Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32088 del 08/07/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 32088 Anno 2014
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: LOMBARDO LUIGI GIOVANNI

Data Udienza: 08/07/2014

SENTENZA
sul ricorso proposto da
1) FORTUNATO Angelo, n. il 23.9.1965;
2) FORTUNATO Leonardo, n. il 5.6.1947;
3) FORTUNATO Mattia, n. il 18.1.1974;
4) MERCANTE Giuseppe, n. il 25.8.1953;
5) PORTOGHESE Santa, n. il 18.2.1945;
6) RUBINI Giuseppe, n. 15.10.1962;
avverso la sentenza della Corte di Appello di Bari del 14.6.2013;
Sentita la relazione del Consigliere Luigi Lombardo;
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Elisabetta Cesqui,
che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi di Fortunato

Angelo,

Fortunato Leonardo e Rubini Giuseppe, nonché per il rigetto dei restanti
ricorsi;
Uditi i difensori Avv.ti Vittorio Gironda, Alfredo Gaito, Antonio Mitolo,
Saverio Ingraffia e Raffaele Antonio Conto, che hanno concluso
chiedendo l’accoglimento dei rispettivi ricorsi;

CONSIDERATO IN FATTO E IN DIRITTO
1. Con sentenza del 10.10.2011, il G.U.P. del Tribunale di Bari, in
esito a giudizio abbreviato, dichiarò Fortunato Leonardo e Rubini
Giuseppe responsabili dei delitti di usura ed estorsione, Fortunato Angelo
responsabile del delitto di usura, e li condannò tutti alle pene di legge,
oltre al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite,

Mattia, Mercante Giuseppe, Portoghese Santa da tutti i reati loro ascritti,
nonché Fortunato Leonardo e Rubini Giuseppe dagli ulteriori reati loro
rispettivamente ascritti.
Avverso tale sentenza proposero gravame il pubblico ministero, la
parte civile Associazione Provinciale Antiracket Antimafia, nonché gli
imputati Fortunato Leonardo, Rubini Giuseppe e Fortunato Angelo. La
Corte di Appello di Bari, con sentenza del 14.6.2013, rigettò gli appelli
degli imputati; in accoglimento dell’appello del pubblico ministero,
dichiarò Fortunato Mattia colpevole del delitto di usura contestatogli al
capo B) della rubrica; Mercante Giuseppe colpevole del delitto di usura
contestatogli al capo E) della rubrica; Portoghese Santa colpevole del
delitto di riciclaggio contestatole al capo K) della rubrica, condannandoli
tutti alle pene di giustizia, nonché al risarcimento dei danni in favore delle
parti civili costituite.
Avverso tale pronunzia propongono ricorso per cassazione gli odierni
imputati a mezzo dei loro difensori.

2. Il difensore di Fortunato Angelo (condannato in primo grado per
il delitto usura di cui al capo B, con sentenza confermata in appello), con
l’unico motivo di ricorso, deduce la violazione ed erronea applicazione
dell’art. 644 cod. pen. Deduce, in particolare, che la Corte di Appello
avrebbe errato nel qualificare il fatto alla stregua della fattispecie
criminosa di cui all’art. 644 cod. pen., piuttosto che alla stregua della
fattispecie di favoreggiamento di cui all’art. 379 cod. pen.; ciò perché – a
dire del ricorrente – l’imputato non avrebbe dato alcun contributo causale
alla commissione della usura, dal momento che non avrebbe riscosso
alcuna somma relativa all’usura contestata al padre Fortunato Leonardo,

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disponendo la confisca di quanto in sequestro; assolvette Fortunato

ma si sarebbe limitato in due occasioni a tentare di riscuotere il credito
paterno senza riuscirvi. Sarebbe carente poi la prova della
consapevolezza dell’imputato dei rapporti sottostanti tra il padre e la
persona offesa Robles Francesco; infine, la mancata percezione di alcun
interesse usurario da parte dell’imputato escluderebbe del tutto la
configurabilità del reato di usura a suo carico.

