non possono affatto ritenersi
tali ovvero ancora si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione
delle prove come tale certamente inammissibile nel giudizio di legittimità.
Ed infatti:
– l’esistenza o meno di segni evidenti dai quali possa desumersi la proiezione
ovvero la gravità della caduta del motociclista a seguito dell’impatto, non toglie
che quest’ultimo vi sia stato, né che abbia cagionato delle lesioni al predetto, ciò
risultando comunque pacifico in causa, e non essendo negato nemmeno dalla
ricorrente;
il riferimento alle dichiarazioni dei testi Giannini e Toci sottintende
evidentemente una doglianza di omessa valutazione di prova ovvero di
travisamento di prova, che (fondata o meno che sia rispetto alle conclusioni che
la parte ne intende trarre) nella specie deve ritenersi preclusa dal fatto che ci si
trova in presenza di una c.d. doppia conforme e cioè di una doppia pronuncia di
eguale segno (nel nostro caso, di condanna).
In tal caso infatti il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in
sede di legittimità solo nel caso – che nella specie non si verifica – in cui il
ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio

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essa.

asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di
valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado.
Ed invero, sebbene in tema di giudizio di cassazione, in forza della novella
dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del
2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando
nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel
processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può
essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella

del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice
d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti
a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (v. ex multis Sez. 4, n.
19710 del 03/02/2009, Buraschi, Rv. 243636; Sez. 2, n. 5223 del 24/01/2007,
Medina, Rv. 236130).
Nel caso di specie, invece, il giudice di appello ha riesaminato lo stesso
materiale probatorio già sottoposto al Tribunale e, dopo avere preso atto delle
censure dell’appellante, è giunto alla medesima conclusione della assenza di
responsabilità.
È evidente, in definitiva, che – come già accennato – le critiche mosse dalla
ricorrente si risolvono nella mera prospettazione di altra interpretazione delle
emergenze processuali, come noto, in sé irrilevante ai fini del sindacato che
compete in questa sede operare.
Giova al riguardo rammentare che in tema di sindacato del vizio di
motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la
propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, ma solo quello di
stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione,
dandone una corretta e logica interpretazione, con esaustiva e convincente
risposta alle deduzioni delle parti; se abbiano, quindi, correttamente applicato le
regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la
scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 930 del
13/12/1995 – dep. 29/01/1996, Clarke, Rv. 203428; Sez. U, n. 12 del
31/5/2000, Jakani, Rv. 216260). E poiché il vizio di motivazione deducibile in
sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo
del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606
comma 1, lett. e) cod. proc. pen., dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46
– da «altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame»,
tanto comporta, quanto al vizio di manifesta illogicità, per un verso, che il
ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal
giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per altro verso, che questa

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di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite

dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra
interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul
piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato
logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti
si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché, in tesi,
munite di eguale crisma di logicità (cfr. Sez. U, n. 30 del 27/9/1995; Sez. U, n.
6402 del 30/4/1997; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; in
termini sostanzialmente identici, ancorché con riferimento alla materia cautelare,

Sez. U, n. 30 del 27/9/1995, Mannino, Rv. 202903; Sez. U, n. 19 del
25/10/1994, De Lorenzo, Rv. 199391; e, con riguardo al giudizio, Sez. U, n.
930/96 del 13/12/1995, cit.; Sez. U, n. 12 del 31/5/2000, cit).
Inoltre, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606,
comma 1, lett. e), cod. proc. pen.., è quella evidente, cioè di spessore tale da
risultare percepibile ictu ocu/i, proprio perché l’indagine di legittimità sul discorso
giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato
demandato alla Corte di cassazione limitarsi – come s’è detto – a riscontrare
l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di una nuova
valutazione delle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003;
Petrella, Rv. 226074; Sez. 1, n. 5854 del 30/11/2000 – dep. 12/02/2001,
Andretta, Rv. 218119; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, cit.).
Ebbene una siffatta evidente illogicità non è certamente predicabile rispetto
alla decisione qui impugnata, tanto più se si tiene conto del quadro normativo
nel quale la vicenda va iscritta, rispetto al quale l’opposta valutazione proposta
dalla ricorrente si rivela fondata su argomenti palesemente inconducenti.
Ed invero, la stessa versione dell’imputata secondo cui essa, senza scendere
dall’autovettura, sol perché tranquillizzata dalle apparenti buone condizioni del
motociclista ha ripreso la marcia subito dopo il sinistro descrive in realtà una
condotta dall’imputata che comunque, con ogni evidenza, è ben lontana dal
potersi considerare satisfattiva dell’obbligo comportamentale imposto dall’art.
189, comma 1, cod. strada di «fermarsi e di prestare l’assistenza occorrente a
coloro che, eventualmente, abbiano subito danno alla persona».
Che infatti la persona offesa sia stata o meno in grado di alzarsi e
allontanarsi dal luogo dell’incidente dopo poco tempo, con o senza l’aiuto di
soccorritori, non toglie che comunque quell’obbligo nella specie era divenuto
attuale per il solo fatto del sinistro stradale e dell’evidente coinvolgimento della
persona fisica del motociclista in circostanze (quale in particolare quella, pacifica
in causa, secondo cui lo stesso era «rovinato per terra») certamente idonee a
determinare l’apparenza e a far sorgere il timore di possibili lesioni.

