Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31818 del 23/04/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 31818 Anno 2014
Presidente: DUBOLINO PIETRO
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GUARCELLO LORENZO N. IL 01/06/1956
FRISENDA CARMELO N. IL 03/09/1956
avverso la sentenza n. 573/2013 CORTE APPELLO di MILANO, del
11/06/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 23/04/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. FERDINANDO LIGNOLA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 23/04/2014

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Carmine Stabile, ha
concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi;
l’avv. Carlo Maria Pisana, dell’Avvocatura Generale dello Stato di Roma, ha
concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi o, in subordine, il
rigetto; si rimette alla Corte per la determinazione delle spese di lite;
il difensore degli imputati, avv. Alberto Arrigoni, ha concluso chiedendo

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza resa in data 11 ottobre 2012, il G.U.P. presso il Tribunale di
Busto Arsizio, all’esito di rito abbreviato, condannava Guarcello Lorenzo,
funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Busto Arsizio, alla pena di giustizia per il
delitto di tentata concussione (capo A), falsità ideologica commessa dal pubblico
ufficiale in atti pubblici (capi B, C ed E), soppressione, distruzione e
occultamento di atti veri (capo D); Frisenda Carmelo, anch’egli funzionario
dell’Agenzia delle Entrate di Busto Arsizio, era condannato per il solo reato di
falso, contestato al capo E.
In particolare il primo imputato, secondo la prospettazione accusatoria, previo
specifico accordo collusivo con il commercialista Di Bratto Mauro, con abuso dei
propri poteri, compiva, per il tramite del Di Bratto, atti idonei diretti in modo non
equivoco ad indurre Bortolami Marco, legale rappresentante della ditta Gespe
s.r.I., a versare C 4.000 per procedere all’archiviazione della pratica di cui al
processo verbale di constatazione, recante la data del 30 marzo 2009, senza
riuscirvi per la denuncia della vittima; redigeva verbali di accesso e di
constatazione attestanti operazioni mai avvenute nei tempi e nei modi indicati,
riguardanti la Gespe s.r.I.; sopprimeva il verbale di accesso e acquisizione
documenti e il verbale di constatazione riguardanti la società Costruzioni
Meccaniche Speciali s.r.I., legalmente rappresentata da Crespi Mauro. Entrambi
gli imputati redigevano falsi verbali di accesso e di constatazione attestanti
operazioni mai avvenute nei tempi e nei modi indicati, riguardanti la Costruzioni
Meccaniche Speciali s.r.l. ed altre 18 società (capo E).
1.1 L’affermazione di responsabilità è fondata, quanto alla tentata concussione,
sulla denuncia di Bortolami Marco e sugli accertamenti diretti operati dalla polizia
giudiziaria, mediante pedinamenti, perquisizioni personali e domiciliari, sfociati
nell’arresto del Guarcello, oltre che sulle dichiarazioni dei protagonisti Di Bratto e
2

l’accoglimento dei ricorsi.

Guarcello; quanto agli altri reati, è fondata sulle verifiche della Guardia di
Finanza, mediante l’escussione dei legali rappresentanti delle società, i quali
hanno escluso con assoluta certezza di aver mai ricevuto presso le rispettive sedi
societarie i funzionari dell’Agenzia delle Entrate.
2. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 16 maggio 2013, confermava
l’affermazione di responsabilità, riqualificando l’ipotesi contestata al capo A di