al merito della valutazione delle prove, che sono insindacabili in sede di
legittimità, quando – come nel caso di specie – risulta che i giudici di
merito (p. 33 ss. della sentenza impugnata) hanno esposto in modo
ordinato e coerente le ragioni che giustificano la loro decisione
(richiamando, tra l’altro, le dichiarazioni di Robles Francesco e il
contenuto di diverse conversazioni – intercettate 1’11/4/ e il 10/3 2008 che attestano il pieno coinvolgimento dell’imputato nell’attività usuraria
del padre), sicché deve escludersi tanto la mancanza quanto la manifesta
illogicità della motivazione, che costituiscono i vizi («di macroscopica
evidenza», «percepibili

“ictu ocu/i”»:

cfr. Cass., sez. un., n. 24 del

24.11.1999 Rv 214794; Sez. un., n. 47289 del 24/09/2003 Rv. 226074)
che circoscrivono l’ambito in cui è consentito il sindacato di legittimità
sulla motivazione in facto.
Quanto alla pretesa non configurabilità del concorso del Fortunato
Angelo nell’attività usuraria paterna (per essere invece configurabile solo
il reato di favoreggiamento reale), essa è priva di fondamento alla luce
della ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito, alla stregua
della quale l’imputato prese parte attiva all’usura orchestrata dal padre,
sollecitando i pagamenti del Robles e ricevendo da lui assegni e
documenti relativi ai finanziamenti ottenuti (v. p. 34-36 della sentenza
impugnata ove si richiamano le ammissione dell’imputato e il significativo
contenuto delle conversazioni intercettate).

3. Il difensore di Fortunato Leonardo (condannato in primo grado
per i reati di usura di cui ai capi B, D ed E, nonché per il reato di

estorsione di cui al capo C, con sentenza del G.U.P. confermata in
appello), propone tre motivi di ricorso.

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La censura è inammissibile, perché sottopone alla Corte profili relativi

3.1. Con il primo motivo, deduce la erronea applicazione dell’art. 629
cod. pen., nonché la contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta
responsabilità dell’imputato per il delitto di estorsione in danno di Robles
Francesco di cui al capo C). Deduce, in particolare, che l’imputato non
avrebbe posto in essere alcuna minaccia idonea ad incutere timore alla

richiamate dalla Corte di Appello, correttamente interpretate;
3.2. Con il secondo motivo, deduce la erronea applicazione dell’art.
644 cod. pen., nonché la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità
della motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta
responsabilità dell’imputato per il delitto di usura in danno di Servedio
Domenico di cui al capo E). Deduce, in particolare, che la Corte
distrettuale sarebbe incorsa in una erronea e fuorviante lettura delle
dichiarazioni della persona offesa Servedio Domenico, il quale avrebbe
dichiarato di non aver ricevuto il prestito dall’imputato, ma da tale Snidar
Alessandro, prestito peraltro senza interessi; cosicché la somma di 33
mila euro che l’imputato avrebbe preteso dal Servedio sarebbe il frutto di
una truffa, e non di un prestito usurario.
3.3. Con il terzo motivo, deduce l’erronea applicazione della legge
penale nella determinazione della pena, relativamente agli aumenti
effettuati dai giudici di merito con riferimento alle aggravanti contestate.
Anche queste censure sono inammissibili.
Il ricorrente, infatti, critica – sotto mentite spoglie – la valutazione
delle prove da parte dei giudici di merito e le conclusioni cui essi sono
pervenuti in ordine alla sua responsabilità penale; senza considerare che
la valutazione delle prove – ivi compresa la interpretazione del contenuto
delle conversazioni intercettate – è riservata in via esclusiva
all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito e non è sindacabile
in cassazione; a meno che ricorra una mancanza o una manifesta
illogicità della motivazione, ciò che – nel caso di specie – deve però
escludersi.
Nel caso di specie, con riferimento alle censure di cui ai primi due
motivi di ricorso, i giudici di merito (p. 27 ss.) hanno chiarito, con dovizia

