Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 32046 del 10/06/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 32046 Anno 2014
Presidente: DUBOLINO PIETRO
Relatore: PISTORELLI LUCA

SENTENZA

sul ricorso proposto dal difensore di:
Mazzola Giovanni Battista, nato a Orzinuovi, il 28/5/1945;

avverso la sentenza del 26/10/2012 della Corte d’appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Giovanni
D’Angelo, che ha concluso per l’annullamento con rinvio limitatamente al trattamento
sanzionatorio;
udito per la parte civile l’avv. Antonella De Zoldo, che ha concluso chiedendo il rigetto
del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. Anna Stefanini, che ha concluso chiedendo l’accoglimento
del ricorso.
RITENUTO IN FATTO

Data Udienza: 10/06/2014

1.La Corte d’appello di Brescia confermava la condanna di Mazzola Giovanni Battista
per i reati di falso materiale in atto pubblico e di tentato falso ideologico per induzione
in atto pubblico, mentre, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, assolveva
l’imputato dal concorrente reato di contraffazione di sigillo, provvedendo
conseguentemente a rideterminare il trattamento sanzionatorio.
La vicenda riguardava la contraffazione da parte del Mazzola, titolare di una impresa di
costruzioni, di un certificato di idoneità tecnica mediante l’apposizione in calce al

certificato si riferiva, e del, a sua volta contraffatto, timbro professionale di
quest’ultimo, nonché il tentativo, realizzato mediante l’allegazione del suddetto
certificato, di trarre in errore la società incaricata di rilasciare l’attestazione di
qualificazione SOA circa il possesso dei requisiti tecnici e finanziari a tal fine richiesti
dalla legge, cercando così di indurla a rilasciarne una attestazione ideologicamente
falsa.
2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato a mezzo del proprio difensore articolando
dodici motivi.
2.1 Con il primo motivo deduce vizi della motivazione in ordine all’affermazione della
responsabilità dell’imputato, evidenziando come la Corte distrettuale avrebbe
trascurato di valutare le censure mosse con il gravame di merito in ordine
all’attendibilità e coerenza logica delle dichiarazioni rese dall’arch. Fasani, anche alla
luce della documentazione versata nel dibattimento di primo grado dalla difesa, nonché
alle modalità del rinvenimento del timbro contraffatto e alle risultanze degli
accertamenti grafologici sulla firma disconosciuta dallo stesso Fasani. Non di meno i
giudici dell’appello, nel valutare la testimonianza di Tambone Michele – il titolare della
ditta cui venne commissionata la fabbricazione del menzionato timbro – avrebbe
trascurato di considerare come la sua descrizione fisica del committente risultasse in
contrasto con quanto dichiarato nel corso delle indagini preliminari, quando invece
aveva dichiarato di non essere in grado di fornire alcuna descrizione. In ogni caso la
sentenza non avrebbe spiegato come sia stato possibile attribuire valore probatorio al
riconoscimento fotografico effettuato da quest’ultimo, atteso che il teste ha identificato
nelle foto esibitegli l’imputato con una “attendibilità del 10%”. Ancora la Corte
territoriale avrebbe ignorato le dichiarazioni dei testi Romelli e Mazzola Giulio in ordine
al possesso da parte dell’imputato del fac-simile cartaceo ed alla copia informatica del
certificato e i rilievi difensivi sul sostanziale difetto di un movente che giustificasse la
decisione di falsificarlo.
2.2 I motivi dal secondo al settimo denunciano ulteriori vizi della motivazione,
censurando:

medesimo della falsa firma dell’arch. Fasani, direttore dei lavori dell’opera cui il

a) la tenuta logica delle argomentazioni con cui la sentenza ha ritenuto di poter
escludere che autore della firma asseritamente apocrifa potesse essere lo stesso
Fasani;
b) l’irrilevanza della discrasia tra la data in cui sarebbe stato consegnato il certificato
all’imputato e quella in cui il Tambone ha affermato essere stato confezionato il timbro,
atteso che la teste Romelli – le cui dichiarazioni sarebbero dunque state nuovamente
ignorate dalla Corte distrettuale – avrebbe comunque precisato come il certificato in

