Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31765 del 06/06/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 31765 Anno 2014
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: DI TOMASSI MARIASTEFANIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da LESTO Francesca Marzia, nata a Palermo il
4/12/1986,
avverso l’ordinanza emessa in data 10/6/2013 dal Tribunale di Palermo.
Visti gli atti, il provvedimento denunziato, il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere M.Stefania Di Tornassi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
Pietro Gaeta, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio del
provvedimento impugnato.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Palermo, investito ex art. 324
cod. proc. pen. dalla richiesta di riesame avanzata dall’indagata Francesca Marzia
Lesto, confermava il decreto di sequestro concernente la impresa individuale
“Villa Giuditta” di via San Lorenzo n. 17 Palermo, emesso in data 17.5.2013 dal
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima città.
In premessa, il Tribunale rilevava che a Francesca Lesto era contestato il

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Data Udienza: 06/06/2014

reato di cui agli artt. 81 e 110 cod. pen. e 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992,
aggravato ex art. 7, d.l. n. 152 del 1991, commesso in Palermo sino al
7.10.2010, concernente l’attribuzione fittizia, nella veste di soggetto interposto,
della titolarità della suddetta azienda, in concorso con il padre Michelangelo
Maurizio Lesto e con Francesco Paolo Conti nonché con Antonino Zarcone e
Michelangelo Tinnirello, appartenenti a famiglie mafiose di Palermo e Bagheria; il
sequestro era in sostanza giustificato dal rilievo che la ditta in questione era
legata da vincolo di pertinenzialità con il delitto contestato e la libera disponibilità
della stessa poteva aggravare o protrarre le conseguenze dei reati.
A ragione della conferma della misura cautelare reale, affermava, quindi,
fumus commissi delicti,

che la reale titolarità o comunque la

partecipazione occulta alla gestione dell’attività che faceva capo a detta azienda,
iscritta il 17.5.2011 alla Camera di commercio di Palermo e svolgente attività di
“ristorante”, emergeva dalle dichiarazioni del collaboratore Stefano Lo Verso
nonché da una cospicua serie di intercettazioni, letteralmente riportate e in parte
chiosate. Quanto al periculum in mora, osservava che si trattava, anzitutto, del
bene utilizzato per commettere il reato di intestazione fittizia, suscettibile perciò
di confisca facoltativa [ex art. 240 cod. pen.] in caso di condanna; risultava
attualmente essere il mezzo attraverso il quale i reati potevano essere aggravati
nei loro effetti attraverso la produzione di utili aventi genesi illecita; inoltre, e in
ogni caso, si trattava di bene suscettibile di confisca obbligatoria

[ex art. 416bis, comma settimo, cod. proc. pen.] in quanto attraverso detta attività si erano
ulteriormente perseguite le finalità del sodalizio (si citano Sez. U, n. 8 del
26/10/1986, Giovinazzo, e, sostanzialmente, Sez. U, n. 6 del 26/10/1985,
Piromalli, Rv. 171061, entrambe relative alla confisca obbligatoria conseguente
all’accertamento del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., nel previgente
regime recato dal’art. 24 della legge n. 646 del 1982).
2. Ha proposto ricorso l’indagata a mezzo del difensore avvocato Salvatore
Priola, che chiede l’annullamento della ordinanza impugnata denunziando
violazione di legge e mancanza di motivazione.
2.1. Con il primo e il secondo motivo, in particolare, sostiene che la
motivazione in ordine al periculum in mora ai sensi dell’art. 321, comma 1, cod.
proc. pen. era di fatto apparente (tautologica) ed errata in diritto, giacché nel
caso di specie il riferimento agli utili era meramente congetturale, non tenendo
in alcun conto la documentazione difensiva attestante la grave situazione
economica della ditta che, il 13.11.2012, era stata costretta a rilasciare per
morosità l’immobile in cui si gestiva l’attività di ristorazione.
2.2. Con il terzo e quarto motivo lamenta la violazione degli artt. 12quinquies e 12-sexies d.l. n. 306 del 1992 e dell’art. 32[1] cod. proc. pen. in
ordine alla affermata confiscabilità del bene, osservando che con argomentazioni
assolutamente oscure il Tribunale s’era rifatto alla confiscabilità facoltativa e
obbligatoria, senza chiarire se le disposizioni di legge al proposito richiamate
fossero quelle recate dall’art. 12-sexies ovvero dall’art. 416-bis cod. pen.
In relazione alla prima norma, palese era tuttavia l’assenza di motivazione e
la connessa violazione di legge sulle condizioni legittimanti la confisca costituite
dalla sproporzione dei beni rispetto al reddito o alle attività economiche e alla