indebita di cui all’articolo 319 quater cod. pen., nella sua forma tentata.
2. Contro la sentenza propongono ricorso per Cassazione entrambi gli imputati;
Guarcello Lorenzo, con atto sottoscritto dal difensore, avv. Alberto Arrigoni,
deduce sei motivi.
2.1 Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 606, lettera B ed E, cod.
proc. pen., in relazione agli artt. 192, commi 1 e 2, 546 cod. proc. pen., 56 e
319 quater cod. pen.. Il ricorrente contesta la qualificazione giuridica del fatto
contestato al capo A, in termini di tentata induzione indebita. In particolare si
censura la motivazione con la quale è stata esclusa l’esistenza di un accordo
corruttivo tra le parti, per non aver affrontato le tematiche prospettate nei motivi
di d’appello, con i quali si evidenziava che il processo verbale di constatazione a
carico di Gespe s.r.l. si è concluso con un giudizio assolutamente corretto di
parziale non congruità rispetto agli studi di settore (con riferimento all’I.V.A.) e
che nella dinamica descritta nella decisione di primo grado il ruolo principale era
stato svolto dal commercialista Di Bratto, vero istigatore dell’operazione illecita,
il quale era riuscito contestualmente ad evitare problemi al proprio cliente ed a
recuperare un proprio credito professionale nei confronti di costui.
Il ricorrente ribadisce che il processo verbale di constatazione non è un atto
discrezionale, ma rappresenta semplicemente una verifica matematica dei dati
fiscali, esposti dal soggetto verificato rispetto allo studio di settore; inoltre
giudica contraddittorio collegare il giudizio di parziale non congruità – e dunque
un esito non favorevole per il contribuente – ad una richiesta concussiva di
denaro. Altro aspetto di illogicità riguarda il ruolo del commercialista, il quale non
poteva agire contestualmente a favore e contro gli interessi del proprio cliente.
2.2 Con il secondo motivo si deduce, con riferimento ai reati di falsità ideologica
di cui ai capi B, C ed E, vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606, lettera E, cod.
proc. pen., per omessa valutazione della “nota operativa accessi brevi” della
Direzione regionale della Lombardia dell’Agenzia delle entrate, in data 9 giugno
2011, e del documento proveniente dal Settore Audit e sicurezza della Direzione
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tentata concussione mediante induzione nella nuova figura di reato di induzione

regionale della Lombardia dell’Agenzia delle Entrate, pure acquisite dal giudice di
primo grado “anche solo per valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo” e
poi del tutto trascurate nella decisione di primo grado.
La sentenza impugnata, a fronte di specifiche deduzioni, si limita a ritenere le
dedotte circostanze irrilevanti e la questione del tutto inconferente.
Il ricorrente ricorda che in sede di ispezione amministrativa tutti verbali oggetto

disposizioni di legge e/o alle prassi vigenti e che è stata ritenuta estremamente
diffusa la prassi di procedere all’esecuzione di accessi per alcune ore presso la
sede del contribuente e, per il tempo residuo, presso l’ufficio di appartenenza
(salvo poi procedere alla consegna del verbale al contribuente presso l’ufficio o la
sede del medesimo); infine sono state ritenute giustificate tali prassi in
considerazione dell’indisponibilità di personal computer portatili e delle pressioni
da parte del management dell’ufficio, volte ad ottenere crescenti livelli di
prodotto, mai accompagnate da opportuni e necessari indirizzi operativi: la
carenza di atti dispositivi interni volti a disciplinare le attività e a garantire la loro
correttezza è stata ritenuta ascrivibile ai responsabili della struttura e non ai
funzionari. In conclusione doveva escludersi l’elemento soggettivo del reato di
falso, poiché le alterazioni erano dovute a leggerezza, ad incompleta conoscenza
o errata interpretazione di disposizioni normative o ancora a negligente
applicazione della prassi amministrativa; infine non è stato individuato un
movente dell’azione.
2.3 Con il terzo motivo, sempre in relazione agli addebiti sub B, C ed E, si
deduce violazione dell’art. 606, lettera B, cod. proc. pen., in relazione agli artt.
43 e 479 cod. pen., dovendo la condotta dell’imputato essere considerata una
negligente applicazione di una prassi amministrativa, come tale colposa e non
dolosa, secondo quanto affermato in numerose decisioni di questa Corte,
richiamate dal ricorrente.
Inoltre la condotta andava considerata non punibile, secondo i principi del cd.
“falso innocuo”, non essendo stato alterato il senso dell’atto, ma solamente
aspetti marginali.
2.4 Con il quarto motivo si deduce violazione dell’art. 606, lettera E, cod. proc.
pen., in relazione al capo D dell’imputazione (il falso per soppressione), poiché la
Corte non ha considerato l’ipotesi alternativa di una semplice dimenticanza da
parte del Guarcello, che ha sottoscritto la sola copia rilasciata al soggetto
verificato e non anche quella depositata presso l’Agenzia delle Entrate.
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di contestazione nei capi B, C, D ed E sono stati valutati conformi alle