dell’impresa del Mazzola nei primi quindici giorni di giugno e, dunque, in ogni caso
prima della data di fabbricazione del timbro;
c) la ritenuta indispensabilità per l’imputato del certificato asseritamente falsificato,
atteso che il Mazzola avrebbe poi ottenuto l’attestato SOA producendo altri certificati
relativi ad altre opere eseguite in precedenza e rilasciati nel settembre del 2007
perché la necessità di ottenerli si era manifestata solo a seguito del disconoscimento
della firma da parte del Fasani su quello originariamente allegato alla richiesta di
rinnovo della suddetta attestazione;
d) l’omessa motivazione sulle conclusioni del consulente di parte in ordine non solo
all’attribuzione della firma ritenuta apocrifa al Fasani, ma addirittura alla sua
qualificazione come firma dissimulata.
2.3 Con i motivi rubricati dall’ottavo all’undicesimo viene invece lamentata l’errata
applicazione della legge penale e il correlato difetto della motivazione. In particolare il
ricorrente contesta la qualificazione giuridica attribuita ad entrambi i fatti per cui è
intervenuta la condanna dell’imputato, osservando innanzi tutto che quello contestato
al capo A) dovrebbe essere ricondotto allo schema del falso in certificazione
amministrativa commesso dal privato tracciato dagli artt. 477 e 482 c.p., atteso che
quello oggetto di falsificazione non sarebbe atto interno alla procedura di rilascio
dell’attestato SOA, come erroneamente ritenuto dai giudici di merito. Quanto invece a
quello di cui al capo B), il ricorrente evidenzia come sia non possa configurarsi il
tentativo di falso ideologico per induzione in atto pubblico da parte del privato, atteso
che il contestato art. 482 c.p. non estende la punibilità di quest’ultimo per i fatti
previsti anche dall’art. 479 c.p. Più correttamente, dunque, la condotta dell’imputato
doveva essere ritenuta integrare il meno grave reato di cui all’art. 483 c.p.
2.4 Con il dodicesimo ed ultimo motivo, infine, il ricorrente lamenta che la Corte
distrettuale, una volta assolto l’imputato dalla contestazione ex art. 468 c.p, ed aver
conseguentemente ritenuto più grave il reato di falso materiale in atto pubblico di cui al
capo A), avrebbe dovuto rideterminare la pena applicata per tale reato tenendo conto
del combinato disposto degli artt. 476 e 482 c.p., risultando dunque erroneo il calcolo
di anni uno di reclusione effettuato in sentenza pur con la dichiarata intenzione di
irrogare il minimo edittale previsto per tale reato.

contestazione venne consegnato alla società che doveva attestare la qualificazione

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.1 primi sette motivi di ricorso sono infondati ovvero inammissibili.
1.1 In larga misura le doglianze si risolvono, infatti, nel tentativo del ricorrente di
prospettare una diversa ricostruzione del fatto attraverso una lettura soggettivamente
orientata del materiale probatorio alternativa a quella fatta motivatamente propria dal
giudice di merito, cercando così di sollecitare quello di legittimità ad una rivisitazione
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o all’autonoma adozione di

sono precluse ai sensi della lett. e) dell’art. 606 c.p.p..
1.2 Generiche e viziate da un approccio atomistico al compendio probatorio che non
tiene conto delle convergenze rilevate dalla Corte distrettuale tra i diversi elementi
indiziari risultano poi le censure tese a svalutare il significato probatorio di alcune
circostanze invece apprezzate dalla sentenza ai fini dell’affermazione di responsabilità
del Mazzola. In tal senso, ad esempio, l’esaltazione del fatto che il timbro oggetto di
falsificazione fosse detenuto negli uffici di cantiere e che questi fossero accessibili a
molte persone ovvero le giustificazioni prospettate per il ritiro dell’originale del CEL e
per il possesso del suo fac-simile cartaceo e della sua copia informatica tendono ad
avvalorare la tesi dell’assoluta neutralità di alcuni degli elementi di prova assunti a
riferimento della condanna senza però confrontarsi con l’effettivo contenuto del
ragionamento probatorio seguito dai giudici di merito e del contesto indiziario in
riferimento al quale ad ognuna delle evidenze prese in considerazione è stato attribuito
significato.
1.3 Ancor più generiche sono poi le lamentele del ricorrente ad oggetto presunti
travisamenti o l’omessa valutazione di alcune prove soprattutto di natura dichiarativa,
atteso che non solo il ricorso non ne ha saputo evidenziare la decisività, ma
soprattutto, le stesse sono state solo sommariamente indicate, senza provvedere
all’integrale produzione (nel corpo del ricorso o in allegato) degli atti che ne
costituirebbero la fonte, contravvenendo così ai consolidati principi elaborati da questa
Corte in ordine alle condizioni per la valida deducibilità del vizio in questione. In
definitiva il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o
manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione o il traviamento di
circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre
l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella
motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od
adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece: a) identificare l’atto
processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio
che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella
sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio

nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi, che invece gli

invocato, nonchè della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si
fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la
tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale
“incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato
(Sez. 6, n. 45036 del 2 dicembre 2010, Damiano, Rv. 249035). E quanto alle condizioni
per cui può ritenersi assolto l’onere di indicazione posto dalla lett. e) dell’art. 606
c.p.p., si è altresì precisato che, qualora la prova omessa o travisata abbia natura

limitandosi ad estrapolarne alcuni brani, giacchè così facendo viene impedito al giudice
di legittimità di apprezzare compiutamente il significato probatorio delle dichiarazioni e,
quindi, di valutare l’effettiva portata del vizio dedotto (Sez. 4 n. 37982 del 26 giugno
2008, Buzi, rv 241023; Sez. F., n. 32362 del 19 agosto 2010, Scuto ed altri, Rv.
248141).
1.4 Quanto in particolare alla lamentata omessa valutazione delle conclusioni del
consulente grafologico di parte la doglianza si rivela manifestamente infondata e
generica. Infatti la Corte distrettuale ha reso adeguata motivazione sulle ragioni per cui
ha ritenuto tali conclusioni non pienamente inattendibili, argomentando dal progressivo
aggiustamento della propria valutazione operata dal consulente. La tenuta
argomentativa di tale ragionamento è fuori discussione, mentre il ricorrente non lo ha
sostanzialmente confutato, limitandosi a ribadire – in maniera che a questo punto
risulta solo apodittica – il presunto valore decisivo del giudizio espresso dal menzionato
consulente.
1.5 Non di meno il ricorso ha omesso di confrontarsi compiutamente con uno degli
elementi cui la Corte distrettuale ha conferito valore decisivo nell’economia della s
decisione e cioè la testimonianza del Tambone e la sua capacità di smentire le
dichiarazioni rese e i documenti predisposti dall’imputato per comprovare di aver
ricevuto il 13 giugno 2007 il CEL dalle mani del Fasani. Né il ricorrente ha contestato anche solo indirettamente o implicitamente – che il timbro prodotto dal Tambone sia
proprio, come invece affermato in sentenza, quello utilizzato per confezionare il falso
CEL.
1.45.1 Sul punto il ricorrente si è infatti limitato a lamentare l’illogicità
dell’identificazione del Mazzola con il committente del timbro in ragione di una
ricognizione fotografica del medesimo effettuata con percentuali di certezza del solo
10% e senza tenere conto della presunta contraddittorietà delle dichiarazioni rese dal
teste nelle indagini preliminari e nel dibattimento ovvero l’irrilevanza di tale
testimonianza alla luce di quella della Romelli.
1.9 Censure queste che non risultano effettivamente correlate al contenuto del
ragionamento seguito dai giudici territoriali e che comunque risultano manifestamente
infondate o per altro verso inammissibili. Quanto al primo profilo eccepito, infatti, deve

dichiarativa, il ricorrente ha l’onere di riportarne integralmente il contenuto, non

evidenziarsi che la sentenza non ha in alcun modo attribuito alla menzionata
ricognizione fotografica il valore evocato dal ricorrente, ma, proprio prendendo atto
della sua incertezza, si è invece concentrata sul valore indiziario della compatibilità
della descrizione offerta dal Tambone del committente del timbro con le fattezze fisiche
dell’imputato, peraltro senza spingersi a dedurre nemmeno da questo elemento la
prova esclusiva dell’identità tra i due soggetti, tratta invece dalla convergenza dello
stesso con le altre evidenze acquisite e in grado di dimostrare – secondo un