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persona offesa, come risulterebbe dalle conversazioni registrate

di argomenti, le ragioni della loro decisione (richiamando: quanto al
delitto di cui al capo C, l’eloquente contenuto dei colloqui intercettati;
quanto al delitto di cui al capo E, le dichiarazioni del Servedio che
ricostruiscono la genesi del prestito usurario ottenuto dal Mercante e dal
Fortunato Leonardo e la corresponsione degli interessi usurari proprio a
quest’ultimo); non si ritiene, peraltro – per ovvi motivi – di riportare qui

Collegio far rilevare che le stesse non sono manifestamente illogiche; e
che, anzi, l’estensore della sentenza ha esposto in modo ordinato e
coerente le ragioni che giustificano la decisione adottata, la quale perciò
resiste alle censure del ricorrente sul punto.
Piuttosto, sono le censure mosse col ricorso che non prendono
compiutamente in esame le argomentazioni svolte dai giudici di merito
nel provvedimento impugnato, risultando così generiche e, anche sotto
tale profilo, inammissibili, limitandosi a proporre a questa Corte una
ricostruzione dei fatti alternativa rispetto a quella dei giudici di merito.
E tuttavia, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della
Corte di cassazione non è quello di condividere o non condividere la
ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di
procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a
quella compiuta dai giudici del merito (cfr. Cass, sez. 1, n. 7113 del
06/06/1997 Rv. 208241; Sez. 2, n. 3438 del 11/6/1998 Rv 210938),
dovendo invece la Corte di legittimità limitarsi a controllare se costoro
abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il ragionamento
probatorio, da essi reso manifesto nella motivazione del provvedimento
impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile;
ciò che, come dianzi detto, nel caso di specie è dato riscontrare.
Corretta è stata poi l’applicazione fatta dalla Corte distrettuale del
principi di diritto dettati da questa Corte in materia di minaccia implicita,
conforme al principio di diritto secondo cui la minaccia costitutiva del
delitto di estorsione, oltre ad essere palese ed esplicita, può essere
manifestata anche in maniera implicita ed indiretta, essendo solo
necessario che sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del

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integralmente tutte le suddette argomentazioni, sembrando sufficiente al

soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità
dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni
ambientali in cui questa opera (Sez. 2, n. 19724 del 20/05/2010 Rv.
247117).
Quanto poi al terzo motivo di ricorso, esso risulta inammissibile,
perché aspecifico, in quanto non tiene conto – sia pure per criticarla –

doglianza relativa alla determinazione della pena.

4. Il difensore di Fortunato Mattia (assolto in primo grado, ma
condannato in appello per il reato di usura di cui al capo B della rubrica),
propone due motivi di ricorso:
4.1. Con il primo motivo, deduce la violazione dell’art. 592 comma 3
cod. proc. pen., per non avere la Corte distrettuale limitato al giudizio di
appello la condanna dell’imputato (che era stato assolto in primo grado)
alla rifusione delle spese del procedimento alla parte civile;
4.2. Con il secondo motivo, deduce l’inosservanza o erronea
applicazione degli artt. 42, 132 e 133 cod. pen. Deduce, in particolare,
che il giudice di appello, nel riformare in peius la sentenza di primo
grado, non avrebbero considerato gli argomenti adottati dal G.U.P. nella
sentenza assolutoria, né avrebbe considerato le risultanze probatorie
dibattimentali evidenziate dalla difesa; la Corte di Appello inoltre avrebbe
omesso del tutto di motivare sulla determinazione della pena.
Anche queste censure sono inammissibili.
Il primo motivo è manifestamente infondato. Infatti, con la condanna
dell’imputato al risarcimento del danno in favore delle parti civili
costituite, il giudice di appello non poteva non condannare l’imputato
anche alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili
costituite, in applicazione dell’art. 541 cod. proc. pen., applicabile anche
nel giudizio di appello ai sensi dell’art. 598 cod. proc. pen.
Esattamente la condanna è stata estesa alle spese dei due gradi del
giudizio, in conformità al principio dettato da questa Corte, secondo cui
l’esercizio dell’azione civile nel processo penale realizza un rapporto
processuale avente per oggetto una domanda privatistica (alla