2.5 Con il quinto motivo si deduce violazione dell’art. 606, lettera B, cod. proc.
pen., in relazione all’articolo 62 bis cod. pen., con riferimento al diniego delle
attenuanti generiche, le quali andavano riconosciute in considerazione dello stato
di incensuratezza del ricorrente, per l’immediata confessione e la corretta
condotta processuale.
2.6 Con il sesto motivo si deduce violazione dell’art. 606, lettera C ed E, cod.

telefoni cellulari e delle relative schede SIM, poiché la motivazione non dà conto
del nesso eziologico diretto ed essenziale tra l’utilizzo dei telefoni ed i delitti
contestati.
3. Frisenda Carmelo affida il proprio ricorso, sottoscritto dai difensori, avv.
Alberto Arrigoni e Walter Livio Verrengia, a tre motivi.
3.1 I primi due motivi sono sostanzialmente coincidenti ai motivi secondo e
terzo, proposti dal coimputato Guarcello, sia pure limitatamente al capo E.
3.2 Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 606, lettera B, cod. proc.
pen., in relazione all’articolo 31 cod. pen., con riferimento alla pena accessoria
dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, poiché a giudizio del ricorrente tra
il delitto e l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri vi è solamente un nesso di
occasionalità e non anche quel rapporto di strumentalità o, quantomeno, di
agevolazione, richiesto dalla norma sostanziale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso proposto da Guarcello Lorenzo è fondato.
2. Giova premettere come, in tema di sentenza di appello, non sussista
mancanza o vizio della motivazione allorquando i Giudici di secondo grado, in
conseguenza della completezza e della correttezza dell’indagine svolta in primo
grado, nonché della corrispondente motivazione, seguano le grandi linee del
discorso del primo Giudice. Ed invero, le motivazioni della sentenza di primo
grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato
organico e inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare
della congruità della motivazione (Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi,
Rv. 216906; Sez. 2, n. 5606 del 10/01/2007, Conversa, Rv. 236181).
Viceversa, sussiste vizio di motivazione in grado di appello non soltanto quando
vi sia un difetto grafico della motivazione, ma anche quando le argomentazioni
addotte dal Giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento
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proc. pen., in relazione all’articolo 240 cod. pen., con riferimento alla confisca dei

siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate
dall’interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività; né
può ritenersi precluso al Giudice di legittimità l’esame dei motivi di appello,
purchè specificamente richiamati, al fine di accertare la congruità e la
completezza dell’apparato argomentativo adottato dal Giudice di secondo grado
con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei

o meno delle censure formulate con l’atto di appello, quale necessario
presupposto dell’ammissibilità del ricorso proposto davanti alla stessa Corte
(Sez. 6, n. 35918 del 17/06/2009, Greco, Rv. 244763). 3. Nella specie, di
converso, l’impugnata sentenza non ha dato risposta ad alcune delle doglianze
avanzate dall’imputato con l’atto di appello.
3.1 Con il primo ed articolato motivo l’imputato aveva contestato la
qualificazione giuridica del capo A della rubrica, in termini di tentata induzione
indebita, ai sensi dell’art. 56 e 319 quater cod. pen., evidenziando che l’imputato
non ebbe mai alcun rapporto diretto con la vittima e che il ruolo di dominus
dell’intera vicenda fu ricoperto dal commercialista Di Bratto, istigatore
dell’operazione illecita e beneficiario di € 2000, al punto da anticipare parte del
denaro richiesto all’imputato; la Corte territoriale si limita ad analizzare il
rapporto tra il Di Bratto ed il Bortolami, sottolineando l’insistenza del primo nei
confronti del secondo, finalizzata ad indurlo a versare la somma in favore del
funzionario, così tralasciando completamente la posizione dell’imputato in questo
rapporto trilaterale.
In tal modo viene semplicemente ed acriticamente riproposta la tesi del giudice
di primo grado, secondo il quale il commercialista agiva per conto del funzionario
della Agenzia delle Entrate, tesi fondata esclusivamente sulle dichiarazioni rese
dal Di Bratto in sede di convalida dall’arresto; il profilo riguardante la percezione
di una somma anche da parte del commercialista e l’esclusione di qualsiasi
rapporto diretto tra l’imputato e la persona offesa sono stati invece
completamente ignorati.
4. Analoga sorte merita il quarto motivo di ricorso proposto da Guarcello
Lorenzo, riguardante il capo D dell’imputazione, ovvero il falso per soppressione
del verbale di accesso e acquisizione documenti e del verbale di constatazione
redatto il 16 febbraio 2009, riguardante la società Costruzioni Meccaniche
Speciali S.r.l. e recanti le firme di entrambi gli imputati.
La sentenza impugnata desume l’evidenza dell’occultamento o della soppressione
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compiti attribuiti dalla legge alla Corte di Cassazione la disamina della specificità

