Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3211 del 20/12/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 3211 Anno 2014
Presidente: PETTI CIRO
Relatore: DI MARZIO FABRIZIO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da Racicpardazzi Alexander, nato il 22.12.1952; Deana
Fabio, nato il 17.2.1949, avverso la sentenza della Corte di appello di Milano
del 17.5.2012. Sentita la relazione della causa fatta dal consigliere Fabrizio Di
Marzio; udita la requisitoria del sostituto procuratore generale Fulvio Baldi, il
quale ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata con rinvio. Uditi i
difensori degli imputati, avv. Franz Sarno e Piero Magri per l’imputato Racic i
quali hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso; l’avv.
RobertaGuaineri, per la parte civileBraendli Niccolò, la quale ha concluso per il
rigetto dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Milano, in parziale riforma
della sentenza emessa in data 3 maggio 2010 dal tribunale della medesima
città, riqualificato il fatto contestato inizialmente come estorsione tentata
come truffa aggravata, ha rideterminato la pena inflitta agli imputati e ha
ridotto l’ammontare del risarcimento del danno in favore della costituita parte
civile.

Data Udienza: 20/12/2013

Ricorrono, assistiti dai propri difensori, entrambi gli imputati presentando
motivi comuni.
Si contesta, innanzitutto, violazione di legge per essere la decisione fondata
sulle dichiarazioni spontanee rese dagli imputati agli agenti di polizia,
dichiarazioni invece inutilizzabili ai sensi dell’art. 350 comma 7 cod. proc. pen.
Si critica inoltre che la corte di appello, nel qualificare il fatto non come
estorsione ma quale truffa aggravata, avrebbe violato il principio della

imputati per un fatto diverso da quello a loro inizialmente contestato. Tanto si
dice osservando come la maggior parte degli elementi essenziali della truffa
non risultano essere oggetto di contestazione nel capo d’imputazione.
Ulteriormente, si stigmatizza la qualificazione del fatto nel senso della truffa
aggravata, ritenendo infondata la ricostruzione del giudice di merito secondo
cui gli imputati avrebbero commesso il delitto ingenerando nella persona
offesa il timore di un pericolo immaginario; ciò in quanto, si argomenta, nel
momento in cui la persona offesa si accingeva all’atto di disposizione
patrimoniale il pericolo immaginario a non era più attuale.
Ulteriore violazione di legge è ravvisata in relazione alla mancata
qualificazione del fatto come truffa tentata, non rinvenendosi in sentenza
nessuna affermazione in tal senso rispetto alla riqualificazione del fatto
inizialmente contestato come tentata estorsione.
Soprattutto nel ricorso a firma dell’avvocato Magri presentato nell’interesse
del Racic, si lamenta vizio di motivazione in ordine alla penale responsabilità
dello stesso svolgendo in forma dettagliata una critica all’interpretazione dei
rilievi istruttori svolta in sentenza.
Si lamenta inoltre violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla
determinazione della pena e alla mancata concessione delle circostanze
attenuanti generiche osservando in generale come non sia stata data risposta
in sentenza alle numerose questioni sollevate a riguardo nei motivi di appello
e rilevando in particolare come non risulti indicata la pena base su cui sarebbe
stato calcolato l’aumento per la ritenuta aggravante.
Si critica infine, per vizio di motivazione, la fissazione dell’ammontare del
risarcimento dovuto alla costituita parte civile, per euro 40.000, siccome in
nessun modo argomentata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sonoinfondati.

correlazione tra imputazione e sentenza giungendo a condannare gli odierni

Infondata è, innanzitutto, la doglianza relativa alla violazione dell’art. 350
comma 7 cod. proc. pen.: in sentenza, infatti, i giudici si limitano a richiamare
le dichiarazioni fatte dagli imputati alle forze dell’ordine, ma in nessun modo
fondano la propria decisione sulla medesime. Come chiaramente emerge dalla
lettura della sentenza impugnata, la prova sulla penale responsabilità degli
odierni imputati si fonda sulla deposizione della persona offesa costituitasi
parte civile, nonché sugli ulteriori elementi di prova acquisiti agli atti: non