contestare se non in maniera assertiva – come solo il Mazzola potesse effettivamente
aver commissionato l’opera. Con riguardo invece alla contraddittorietà delle
dichiarazioni del teste, è appena il caso di evidenziare come il ricorrente nemmeno ha
precisato se quelle predibattimentali siano state oggetto di contestazione nel corso
dell’esame dibattimentale o siano state acquisite al patrimonio probatorio del processo,
per cui lamentare difetti di motivazione da parte dei giudici dell’appello sul punto
significa formulare una censura priva di qualsiasi specificità.
1.3 Quanto poi alla svalutazione operata dal ricorrente del valore probatorio della
data in cui venne effettivamente ordinato il timbro, le presunte dichiarazioni della teste
Romelli sono solo sommariamente evocate, talchè, come già detto, la lamentata
mancata valutazione da parte della Corte distrettuale delle medesime si rivela del tutto
generica. Non di meno deve ritenersi che quest’ultima, a fronte di un dato certo in
ordine alla data di confezionamento del timbro sicuramente utilizzato per fabbricarla
falsa certificazione, abbia implicitamente e del tutto ragionevolmente ritenuto le
dichiarazioni della Romelli inattendibili, tanto più che dallo stesso ricorso emerge come
la teste avrebbe comunque fornito indicazioni solo sommarie sul momento in cui
sarebbe effettivamente avvenuta la consegna del documento.
144 In definitiva la mancata confutazione, se non nella inefficace maniera illustrata, di
un elemento che ha costituito il fulcro del ragionamento probatorio svolto dai giudici
d’appello finisce per riverberarsi sulla tenuta dell’intero coacervo di censure svolte nei
primi sette motivi del ricorso, che deve ritenersi in tal senso sostanzialmente generico
proprio per il difetto di correlazione con l’effettivo contenuto della motivazione della
sentenza impugnata.
14 Con riguardo infine alle obiezioni del ricorrente sulla ritenuta indispensabilità del
CEL oggetto di contestazione, si tratta nuovamente di doglianze manifestamente
infondate, atteso che la sentenza ha chiaramente evidenziato come tale giudizio è stato
espresso in senso relativo e non assoluto. I giudici bresciani non hanno infatti mai
affermato che senza il rilascio da parte del Fasani del CEL il Mazzola non avrebbe
potuto in nessun caso ottenere il rinnovo dell’autorizzazione SOA, ma solo che non
avrebbe potuto conseguirlo nei tempi e alle condizioni sperate nel momento in cui egli
ha presentato la relativa domanda nel giugno del 2007. Valutazione che è lo stesso

ragionamento la cui logicità, come detto, il ricorrente ha sostanzialmente omesso di

ricorso ad avvalorare indirettamente nel momento in cui evidenzia come l’imputato
dovette procurarsi altri CEL relativi ad opere eseguite in precedenza, riuscendo a
produrli solo nel successivo settembre. Non di meno deve rilevarsi che il ricorrente non
ha saputo evidenziare la decisività dell’eventuale errore attribuibile alla Corte
distrettuale sul punto, atteso che la questione attiene all’eventuale accertamento del
movente della falsificazione, del tutto irrilevante a fronte della effettiva dimostrazione

2. Colgono invece nel segno le censure mosse dal ricorrente alla qualificazione giuridica
attribuita al fatto di cui al capo A) dalla Corte territoriale, sebbene per ragioni in larga
parte diverse da quelle prospettate nel ricorso.
2.1 Deve infatti escludersi che il CEL possa essere ritenuto atto pubblico e, soprattutto,
che il direttore dei lavori dell’opera cui si riferisce sia un pubblico ufficiale nel momento
in cui lo sottoscrive.
2.2 Innanzi tutto va ricordato che la nozione di atto pubblico comprende indubbiamente
un’ampia estensione tipologica di scritti, includendovi anche gli atti non previsti
tassativamente dalla legge come tali. Essenziali rimangono però i presupposti della
provenienza dell’atto da un pubblico ufficiale, della formazione dell’atto per uno scopo
inerente alle funzioni svolte dal predetto e del contributo fornito dall’atto ad un
procedimento della pubblica amministrazione