dal fatto che, mentre il verbale consegnato all’interessato reca la firma di
entrambi i funzionari, la copia rinvenuta presso l’Agenzia delle Entrate reca
esclusivamente la firma del Frisenda.
Il ricorrente osserva in proposito l’illogicità della deduzione, poiché dal raffronto
tra i due verbali poteva desumersi semplicemente che il Guarcello non avesse
firmato una delle due copie del documento e non anche che l’avesse distrutta.

ragionevole dubbio, introdotto nell’art. 533 cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del
2006, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla
motivazione della sentenza, chiamata ad un controllo sulla persistenza o meno di
una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione necessariamente unitaria
e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo
in ogni caso la sua valutazione sconfinare nell’ambito del giudizio di merito (Sez.
5, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv. 254579). In altri termini, il principio
citato non può valere a far sì che sia la Cassazione a valorizzare e rendere
decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto,
eventualmente emersa nella sede del merito e segnalata dalla difesa, sempre
che però tale eventuale duplicità sia stata il frutto di un’attenta e completa
disamina da parte del giudice dell’appello, il quale abbia operato una scelta,
sorreggendola con una motivazione rispettosa dei canoni della logica e della
esaustività.
4.2 Nel caso di specie, la regola di giudizio non risulta essere stata osservata dal
giudice del merito, poiché la Corte territoriale non prende in alcun modo in
esame l’ipotesi alternativa prospettata dalla difesa, ipotesi che appare
ragionevole, poiché fondata sugli atti del processo. Ne consegue il vizio
motivazionale denunciato.
5. L’accoglimento del primo e del quarto motivo comporta l’annullamento della
sentenza nei confronti di Guarcello Lorenzo, limitatamente ai reati di cui ai capi
A, come riqualificato dal giudice di merito (art. 56, 319 quater c.p.) e D (art. 490
c.p.), con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di
Milano.
5.1 II quinto motivo di ricorso, riguardante il diniego delle attenuanti generiche,
è conseguentemente assorbito.
6. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso del Guarcello, aventi ad oggetto i reati
di falso contestati ai capi B, C ed E, sono infondati.
Il ricorrente ha allegato due documenti amministrativi, la “nota operativa accessi
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4.1 Questa Sezione ha recentemente ribadito che il principio dell’oltre ogni

brevi” della Direzione regionale della Lombardia dell’Agenzia delle entrate, in
data 9 giugno 2011 e la “verifica di conformità della prassi operativa presso
l’ufficio in Busto Arsizio in materia di accessi brevi”,

proveniente dal Settore

Audit e sicurezza della Direzione regionale della Lombardia dell’Agenzia delle
Entrate, del 7 settembre 2010, sottolineandone la rilevanza, già riscontrata dal
G.U.P. allorchè li acquisì all’udienza del 16 febbraio 2012, sia per valutare la