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della precisa motivazione data dalla Corte di Appello in ordine alla

restituzione o al risarcimento del danno), con la conseguenza che il
regime delle spese va regolato secondo il criterio della soccombenza, di
cui all’art. 91 cod. proc. civ., in base al quale l’onere delle spese va
valutato, nell’ipotesi di alterne vicende nei diversi gradi del giudizio, con
riferimento all’esito finale, a nulla rilevando che una parte, risultata infine
soccombente, sia stata vittoriosa in qualche fase o grado (Fattispecie in

dichiarando la responsabilità penale dell’imputato e condannandolo al
risarcimento dei danni nei confronti della parte civile, lo aveva pure
condannato a rifondere a quest’ultima le spese sostenute per tutti i gradi
e fasi del giudizio, nonostante che in un grado di giudizio dinanzi alla
Corte di Cassazione fossero state riconosciute fondate le doglianze
dell’imputato stesso, che aveva ottenuto l’annullamento con rinvio della
sentenza in quella sede impugnata) (Cass., Sez. 4, n. 4497 del
15/10/1999 Rv. 216462; v. anche Sez. 2, n. 8230 del 18/04/1996 Rv.
205616).
Il secondo motivo di ricorso, poi, risulta inammissibile per assoluta
genericità.
La sentenza di appello (p. 39 ss.) ha considerato e criticato la
sentenza assolutoria di primo grado, contrapponendo alle lettura delle
prove operata dal primo giudice, quella del giudice superiore, il quale ha
evidenziato la sussistenza di plurimi e convergenti elementi di prova a
carico dell’imputato (le dichiarazioni della persona offesa Robles
Francesco, il riscontro documentale nella matrici dei titoli e nei documenti
bancari, nonché le risultanze delle conversazioni telefoniche del
30.4.2008 e del 10.3.2008). La Corte territoriale ha considerato anche le
argomentazioni sottoposte dal difensore, ritenendole smentite dalle prove
acquisite.
Il ricorrente omette di prendere in esame per criticarle le ragioni
poste dai giudici di merito a fondamento della loro decisione; cosicché il
motivo di ricorso in esame, difettando della necessaria correlazione con le
ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato, risulta
“aspecifico” e perciò inammissibile (cfr., ex plurimis, (Cass., Sez. 5, n.
28011 del 15/02/2013 Rv. 255568; Cass., Sez. 2, n. 36406 del

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cui la S.C. ha confermato la sentenza della corte d’appello la quale,

27/06/2012 Rv. 253893; Cass., Sez. 2, n. 19951 del 15/05/2008 Rv.
240109).
Puntuale è la motivazione della sentenza di appello (p. 55) in ordine
al calcolo della pena irrogata a Fortunato Mattia, non tenuta in conto né
censurata dal ricorrente.
In definitiva, anche in ordine alla posizione di Fortunato Mattia, la

manifesta illogicità e, perciò, non sindacabile da parte di questa Corte.

5. Il difensore di Mercante Giuseppe (assolto in primo grado, ma
condannato in appello per il reato di usura di cui al capo E della rubrica),
con l’unico motivo di ricorso, deduce la violazione degli artt. 110, 81 e
644 cod. pen., 521 e 530 cod. proc. pen., nonché la mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata e il travisamento della prova con riferimento alla ritenuta
responsabilità dell’imputato. Deduce che la Corte di Appello non avrebbe
confutato le ragioni poste dal G.U.P. a fondamento della sentenza
assolutoria di primo grado e non avrebbe assolto l’onere di motivare in
modo rafforzato la reformatio in peius; per di più, a dire del ricorrente, la
Corte distrettuale avrebbe travisato la deposizione testimoniale della
persona offesa Servedio Domenico, il quale, piuttosto che accusare il
Mercante, lo avrebbe scagionato, riferendo che lo stesso gli aveva detto
che, per il prestito ottenuto, non doveva pagare alcun interesse.
La difesa del Mercante ha depositato note con le quali ha insistito
nelle censure proposte col ricorso.
Anche le doglianze in esame sono inammissibili.
È noto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «La sentenza
di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve
confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le
ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria,
dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico
degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto
riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di
appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che,