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Sez. U, n. 16 del 19/6/1996, Di Francesco, Rv. 205621; e non dissimilmente,

Mette conto sottolineare al riguardo che, secondo consolidato e
assolutamente condivisibile indirizzo interpretativo di questa Corte,

«in tema di

circolazione stradale, l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 189, comma
6, cod. strada (punito solo a titolo di dolo) ricorre quando l’utente della strada, al
verificarsi di un incidente – idoneo a recar danno alle persone e riconducibile al
proprio comportamento – ometta di fermarsi per prestare eventuale soccorso,
non necessario per contro essendo che il soggetto agente abbia in concreto
constatato il danno provocato alla vittima» (v. in termini ex plurimis Sez. 4, n.

01/03/2005, Verginella, Rv. 230816). Ai fini della configurabilità del reato di
fuga,

quanto all’elemento psicologico, pur essendo richiesto il dolo,

«la

consapevolezza che la persona coinvolta nell’incidente ha bisogno di soccorso
può sussistere anche sotto il profilo del dolo eventuale, che si configura
normalmente in relazione all’elemento volitivo, ma che può attenere anche
all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la
sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce
reato, accettandone per ciò stesso l’esistenza» (v. in termini, Sez. 4, n. 34134
del 13/07/2007, Agostinone, Rv. 237239; conf., Sez. 4 n. 21445 del
10/04/2006, Marangoni, Rv. 234570; Sez. 4, n. 8103 del 10/01/2003, Fanello,
Rv. 223966).

6. Giova ancora precisare che, per pacifica giurisprudenza, nel reato
quo,

de

l’accertamento dell’elemento psicologico va compiuto in relazione al

momento in cui l’agente pone in essere la condotta e, quindi, alle circostanze
concretamente rappresentate e percepite a quel momento, che siano
univocamente indicative di un incidente ricollegabile al proprio comportamento
ed idoneo ad arrecare danno alle persone, dovendo riservare ad un successivo
momento il definitivo accertamento delle effettive conseguenze del sinistro.
E giova evidenziare, altresì, che il dovere di fermarsi sul posto dell’incidente
deve durare per tutto il tempo necessario all’espletamento delle prime indagini
rivolte ai fini dell’identificazione del conducente stesso e del veicolo condotto,
perché, ove si ritenesse che la durata della prescritta fermata possa essere
anche talmente breve da non consentire né l’identificazione del conducente, né
quella del veicolo, né lo svolgimento di un qualsiasi accertamento sulle modalità
dell’incidente e sulle responsabilità nella causazione del medesimo, la norma
stessa sarebbe priva di ratio e di una qualsiasi utilità pratica (cfr., ex plurimis,
Sez. 4, n. 20235 del 25/01/2006, Mischiatti, Rv. 234581).
Non può dubitarsi che, nella specie, alla stregua dei dati pacifici in causa,
tale obbligo non può considerarsi rispettato, non valendo nemmeno a giustificare

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5510 del 12/12/2012, Meta, rv. 254667; Sez. 4, n. 7615 del 10/11/2004 – dep.

la condotta dell’imputata l’addotta esigenza di spostare l’autovettura dal flusso
della circolazione, tale esigenza dovendo soccombere rispetto a quella primaria
di scendere dall’auto per accertarsi delle condizioni della persona coinvolta
nell’incidente, sia pure per il tempo necessario eventualmente ad un compiuto
accertamento e/o sincerarsi della esistenza di altri idonei soccorsi, ovvero essere
soddisfatta in altri modi che non richiedano un allontanamento dal luogo del
sinistro e, soprattutto, dalla vittima in ipotesi abbisognevole di soccorso.

L’art. 189, commi 6 e 7, cod. strada impone al giudice, obbligatoriamente e
riservandogli i poteri di determinazione della durata nell’ambito dei limiti edittali
previsti, l’applicazione della

«sanzione amministrativa accessoria»

(così

espressamente qualificata) della sospensione della patente di guida per
chiunque, essendo stato comunque coinvolto in un incidente stradale a causa del
suo comportamento, non ottempera all’obbligo di fermarsi e di prestare
l’assistenza occorrente alle persone ferite.
Attesa tale natura, detta sanzione non è suscettibile di sospensione
condizionale ai sensi dell’art. 163 cod. pen..
Per pacifico insegnamento, invero, il beneficio della sospensione
condizionale della pena si applica solo alle pene principali ed accessorie, non alle
sanzioni amministrative accessorie (cfr.

ex multis Sez. 3, n. 39499 del

19/09/2008 – dep. 22/10/2008, Prencipe, Rv. 241292; Sez. 3, n. 34297 del
05/07/2007 – dep. 11/09/2007, Moretti, Rv. 237220)

8.

Il ricorso va pertanto rigettato, con la condanna della ricorrente al

pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 27/6/2014

7. Palesemente infondato è poi il terzo motivo di ricorso.

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