all’ipotesi del falso cd. “innocuo” (terzo motivo).
6.1 Quanto al primo aspetto, deve ritenersi infondata la censura di omessa
motivazione, poiché la decisione impugnata affronta specificamente le questioni
proposte dalla difesa, attraverso il richiamo dei due documenti, ritenendo del
tutto inconferente il riferimento ai problemi di carattere organizzativo (eccessivo
carico di lavoro, carenza di pc portatili, mancanza di direttive da seguire,
adottate e comunicate solo con la nota del 9 giugno 2011): agli imputati non
erano contestate le modalità di effettuazione degli accessi brevi (oggetto invece
dell’ispezione amministrativa conclusasi con il documento del 7 settembre 2010
del Settore Audit), ma la verbalizzazione delle operazioni. In altri termini tutti i
problemi evidenziati potevano giustificare le irregolarità sul piano amministrativo
e disciplinare, ma non certamente le falsificazioni dei verbali, poiché, come già
evidenziato nella decisione di primo grado, se i due imputati avessero agito in
buona fede, non si vede la ragione per la quale non abbiano dato atto, con la
massima trasparenza, ad esempio, che le operazioni erano avvenute presso
l’Agenzia delle Entrate.
6.2 Più in generale va ricordato che, in tema di falsità ideologica in atto pubblico,
ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico,
ossia la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione, mentre non è
richiesto l’animus nocendi nè l’animus decipiendi, con la conseguenza che il
delitto sussiste non solo quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di
nuocere, ma anche quando la sua commissione sia accompagnata dalla
convinzione di non produrre alcun danno (Sez. 5, n. 35548 del 21/05/2013,
Ferraiuolo, Rv. 257040).
Dal contesto narrativo e giustificativo della pronuncia impugnata emerge, in tutta
evidenza, la piena consapevolezza degli imputati del falso consistente
nell’attestazione delle operazioni di accesso, notifica e controllo della
documentazione, mai avvenute nei tempi e nei modi indicati, fatti caduti sotto la
loro diretta percezione; il loro comportamento, secondo quanto già evidenziato e
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sussistenza dell’elemento soggettivo (secondo motivo), sia con riferimento

come motivatamente rilevato dai giudici di appello, non può essere ascritto a
mera leggerezza od equivoco di sorta sulla corretta interpretazione di
disposizioni regolamentari o di prassi del servizio, essendo gli imputati ben
consapevoli, per esperienza di servizio, degli obblighi loro incombenti.
6.3 D ricorrente lamenta anche la mancanza di un movente seriamente
ipotizzabile dell’azione, non potendosi condividere, in mancanza di una

A tal proposito va innanzi tutto precisato che il movente è la causa psichica della
condotta umana e lo stimolo che induce l’individuo ad agire; perciò esso è cosa
distinta dal dolo, che è l’elemento costitutivo del reato e riguarda la sfera della
rappresentazione e volizione dell’evento (Sez. 1, n. 466 dell’11/11/1993 – dep.
19/01/1994, Hasani, Rv. 196106; Sez. 1, n. 31449 del 14/02/2012,
Spaccarotella, Rv. 254143); le cause psichiche dell’agire, poi, non sono
necessariamente razionali, ma al contrario sono aperte alle ispirazioni e impulsi
più vari e misteriosi, insondabili come la complessità dell’animo umano.
La qualificazione dell’elemento soggettivo in termini di dolo generico rende di per
sé irrilevante l’individuazione di un movente; in ogni caso l’individuazione del
possibile vantaggio conseguito dagli imputati per il conseguimento di specifiche
indennità dovute per l’accesso esterno appare logica e corretta, poiché consente
di indicare un interesse specifico degli imputati, di carattere oggettivo e
fenomenicamente rilevabile, che non va confuso con il movente, attinente al foro
interno dell’agente.
7. La doglianza riguardante il falso cd. “innocuo” è manifestamente infondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte è innocuo e quindi non punibile per
inidoneità dell’azione, il falso che “determina un’alterazione irrilevante ai fini
dell’interpretazione dell’atto, non modificandone il senso” (Sez. 5, n. 38720 del
19/06/2008, Rocca, Rv. 241936) o, in altri termini, quando l’infedele
attestazione (nel falso ideologico) o l’alterazione (nel falso materiale) non
esplicano effetti sulla funzione documentale dell’atto stesso di attestazione dei
dati in esso indicati (Sez. 5, n. 35076 del 21/04/2010, Immordino, Rv. 248395).
Dunque la punibilità del falso è esclusa, per inidoneità dell’azione, tutte le volte
in cui l’alterazione appaia del tutto irrilevante ai fini dell’interpretazione dell’atto,
perché non ne modifica il senso oppure si riveli in concreto inidonea a ledere
l’interesse tutelato dalla genuinità del documento, cioè non abbia la capacità di
conseguire uno scopo antigiuridico.
Nel caso in esame non si versa in una ipotesi di falso “innocuo”, poiché, come
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contestazione di truffa, quello di conseguire le apposite indennità.