(ex multis Sez. 5, n. 43737 del 27

settembre 2012, Dalla Zeta, Rv. 254520).
2.3 Ciò premesso deve osservarsi che i certificati di esecuzione dei lavori (CEL)
rilasciati dai committenti privati e controfirmati dal direttore dei lavori cui si riferiscono
sono espressamente configurati dal regolamento di esecuzione del d. Igs. 163/2006 (e
ancor prima da quello della I. n. 109/1994), la cui allegazione alla richiesta di
attestazione per la qualificazione SOA ha il fine di documentare il possesso da parte del
richiedente di alcuni dei requisiti tecnici previsti dallo stesso decreto per il rilascio della
suddetta attestazione.
2.4 II fatto che tale documento sia configurato da norme di diritto pubblico e che il suo
rilascio si inserisca in una procedura dalle stesse disciplinata non sono peraltro ragioni
sufficienti per conferirgli dignità di atto pubblico e, come detto, per attribuire al
/›..~

professionista che lo sottoscrive la qualifica di pubblico ufficiale. Ed infatti Ettuvirdélle
norme menzionate rivela una volontà in tal senso da parte del legislatore. Anzi, nel
“privatizzare” la procedura di qualificazione degli appaltatori di lavori pubblici lo stesso
legislatore ha specificamente indicato quali attività della sequenza procedimentale
possano considerarsi espressione dell’esercizio di funzioni di natura pubblicistica, com’è
nel caso di quella di attestazione svolta dalle SOA, nel quale l’art. 40 comma 3 del
citato d. Igs. n. 163/2006 giunge addirittura a precisare che, nell’ipotesi di rilascio di
false attestazioni, trovino applicazione gli artt. 476 e 479 c.p.

che ad effettuarla fu proprio l’imputato.

2.5 Nella sostanza il CEL è atto rilasciato dal privato che documenta l’entità e la
corretta esecuzione di lavori eseguiti nel suo esclusivo interesse, assumendo la
funzione di una “referenza” sulla professionalità dell’appaltatore, termine con il quale il
certificato è peraltro implicitamente evocato già nel comma 9 del citato art. 40 del
Codice degli appalti. Va poi osservato come sia il d.P.R. 34/2000 (vigente all’epoca dei
fatti), sia il d.P.R. n. 207/2010 che ne ha successivamente assorbito i contenuti in
alcuna delle loro disposizioni attribuiscano al CEL valenza fidefaciente, attribuendo

presentata dal richiedente l’attestazione di qualificazione. Più in generale né il
committente che rilascia il CEL, né il direttore dei lavori che attesta la veridicità dei dati
in esso contenuti, svolgono una funzione pubblica preordinata alla formazione della
volontà della Pubblica Amministrazione, ma si limitano a rilasciare all’esecutore dei
lavori una mera dichiarazione che si inserisce nella sequenza procedimentale solo a
seguito di un atto di volontà di quest’ultimo. Del resto l’eventuale rifiuto – ancorchè
eventualmente ingiustificato – di corrispondere alla richieste dell’appaltatore non solo
non trova nella normativa di riferimento alcuna sanzione, ma nemmeno forme di
surrogazione da parte dell’autorità al privato.
2.6 In realtà il CEL è atto rilasciato dal committente e certificato dal direttore dei lavori,
il quale esercita un servizio di pubblica necessità nel momento in cui attesta la
regolarità dei lavori eseguiti dall’appaltatore. L’eventuale falsità di tale attestazione
assume dunque diretta rilevanza penale esclusivamente nei limiti di cui all’art. 481 c.p.
e cioè solo nel caso del falso ideologico. Fattispecie a cui non può essere ricondotta la
falsità materiale contestata nel capo A) e che comunque non potrebbe essere ascritta al
privato non esercente il suddetto servizio di pubblica necessità non essendo il citato
art. 481 richiamato dal successivo art. 482 c.p.
2.7 La sentenza deve dunque essere annullata senza rinvio limitatamente alla
condanna dell’imputato per il reato di cui al capo A), perché il fatto non sussiste.