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motivazione della Corte di Appello risulta completa e immune da

sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia
ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad
elementi di prova diversi o diversamente valutati» (Cass., Sez. 6, n. 6221

del 20/04/2005 Rv. 233083; Sez. 5, n. 42033 del 17/10/2008 Rv.
242330); è stato così affermato che «per la riforma di una sentenza
assolutoria non basta – in mancanza di elementi sopravvenuti – una

grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di
colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore
plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo,
invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni
ragionevole dubbio» (Sez. 6, n. 46847 del 10 luglio 2012, Rv. 253718;

Sez. 6, n. 1266 del 10 ottobre 2012, Rv. 254024; Sez. 6, n. 49755 del 21
novembre 2012, Rv. 253909).
Si tratta di principi di diritto – condivisi dal Collegio – che, nel caso di
specie, sono stati puntualmente osservati dalla Corte distrettuale.
E invero, la motivazione della sentenza impugnata muove proprio
dall’esame e dalla critica delle ragioni poste dal primo giudice a
fondamento della pronuncia assolutoria (p. 46 ss.), riesamina
compiutamente le prove e ne dimostra la univoca convergenza verso il
giudizio di responsabilità dell’imputato.
Corretta è la metodologia seguita dalla Corte di merito nel valutare e
interpretare le dichiarazioni rese dalla persona offesa Servedio,
operazione che compie alla luce delle risultanze delle numerose
conversazioni intercettate, dalle quali – secondo la ricostruzione del fatto
compiuta dai giudici di appello – risulta che il Mercante è al centro
dell’operazione usuraria posta in essere nei confronti del Servedio e secondo le parole dei giudici di appello – assume il ruolo di vero
“dominus” del finanziamento erogato al Servedio. In questo senso, risulta
del tutto priva di fondamento la censura del ricorrente circa il mancato
chiarimento del ruolo del Mercante nella commissione della usura in
questione.
La motivazione della Corte territoriale è completa anche con
riferimento alla deduzione della difesa circa la dichiarazione di Servedio

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mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo

Domenico, secondo cui il Mercante avrebbe affermato che egli, per il
prestito ottenuto, non avrebbe dovuto pagare alcun interesse. La Corte di
Appello, infatti, tiene conto di tale riferita affermazione del Mercante, ma
– alla luce delle complessive emergenze delle conversazioni intercettate ritiene che essa faccia parte di una strategia dell’imputato, tesa ad
occultare il suo vero ruolo di dominus del finanziamento illecito. E infatti,

impugnata) che «il boss (ossia il Mercante), non volendo apparire agli
occhi dell’imprenditore come un usuraio, aveva richiesto il pagamento
degli interessi sulla somma erogata a Servedio (nella misura del 10% al
mese, pari ad € 33.000,00) attraverso il Fortunato, che rappresentava il
suo terminale presso gli “strozzati”: poiché egli non tollerava che gli altri
soggetti si fossero intromessi nell’operazione, nella specie il Regina,
aveva “dato una lezione” a suo nipote Palladino Giovanni». Non esiste