correttamente sostenuto dalla Corte territoriale, il luogo di formazione dell’atto e
la presenza del secondo accertatore costituiscono elementi non marginali dello
stesso, tanto che l’art. 2699 cod. civ. considera il “luogo” in cui è formato ai fini
della stessa nozione di “atto pubblico”; la lesione del bene protetto dalla norma è
dunque evidente.
Resta privo di valore, anche sotto il profilo oggettivo, il fatto che l’atto falso

vantaggi per i suoi autori, perché ciò che rileva non è lo scopo dell’atto, ma il
contenuto in sé dell’atto.
8. Il sesto motivo del ricorso proposto da Guarcello Lorenzo è inammissibile.
Il ricorrente contesta che i telefoni cellulari sequestrati e poi confiscati servirono
o furono destinati a commettere il reato, come richiesto dall’articolo 240, comma
1, cod. pen., ai fini della confisca facoltativa; inoltre ritiene non provata
l’esistenza di un collegamento eziologico tra la cosa ed il reato, nel senso che la
prima debba apparire come indispensabile per l’esecuzione del secondo.
8.1 Orbene secondo questo Collegio, al fini della ammissione della confisca
facoltativa è necessario un controllo sulla esistenza di una strumentalità in
concreto (e non in astratto) tra il bene ed il reato, in ragione delle specifiche
caratteristiche del primo e delle modalità e circostanza di commissione del
secondo (Sez. 6, n. 3711 del 09/01/2013, Tamborra, Rv. 254573).
In questo contesto, si è condivisibilmente affermato che, in tema di confisca, per
“cose che servirono a commettere il reato”, ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 1,
devono intendersi quelle impiegate nella esplicazione dell’attività punibile, senza
che siano richiesti requisiti di “indispensabilità”, ossia senza che debba sussistere
un rapporto causale diretto e immediato tra la cosa e il reato nel senso che la
prima debba apparire come indispensabile per l’esecuzione del secondo (Sez. 5,
n. 14307 del 07/03/2006, Guadagno, Rv. 234591; Sez. 5, n. 2158 del
04/06/1993, Raia, Rv. 194836).
Ed allora, il nesso di strumentalità tra la cosa ed il reato – bastevole per
legittimare l’adozione del provvedimento applicativo della misura di sicurezza
reale – va ricercato in concreto, considerando quello che è il ruolo rivestito dalla
cosa nella realizzazione dell’illecito, per il quale vi è sentenza di condanna o di
applicazione di pena su richiesta, cioè il modo di commissione dello stesso.
Di tali principi di diritto la Corte di appello di Milano ha fatto corretta
applicazione, richiamando le modalità di commissione dell’attività delittuosa,
come documentato dalla nota del 28 aprile 2009 della Guardia di Finanza
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abbia poi in concreto consentito la percezione di indennità di trasferta o di altri

