Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3185 del 18/11/2015


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 3185 Anno 2016
Presidente: BONITO FRANCESCO MARIA SILVIO
Relatore: BONI MONICA

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
MESSAOUDI ABDELGHANI N. IL 10/06/1986
avverso l’ordinanza n. 6923/2014 TRIB. SORVEGLIANZA di
TORINO, del 17/02/2015
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MONICA BONI;

Data Udienza: 18/11/2015

Ritenuto in fatto

1.Con ordinanza resa il 17 febbraio 2015 il Tribunale di sorveglianza di Torino
rigettava l’opposizione, proposta dal detenuto Abdelghani Messaoudi, avverso
l’ordinanza, emessa dal Magistrato di sorveglianza di Cuneo del 14 ottobre 2014 di
espulsione dal territorio nazionale, rilevando l’attuale pericolosità sociale del
condannato, l’assenza di un valido titolo abilitativo della permanenza in Italia e di

2. Avverso l’indicato provvedimento, ha proposto ricorso per cassazione
l’interessato personalmente, chiedendone l’annullamento in quanto il Tribunale di
sorveglianza non aveva tenuto conto che egli era convivente col padre, stabilmente
residente in Italia dal 1989, sicchè la disposta espulsione violava i diritti riconosciuti
dalla Costituzione.

Considerato in diritto

L’impugnazione è inammissibile perché fondata su motivi manifestamente
infondati.
1. Il ricorrente si è limitato a contestare la decisione con argomentazioni
generiche e prive di consistenza, che non tengono conto del percorso
argomentativo riscontrabile nell’ordinanza impugnata. In particolare,
l’impugnazione non contraddice nemmeno a livello di allegazione, men che meno
sotto il profilo del riscontro documentale, sia il rilievo circa la natura vincolata della
decisione sull’espulsione una volta che ricorrano le condizioni pretese dalla legge,
compresa l’assenza di titolo legittimante la permanenza in Italia, sia quello sulla
insussistenza di situazioni ostative; non smentisce neanche la logicità e la
pertinenza al caso dei rilievi che hanno condotto ad assegnare valore preminente
nel caso specifico all’esigenza di allontanamento del condannato.
1.1 Sul punto il Tribunale ha rilevato che lo stesso era privo di titolo
legittimante la presenza nel territorio nazionale e non era legato da alcun rapporto
di coniugio o di parentela con conviventi cittadini italiani. Ha quindi concluso per
l’assenza di condizioni impedienti l’espulsione, non sussistenti nemmeno sotto il
profilo della salvaguardia dell’unità familiare, posto che l’art. 19 D.Igs. 286/98
considera ostativo soltanto il rapporto di coniugio e di convivenza con parenti entro
il secondo grado aventi la cittadinanza italiana, requisiti non rinvenibili nel caso,
posto che il padre del ricorrente è cittadino straniero.
1.2 Inoltre, avendo esteso l’analisi anche in concreto alla situazione personale
del condannato, ha rilevato che nella valutazione dei contrapposti interessi in gioco
deve assegnarsi prevalenza a quello dello Stato alla tutela della sicurezza pubblica
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ragioni ostative all’espulsione.

in ragione della pericolosità sociale manifestata dal Messaoudi durante la
permanenza illegale nel territorio.
2.3 Si ricorda che, per costante orientamento di legittimità, l’espulsione dello
straniero condannato e detenuto in esecuzione di pena, prevista dall’art. 16,
comma quinto, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, riservata alla competenza del
giudice di sorveglianza ed avente natura amministrativa, costituisce un’atipica
misura alternativa alla detenzione, finalizzata ad evitare il sovraffollamento

dalla legge, che nel caso risultano ricorrenti (Cass. sez. 1, n. 45601 del
14/12/2010, Turtulli, rv. 249175; sez. 1, n. 17255 del 17/03/2008, Lagji, rv.
239623; sez. 1, n. 16446 del 16/03/2010, Noua, rv. 247452). Inoltre, la disciplina
normativa dell’istituto costituisce essa stessa un contemperamento tra esigenze
contrapposte, quella dello Stato all’allontanamento del condannato straniero sulla
base di norme di ordine pubblico e quella di quest’ultimo a trattenersi per
conservare i legami familiari e personali, tanto da aver previsto per esigenze
umanitarie una serie di esenzioni dalla soggezione all’espulsione, che, stante la loro
eccezionalità, non possono essere oggetto di interpretazione analogica, al fine di
scongiurare facili scappatoie che renderebbero il regime di regolamentazione
dell’immigrazione facilmente aggirabile e che costituiscono un ragionevole
bilanciamento tra gli interessi in gioco, frutto di valutazioni discrezionali del
legislatore che non configgono né con i precetti costituzionali né con quelli
comunitari (Cass. sez. 1, n. 24710 del 22/05/2008, Sendane, rv. 240596).
Il regime dell’espulsione del condannato cittadino straniero, come risultante
dal combinato disposto degli artt. 16, comma 5 e 19 D.Igs. nr. 286/98, è stato già
ritenuto coerente con le disposizioni dell’art. 8 CEDU come interpretato alla
giurisprudenza comunitaria, che salvaguarda l’unità familiare, intesa quale vincolo
tra genitori e figli o tra parenti legati da consanguineità e convivenza effettiva e che
impone allo Stato di contenere le limitazioni all’esercizio del diritto alla famiglia ed
ai rapporti familiari, potendole stabilire soltanto in forza di una disposizione di legge
e nei limiti di quanto imposto per assicurare “la sicurezza nazionale, l’ordine
pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione
della salute o della morale o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”. E, come
già richiamato nella sentenza Cass. sez. 3, n. 18527 del 03/02/2010, Nabil, rv.
246974, al riguardo la Corte di Strasburgo, nella sentenza El Boujaidi c. Francia, 26
settembre 1997 (nonché nelle successive 30 giugno 2005, Bove c. Italia; 7 aprile
2009, Cherif ed altri c. Italia; 12 gennaio 2010 Khan A.W c. Regno Unito), ha
precisato che, nel garantire l’ordine pubblico e di controllare i flussi in ingresso ed il
soggiorno degli stranieri, gli Stati hanno diritto di espellere coloro, tra questi, che
delinquono, dovendo rispettare, quando tale misura incida su diritto protetto
2

carcerario, della quale è obbligatoria l’adozione in presenza delle condizioni fissate

dall’art. 8 CEDU, il principio di proporzione con lo scopo che intendono perseguire e
valutare comparativamente i contrapposti interessi, quello collettivo e quello
personale dello straniero.
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile con la conseguente la condanna
della ricorrente al pagamento delle spese processuali e – non ricorrendo ipotesi di
esonero – al versamento di una somma alla cassa delle ammende, che si stima

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1000,00 (mille) alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 18 novembre 2015.

congruo determinare in C 1000,00, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen..

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