3. Nuovamente infondati sono invece il decimo ed undicesimo motivo.
3.1 II fatto imputato nel capo B) è quello di aver posto in essere atti idonei ed
inequivocabilmente diretti ad ingannare il pubblico ufficiale addetto al rilascio
dell’attestazione SOA circa il possesso da parte della ICM s.r.l. (la società di cui il
Mazzola era amministratore) dei requisiti richiesti dalla legge per ottenere la
medesima, inducendolo così ad adottare l’atto medesimo attestando implicitamente
circostanze non corrispondenti al vero.
3.2 La condotta contestata (nella forma del tentativo) è dunque quella del falso
ideologico commesso per induzione dal pubblico ufficiale in atto pubblico, punito dal
combinato disposto dagli artt. 48 e 479 c.p. e pacificamente configurabile anche
quando l’autore “mediato” sia un privato, non rilevando in proposito quanto stabilito

invece alle SOA ampi poteri/doveri di verifica sulla attendibilità della documentazione

dall’art. 482 c.p., il cui diversa funzione è quella di estendere la punibilità – mediante la
previsione di autonomi titoli di reato – di solo alcune fattispecie di falso in atto pubblico
qualora la condotta tipica venga posta in essere dal privato anziché dal pubblico
ufficiale.
3.3 Nel caso di specie, dunque, oggetto di contestazione al Mazzola non è di aver
confezionato un atto pubblico ideologicamente falso – condotta che effettivamente non
è tipizzata da alcuna norma incriminatrice se si eccettua l’ipotesi disciplinata dall’art.

contenuto dell’atto pubblico mediante una propria attestazione di un fatto -, ma di aver
indotto il pubblico ufficiale a farlo. Si ribadisce, dunque, che la fattispecie è quella
tipizzata dall’art. 479 c.p. (come del resto espressamente previsto dall’art. 40 comma 3
del d. Igs. n. 163/2006), del quale il privato è chiamato a rispondere in qualità di
autore mediato in ragione della tipizzazione della condotta di induzione da parte
dell’art. 48 dello stesso codice, la quale estende la punibilità per un reato proprio del
pubblico ufficiale anche al privato, operando in maniera analoga all’art. 110 c.p. per il
caso del concorso dell’extraneus.
3.4 Non di meno alcun dubbio può sussistere sulla configurabilità del tentativo di falso
ideologico per induzione, come chiarito dalla costante giurisprudenza di questa Corte in
tal senso (ex multis Sez. 5, n. 38226 del 24 giugno 2008, Yanez, Rv. 241313).
3.5 E’ poi vero, come prospettato dal ricorrente, che nel caso di specie, nel capo
d’imputazione, è stato formalmente indicato, ai fini della qualificazione giuridica del
fatto, anche l’art. 482 c.p., ma tale indicazione normativa non trova riscontro nella
successiva descrizione della condotta imputata, talchè deve ritenersi frutto di un mero
refuso o comunque di un errore di interpretazione della legge penale inidoneo a viziare
l’imputazione medesima, atteso che l’oggetto della contestazione è chiaramente
definito e non v’è stata, conseguentemente, alcuna lesione del diritto di difesa.
3.6 Correttamente dunque la Corte distrettuale ha ritenuto che l’imputato abbia
commesso il reato in questione e non già quello di cui all’art. 483 c.p., non rilevando il
dedotto difetto di motivazione della sentenza sul punto atteso che il vizio di
motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni
di fatto e non anche di diritto, giacché ove queste ultime, anche se in maniera
immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque
esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza (Sez. 2, n. 19696
del 20 maggio 2010, Maugeri e altri, Rv. 247123; Sez. Un., n. 155/12 del 29 settembre
2011, Rossi e altri, in motivazione).
3.7 Né influisce sulla rilevanza e sulla qualificazione giuridica del fatto la circostanza
che non sia stato invece ritenuto configurabile il reato contestato al capo A), atteso che
una volta correttamente riconosciuta dalla Corte distrettuale la materiale falsificazione
del CEL, la sua successiva utilizzazione ai fini del conseguimento dell’attestazione SOA

483 c.p. nel caso in cui al privato sia demandato il compito o la facoltà di determinare il

è certamente condotta fraudolenta idonea a trarre in inganno i funzionari della società
di qualificazione in ordine al possesso da parte dell’impresa dell’imputato dei requisiti
per ottenerne il rilascio.

4. Il dodicesimo motivo rimane assorbito, giacchè, a seguito dell’annullamento senza
rinvio della sentenza in riferimento al reato di cui al capo A), la stessa deve essere
comunque annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia per la

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’addebito di cui al capo A)
perché il fatto non sussiste e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Brescia
per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 10/6/2014

conseguente rimodulazione del trattamento sanzionatorio.

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