Compagnia di Legnano.
A fronte di tale affermazione, la mera contestazione del richiamo dell’atto
investigativo come prova del collegamento eziologico appare generica; di qui
l’inammissibilità del motivo.
9. Passando all’esame del ricorso proposto da Frisenda Carmelo, i primi due
motivi, riguardanti il capo E dell’imputazione, sono infondati, per le medesime

ed il terzo motivo di ricorso proposto dal Guarcello, in relazione ai reati di falso in
atto pubblico.
10. Il terzo motivo di ricorso, riguardante l’irrogazione della pena accessoria, è
fondato.
10.1 n Collegio non ha ignorato il precedente di questa Sezione (Sez. 5, n. 1450
del 04/11/2010 – dep. 19/01/2011, Antoci, Rv. 249095; conf. Sez. 2, n. 13435
del 19/04/1989, Poggiani, Rv. 182230; Sez. 2, n. 4243 del 09/11/1982 – dep.
07/05/1983, Porcelli, Rv. 158909) secondo il quale la pena accessoria è
applicabile in caso di condanna per un reato di falso commesso da un pubblico
ufficiale, anche se non sia stata contestata la circostanza aggravante dell’abuso
di pubblica funzione di cui all’art. 61, n. 9, cod. pen., trattandosi di pena
accessoria relativa “ope legis” a tutti i reati commessi in violazione dei doveri
inerenti a una pubblica funzione.
Tale principio, in sé e per sé del tutto condivisibile, non implica, però, che
l’operatività dell’art. 31 cod. pen. debba essere riconosciuta per il solo fatto che,
come si verifica nel caso di specie, il delitto per il quale è stata pronunciata la
condanna faccia parte di quelli propri dei pubblici ufficiali. Se è vero, infatti, che
la commissione, da parte di un pubblico ufficiale, di un qualsiasi reato proprio
rappresenta, in senso lato, una deviazione dall’osservanza dei doveri d’ufficio,
ponendosi in contrasto, prima di tutto, con il disposto di cui all’art. 54, comma
II, della Costituzione (secondo il quale “i cittadini cui sono affidate funzioni
pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”), è altrettanto
vero che il citato art. 31, nel prevedere, in via generale, come presupposto per
l’applicazione della pena accessoria, l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri
inerenti a una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, adotta una
formulazione assolutamente identica a quella dell’aggravante prevista dall’art. 61
n. 9; il che lascia facilmente intendere come il legislatore, non facendo differenza
alcuna tra reati comuni e reati propri del pubblico ufficiale, abbia inteso esigere,
anche per questi ultimi, un

“quid pluris”
11

rispetto alla pura e semplice

ragioni già espresse ai § 6 e 7, perché coincidenti nel contenuto con il secondo

realizzazione della condotta tipica prevista dalla norma incriminatrice, quale
invece si riscontra nella fattispecie in esame.
10.2 Per concludere sul punto, la sentenza va annullata senza rinvio, nei
confronti di Frisenda Carmelo, limitatamente alla pena accessoria
dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, che va eliminata.
11. In definitiva la sentenza impugnata va annullata con rinvio, nei confronti di

giudice di merito (art. 56, 319 quater c.p.) e D (art. 490 c.p.), con rinvio per
nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.
11.1 La decisione va altresì annullata senza rinvio nei confronti di Frisenda
Carmelo, limitatamente alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai
pubblici uffici, che va eliminata.
11.2 I ricorsi dei ricorrenti vanno rigettati nel resto.
11.3 L’accoglimento del ricorso del Frisenda limitato all’aspetto sanzionatorio ed
il rigetto dei motivi riguardanti la responsabilità comportano la sua condanna alla
rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in
€2000,00, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata nei confronti di Guarcello Lorenzo limitatamente
ai reati di cui ai capi a, come riqualificato dal giudice di merito (art. 56, 319
quater c.p.) e d (art. 490 c.p.), con rinvio per nuovo esame ad altra sezione
della Corte d’appello di Milano. Annulla senza rinvio la medesima sentenza nei
confronti di Frisenda Carmelo limitatamente alla pena accessoria dell’interdizione
temporanea dai pubblici uffici, che elimina. Rigetta nel resto i ricorsi di entrambi
i ricorrenti. Condanna il solo Frisenda alla rifusione delle spese sostenute nel
grado dalla parte civile, che liquida in €2000,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 23 aprile 2014
Il consigliere e ensore

Guarcello Lorenzo, limitatamente ai reati di cui ai capi A, come riqualificato dal

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