dunque il preteso travisamento dei giudici di merito circa il contenuto
delle dichiarazioni acquisite (allegate al ricorso); esiste una valutazione e
interpretazione di esse, da parte della Corte territoriale, diversa da quella
del primo giudice e non condivisa dalla difesa dell’imputato; ma tale
dissenso non può certo essere sottoposto a questa Corte in presenza di
una motivazione esente da vizi logici e giuridici.
In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla
responsabilità del Mercante è completa ed esente da vizi logici e giuridici
e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità; le censure del ricorrente,
risolvendosi in una critica del merito della valutazione delle prove, sono
inammissibili nel giudizio di cassazione.
I difensori dell’imputato – durante la discussione del processo hanno eccepito la nullità della sentenza impugnata per non avere i giudici
di appello, nel riformare in peius la sentenza di primo grado, risentito i
testimoni sulla cui deposizione avrebbero fondato la loro pronuncia.
Anche questa censura è manifestamente infondata.
Com’è noto, la più recente giurisprudenza di questa Corte suprema,
sulla scia dei pronunciamenti della Corte E.D.U. (si richiama, a tal fine, la
sentenza 5 luglio 2011, relativa al caso Dan c. Moldavia, in particolare i
paragrafi 32 e 33, con l’affermazione del principio secondo cui, quando la

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la Corte distrettuale perviene alla conclusione (p. 48 della sentenza

decisione di prima condanna in grado di appello si fonda sul diverso
apprezzamento di una prova orale determinante per la decisione, tale
prova deve “in linea di massima” essere prima riassunta davanti al
giudice di appello), ha affermato che, nel riformare la pronuncia
assolutoria di primo grado, il giudice di appello è tenuto, in forza dell’art.
6 par. 1 C.E.D.U., a disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale

quando condanni l’imputato solo sulla base di un diverso apprezzamento
di attendibilità di una prova orale che risulti decisiva (Cass., Sez. 2, n.
45971 del 15/10/2013 Rv. 257502; Sez. 5, n. 47106 del 25/09/2013 Rv.
257585); mentre non è tenuto a rinnovare l’istruzione dibattimentale
quando valuti diversamente prove documentali (ossia prove non
dichiarative) (così, Cass., Sez. 2, n. 29452 del 17/05/2013 Rv. 256467,
in tema di conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione) o quando
prenda in considerazione prove non considerate o erroneamente ritenute
inutilizzabili dal primo giudice o faccia ricorso alle prove testimoniali solo
ai fini di un rafforzato riscontro a dati oggettivi (Cass., Sez. 2, n. 32368
del 17/07/2013 Rv. 255984).
Alcune sezioni di questa Corte hanno poi statuito che il dovere del
giudice di appello di rinnovare l’istruzione dibattimentale – quando
intende operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova
orale, ritenuta in primo grado non attendibile, e pervenire così a
riformare “in peius” la sentenza assolutoria di primo grado – vale anche
quando tale sentenza sia stata emessa all’esito di giudizio abbreviato
(Sez. 6, n. 8654 del 11/02/2014 Rv. 259107; Sez. 3, n. 5854 del
29/11/2012 Rv. 254850).
Nella specie, tuttavia, tali principi giurisprudenziali, richiamati dalla
difesa, non sono stati violati dai giudici di appello.
Invero, nonostante il generico richiamo alle dichiarazioni assunte nel
corso delle indagini preliminari (p. 46 ultimo capoverso della sentenza
impugnata), l’incidenza di tali dichiarazioni sul complesso motivazionale è
nella sostanza inesistente, avendo la Corte territoriale fondato
essenzialmente le sue conclusioni sul contenuto delle conversazioni

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e a sentire nuovamente il testimone nel contraddittorio delle parti,

intercettate – sulle quali si è soffermata lungamente (da p. 47 a p. 50
della sentenza) – trascurate o sottovalutate del primo giudice.
I brevi passaggi delle dichiarazioni del Servedio, richiamati nella
motivazione della sentenza impugnata, non sono contestati dalla difesa
circa il loro contenuto, né in ordine al giudizio di attendibilità formulato
dai giudici (che non muta tra il primo e il secondo grado); ciò che è