quando ebbe ad incontrare la persona offesa, dotata di microfono e di soldi
falsi con cui effettuare il pagamento all’odierno imputato, su suggerimento
della polizia che assisteva alla scena.
A tale ultimo riguardo, conviene osservare comein questa sede vada ribadito il
principio, espresso da un consolidato indirizzo esegetico, e di recente ribadito
da Cass. sez. un. 19.7.2012,n. per il quale “le regole dettate dall’art. 192 cod.
proc. pen., comma 3, non trovano applicazione relativamente alle
dichiarazioni della parte offesa: queste ultime possono essere legittimamente
poste da sole a base dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato,
previa verifica, corredata da idonea motivazione, della loro credibilità
soggettiva e dell’attendibilità intrinseca del racconto (cfr. ex multis e tra le più
recenti Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, F., Rv. 251661; Sez. 3, n. 28913 del
03/05/2011, C, Rv.251075; Sez. 3, n. 1818 del 03/12/2010, dep. 2011, L. C,
Rv. 249136;Sez. 6, n. 27322 del 14/04/2008, De Ritis, Rv. 240524). Il vaglio
positivo dell’attendibilità del dichiarante deve essere più penetrante e rigoroso
rispetto a quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi
testimone, di talchè tale deposizione può essere assunta da sola come fonte di
prova unicamente se venga sottoposta a detto riscontro di credibilità
oggettiva e soggettiva. Può essere opportuno procedere al riscontro di tali
dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita
parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui
soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell’imputato
(Sez. 1, n. 29372 del 24/06/2010, Stefanini, Rv. 248016; Sez. 6, n. 33162
del 03/06/2004, Patella, Rv. 229755). Costituisce, infine, principio
incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la
valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una
questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio
motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di
legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (cfr.

ultime le emergenze risultanti dal fermo a cui è stato sottoposto il Racic

ex plurimis Sez. 6, n. 27322 del 2008, De Ritis, cit.; Sez. 3, n. 8382 del
22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 del 04/11/2004, dep. 2005,
Zamberlan, Rv. 230899; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003, dep. 2004, Pacca,
Rv. 227493; Sez. 3, n. 22848 del 27/03/2003, Assenza, Rv. 225232)”.
La corte territoriale – tenendo doverosamente ed accuratamente conto di tutti
gli elementi emersi nel corso del processo – ha spiegato, con iter
argomentativo esaustivo, logico, correttamente sviluppato e saldamente

le dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato, siano da ritenere
intrinsecamente e oggettivamente attendibili e trovino univoci e significativi
elementi di convergenza negli altri elementi investigativi acquisiti (cfr. pp. 13
e seguenti della sentenza impugnata). Al contrario, nei ricorsi si muovono
esclusivamente censure nel merito come tali di insindacabile valutazione in
questa sede di legittimità.
Ciò posto, va inoltre ribadito come rientri nei poteri della Corte di cassazione,
ex art. 609, comma 2, c.p.p., anche nel caso in cui il ricorso sia stato
proposto dal solo imputato, la corretta qualificazione giuridica del fatto (Cass.
Sez. VI,30.1.2008, n. 11055).
È appena il caso di osservare, ulteriormente, che in tema di correlazione tra
accusa e sentenza, comportando una lettura costituzionalmente orientata
dell’art. 521 comma 1 c.p.p. (la quale sia anche in linea con i principi
affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la nota sentenza
Drassich dell’Il dicembre 2007), soltanto l’esigenza che la diversa
qualificazione giuridica del fatto non avvenga “a sorpresa” e con pregiudizio,
quindi, del diritto di difesa dell’imputato, deve ritenersi che tale condizione
venga soddisfatta qualora, per un verso, egli abbia avuto, nel corso del
giudizio di merito, la possibilità di interloquire sul contenuto dell’imputazione,
anche attraverso l’eventuale impugnazione della sentenza di primo grado e,
per altro verso, la diversa qualificazione, ferma restando l’identità degli
elementi fondamentali del fatto, rientri nel novero di una limitatissima gamma
di previsioni alternative, per cui l’eventuale esclusione dell’una comporti
inevitabilmente l’applicazione dell’altra (principio affermato, nella specie, con
riguardo ad un caso in cui, contestato originariamente il reato di ricettazione,
era stato ritenuto, all’esito del giudizio di primo grado, confermato dalla corte
d’appello, quello di furto aggravato) (Cass. Sez. V 24.9.2012, n. 7984).
Nel caso di specie, assume rilievo dirimente che il fatto sia stato qualificato
come estorsione dal tribunale mentre la diversa qualificazione del fatto in