del contenuto delle conversazioni intercettate. In altri termini, il
significato delle dichiarazioni del Servedio viene colto dalla Corte
territoriale alla luce delle risultanze delle conversazioni intercettate; ma
sono tali conversazioni che, per il loro peso preponderante nell’economia
del complesso motivazionale, costituiscono il vero e unico fondamento
della reformatio in peius.
Le conversazioni intercettate, essendo oggetto di registrazione, sono
prove documentali e, come tali, non sono soggette al principio della
rinnovazione in appello, non potendo essere replicate dinanzi al giudice
del gravame. Esse possono essere liberamente rivalutate, diversamente
apprezzate e interpretate dal giudice di appello; e la loro rivalutazione o
nuova interpretazione non è sindacabile in sede di legittimità , quando come nel caso di specie – la motivazione è esente da vizi logici e giuridici.

6. Il difensore di Portoghese Santa (assolta in primo grado, ma
condannata in appello per il reato di riciclaggio di cui al capo K della
rubrica), propone due motivi di ricorso:
6.1. Con il primo motivo, deduce la violazione dell’art. 592 comma 3
cod. proc. pen., per non avere la Corte di Appello limitato al giudizio di
appello la condanna dell’imputata (che era stato assolta in primo grado)
alla rifusione delle spese del procedimento alla parte civile;
6.2. Con il secondo motivo, deduce la mancanza, contraddittorietà e
manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata con
riferimento alla ritenuta responsabilità dell’imputata. Deduce che i giudici
di appello avrebbero mal interpretato il contenuto delle conversazioni
intercettate che vedono come interlocutori l’imputata e Fortunato
Leonardo; non avrebbero inoltre considerato le ragioni poste dal primo

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contestata è l’interpretazione che ne ha dato la Corte territoriale alla luce

giudice a fondamento della pronuncia di assoluzione, con riferimento al
fatto che la Portoghese non ha mai incassato assegni provenienti
(neppure per girata) dalle persone offese, ma si è limitata a monetizzare
l’importo degli assegni provenienti dal conto corrente del suo ex
compagno Fortunato Leonardo; con ciò mancherebbe alcuna condotta
della Portoghese atta ad ostacolare la identificazione della provenienza

Il primo motivo è manifestamente infondato, per le ragioni espresse
supra par. 4, cui si rinvia.

Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, perché sottopone alla
Corte profili relativi al merito della valutazione delle prove, che sono
insindacabili in sede di legittimità, quando la motivazione della sentenza
risulti esente da qui vizi logici richiamati dall’art. 606 lett e) cod. proc.
pen., che circoscrivono l’ambito in cui è consentito il sindacato di
legittimità sulla motivazione in facto.
Nella specie, la Corte territoriale ha posto in luce il sistematico
trasferimento alla Portoghese delle somme incassate dal Fortunato
mediante la pratica usuraria; e ha sottolineato come tale trasferimento
costituisca una, neanche tanto larvata, operazione di sistematico
riciclaggio, dal momento che tali operazioni sistematiche non hanno
avuto una giustificazione plausibile e anzi – nei colloqui intercettati – non
sono mai state concordate in modo esplicito tra i due, ma sono state solo
accennate, a riprova di pregressi e consolidati accordi illeciti tra le parti.
I giudici di merito hanno esposto in modo ordinato e coerente le
ragioni che giustificano la loro decisione, senza incorrere in manifesta
illogicità della motivazione, sicché la loro decisione risulta non sindacabile
in sede di legittimità.
Corretta è la sussunzione dei fatti accertati nella fattispecie criminosa
del riciclaggio, coerente coi principi affermati da questa Corte secondo cui
il delitto di riciclaggio è a forma libera e potenzialmente a consumazione
prolungata, attuabile anche con modalità frammentarie e progressive
(Sez. 2, n. 546 del 07/01/2011 Rv. 249446) e può essere integrato
anche con la condotta di monetizzazione di assegni di provenienza illecita
(Sez. 6, n. 36759 del 20/06/2012 Rv. 253467).

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illecita delle somme.