ancorato all’esame delle singole emergenze processuali, le ragioni per le quali

termini di truffa in appello sia dipesa dall’adesione a una tesi difensiva:
cosicché il contraddittorio sulla qualificazione giuridica del fatto deve ritenersi
pienamente espletato nell’assoluto rispetto della garanzia difensiva.
Ne discende che il pacifico potere di riqualificazione del fatto anche in sede di
cassazione e anche nella costanza della impugnazione del solo imputato
unitamente al compiuto rispetto del principio del contraddittorio circa tale
qualificazione, diversamente prospettata nel giudizio del tribunale e nel

di qualificazione del fatto come di estorsione tentata anziché di truffa.
Deve preliminarmente osservarsi che la corte di appello condivide la
ricostruzione dei fatti svolta dal tribunale sulla piena riconducibilità agli odierni
imputati di tutte le condotte criminose oggetto del processo. Ciò si dica,
innanzitutto, per le iniziali condotte estorsive volte a richiedere il pagamento
di una somma di denaro per evitare un male ingiusto, condotte estrinsecatesi
in minacce poste in essere da soggetto rimasto ignoto ma evidentemente
collegato agli odierni imputati, come logicamente dimostrato nella sentenza di
primo grado e confermato nella sentenza di appello (della quale vedi
soprattutto le pagine 15 e seguenti). Ciò si dica, inoltre, per le successive
condotte di tentativo di induzione della persona offesa ad effettuare un
pagamento al Racic in restituzione di somme che quest’ultimo avrebbe
versato ai fantomatici estorsori per tacitarne le ingiuste pretese.
Se non che, nell’esaminare le prime e le seconde condotte, la corte procede in
maniera parcellizzata, senza connettere causalmente il fatto della estorsione
avvenuta a mezzo di lettera e di telefonate con la condotta degli imputati
volta ad ottenere la restituzione delle somme che prospettano alla persona
offesa essere state anticipate per pagare i fantomatici estorsori.
Distingue infatti la corte territoriale il primo segmento delle condotte dal
segmento successivo;e sostiene che nel momento in cui la persona offesa si è
determinata alla dazione patrimoniale, ciò ha fatto ritenendosi debitore del
Racic e dunque restando vittima di un inganno (consistito nell’averle questi
fatto credere che il prezzo dell’estorsione era stato pagato con denaro liquido
del Racic), e non perché indotto dal timore di subire un male ingiusto.
In tal modo non considerano, i giudici di appello, l’evidenza che la persona
offesa si è determinata ad assumere il debito verso il Racic, accettando che
l’imputato pagasse gli estorsori nel suo interesse, soccombendo alle condotte
estorsive e non restando vittima di una truffa. Proprio in ragione della
autorizzazione dell’imputato al pagamento agli estorsori, e dunque della

giudizio della corte d’appello, legittimino il giudizio di questa corte in termini

contestuale acquisizione di un corrispondente debito verso lo stesso, deve al
contrario argomentarsi l’integrazione della fattispecie estorsiva.
Alla riqualificazione del fatto come estorsione tentata, sulla scorta di quanto
già esattamente giudicato dal tribunale, non consegue, ovviamente, modifica
del trattamento sanzionatorio,pur ridimensionato in corte di appello sulla
scorta dell’esposto errore di giudizio: vi osta infatti la mancata impugnazione
del pubblico ministero.

assorbimento degli stessi nelle ragioni sopraesposte.
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della
Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa
emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1000.
PQM
Rigetta i ricorson condanna dei ricorrentlà1 pagamento delle spese
processuali, riqualificato il fatto come tentativo di estorsione. Condanna altresì
i ricorrenti alla rifusione delle spese del grado alla parte civile Braendli Niccolò,
liquidate in euro 2.500,00 per compensO oltre accessori di legge.

Così deliberato il 20.12.2013

Il Consigliere estensore
Fabrizio Di Marzio

Il Presidente
Ciro Petti

Ne discende, tuttavia, la reiezione di tutti i restanti motivi per l’intervenuto

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