7. Il difensore di Rubini Giuseppe (condannato in primo grado per i
reati di usura di cui ai capi M e O, nonché per il reato di estorsione di cui
al capo N, con sentenza del G.U.P. confermata in appello), propone due
motivi di ricorso.
7.1. Con il primo motivo, deduce la violazione ed erronea

contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata con riferimento alla ritenuta responsabilità dell’imputato in
ordine al delitto di estorsione. Deduce che la Corte di Appello non
avrebbe motivato in ordine al motivo di appello col quale la difesa aveva
contestato la sussistenza degli estremi del delitto di estorsione e
comunque, in subordine, aveva chiesto la derubricazione della
contestazione in tentativo di estorsione; secondo il ricorrente, dopo la
telefonata del 5.3.2008 nell’ambito della quale sarebbe stata posta in
essere la minaccia, il Robles non avrebbe versato alcuna somma in favore
del Rubini;
7.2. Con il secondo motivo di ricorso, deduce la violazione ed erronea
applicazione degli artt. 12 sexies legge n. 356/1992 e 125 cod. proc.
pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla disposta
confisca dei beni dell’imputato. Deduce, in proposito, che la Corte di
Appello avrebbe errato nel valutare il contenuto della perizia contabile di
parte prodotta dalla difesa del Rubini, dalla quale – contrariamente a
quanto ritenuto dai giudici di merito – risulterebbe che i beni oggetto
della confisca avrebbero origine del tutto lecita e sarebbero ben
giustificati dai redditi familiari.
Il primo motivo è inammissibile, per assoluta genericità. Il ricorrente
non specifica, infatti, quali sarebbero le deduzioni difensive rimaste senza
risposta, né indica quale sarebbe l’ultimo degli assegni emessi dal Robles
in favore del Rubini.
In ogni caso, la richiesta di derubricazione del delitto contestato al
capo N) in tentativo di estorsione risulta manifestamente infondata, in
quanto dalla sentenza di primo grado (p. 131) risulta che, dopo la

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applicazione degli artt. 629 e 56 cod. pen., nonché la mancanza,

conversazione del 5.3.2008 nella quale il Rubini minacciò il Robles di
morte se non avesse pagato, il Robles consegnò all’imputato diversi
assegni bancari, nelle date del 6 e del 10 marzo 2008.
Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Va premesso che, al fine di disporre la confisca conseguente a
condanna per uno dei reati indicati nell’art. 12-sexies, commi 1 e 2, D.L.

1992 n. 356 (modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa) allorché sia provata
l’esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato o i
proventi della sua attività economica e il valore economico dei beni da
confiscare e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di
essi, è necessario, da un lato, che, ai fini della “sproporzione”, i termini di
raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei
valori economici in gioco, siano fissati nel reddito dichiarato o nelle
attività economiche non al momento della misura rispetto a tutti i beni
presenti, ma nel momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni
di volta in volta acquisiti, e, dall’altro, che la “giustificazione” credibile
consista nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in
quella negativa della loro non provenienza dal reato per cui è stata inflitta
condanna (Cass., Sez. Un., n. 920 del 17/12/2003 Rv. 226491,
Montella).
Nella specie, i giudici di merito (sia di primo che di secondo grado)
hanno puntualmente osservato le prescrizioni metodologiche contenute
nel richiamato principio giurisprudenziale, motivando circa le ragioni della
loro decisione in modo congruo e insindacabile in sede di legittimità, sulla
base delle risultanze degli accertamenti effettuati dalla Guardia di
Finanza.
Manifestamente infondata è la doglianza circa la mancata
rinnovazione dell’istruzione con apposita perizia contabile, in quanto nel
giudizio abbreviato non condizionato – come il presente – il giudice
decide allo stato degli atti, essendo a ciò legittimato dal consenso
negoziale manifestato dall’imputato.

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8 giugno 1992 n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto

8. In definitiva, tutti i ricorsi inammissibili.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve
essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della

dedotti.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno della somma di euro mille alla Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione
Penale, addì 8 luglio 2014.

somma di euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi

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