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quanto al

mancata giustificazione della lecita provenienza della “ditta” sequestrata:
omettendosi altresì completamente di considerare la documentazione prodotta
dalla difesa sulla lecita provenienza della “ditta” (acquistata il 7.10.2011 con
pagamento garantito da effetti cambiari scadenti dal 30.10.2011 al 30.6. 2012 a
favore di Rosa Vernengo e del marito Francesco Paolo Conti).
Analogamente, con riferimento all’art. 416-bis cod. pen., erroneamente
s’era ritenuto confiscabile a mente di tale norma, presupponente la condanna,
bene appartenente a soggetto neppure imputato di quel delitto; e anche con
riguardo a tale ipotesi s’era comunque completamente omesso di esaminare la

quantomeno con riferimento all’azienda “Dancing Club” – sita in Palermo viale
Piemonte 16, comprensiva di licenze ed autorizzazioni – di cui era pure titolare
l’impresa individuale “Villa Giuditta di Lesto Francesca”, ma che non aveva
alcuna attinenza al fatto contestato, perché, come attestato dalla
documentazione difensiva anche per questo aspetto ignorata, acquistata in
maniera lecita (mediante obbligazione alla corresponsione di 68.000,00 euro
garantita da effetti cambiari con scadenza a partire dal 30.12.2012, e da
fideiussione prestata in favore della cedente tramite la società FIN AUREA s.p.a.
del 23.11.2012, dimostranti appunto l’assenza di capitali estranei illeciti) e,
soprattutto, acquistata con atto pubblico del 4.12.2012, ovverosia circa un anno
dopo la commissione del reato in esame, così come contestato (l’acquisto
costituiva dunque condotta inoffensiva).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Osserva il collegio che il riscorso appare fondato.
2. Il provvedimento impugnato è, obiettivamente, estremamente confuso.
Tralasciando le carenze motivazionali in ordine al fumus commissi delicti
(l’ordinanza si compone di una collage di brani di intercettazioni malamente
tenuti insieme da scarne osservazioni sulla loro auto evidenza, per nulla, in
realtà, chiarificatrici), che non sono direttamente oggetto di censura e non
sarebbero comunque suscettibili di apprezzamento ex art. 325 cod. proc. pen., è
anzitutto, però, da rilevare che, a fronte di affermazioni che costantemente si
riferiscono all’ “interessamento” e al “coinvolgimento” dei due soggetti “mafiosi”
nella gestione dell’azienda e che culminano in una osservazione sulla
“chiarissima” “suddivisione delle quote del locale” (p. 9, con riguardo alla
conversazione del 1°.7.2011, in cui Lesto padre, parlando con Conti Francesco
Paolo, riconosceva di dover pagare il 50 %, ma che il restante 50% era da
dividere tra gli altri), costituisce violazione di legge l’immotivato sequestro
dell’intero compendio dell’azienda.
Circa la provenienza e l’acquisto di questa, il provvedimento impugnato non
risponde, peraltro, menomamente alle osservazioni difensive e neppure mostra,
anche in questo caso in patente violazione di legge, di avere esaminato la
copiosa documentazione versata in atti dalla difesa in allegato alla memoria del
10.6.2013, in larga parte riferita alla collaterale attività del “Dancing Club”,

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documentazione difensiva attestante la provenienza lecita del bene.
2.3. Con il quinto motivo si lamenta la mancata revoca del sequestro

acquistata dalla impresa individuale Villa Giuditta di Lesto Francesca e che
risulterebbe sequestrata con questa, senza che vi sia però alcuna menzione al
proposito in motivazione.
3. Analoga omissione, si registra con riferimento alla giustificazione del
sequestro riferibile alle esigenze preventive (ex art. 321, comma 1, cod. proc.
pen.), giacché il Tribunale, in relazione a quello che parrebbe detto aspetto, si
limita ad affermare che l’azienda costituirebbe, comunque, «mezzo attraverso il
quale [i reati d’intestazione fittizia] potrebbero essere aggravati nei loro effetti
attraverso la produzione di utili aventi una genesi illecita»,

non soltanto

completamente ignorando le osservazioni e la documentazione difensive,
concernenti le perdite e la situazione economica in deficit dell’impresa.
4. Maggiore spazio è riservato alla giustificazione del sequestro con riguardo
alla finalità di confisca, ma le motivazioni sul punto sono in diritto errate.
L’aspetto peculiare è che, pur provvedendo in merito ad un provvedimento
che consegue ad una contestazione ai sensi dell’art. 12-quinquies d.l. n. 306 del
1992, il Tribunale non fa mai riferimento a una finalizzazione del sequestro alla
confisca ex art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992. E non esamina in alcun modo,
dunque, il profilo della giustificazione della provenienza del bene e della
sproporzione dello stesso rispetto al reddito o all’attività economica degli
indagati.
Ad essere evocate, invece, sono: da un lato, asserendosi che si tratterebbe
«di bene che è stato utilizzato per commettere il delitto d’intestazione fittizia» la
confisca facoltativa ex art. 240, primo comma, cod. pen.; dall’altro, affermandosi
che «attraverso questa attività […] si sono ulteriormente perseguite le finalità
proprie del sodalizio», la confisca obbligatoria prevista dall’art. 416-bis, comma
settimo, cod. pen..
Tuttavia – e in disparte il rilievo che l’art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992
istituisce, secondo giurisprudenza e dottrina consolidate, un’ipotesi di confisca
speciale rispetto alle previsioni generali dell’art. 240 cod. pen. – il bene
fraudolentemente trasferito (ovvero fittiziamente attribuito) non è “strumento”
del reato così realizzato (non è, in altri termini, il mezzo impiegato
nell’esplicazione dell’attività punibile), ma ne costituisce semmai l’oggetto, é cioè
la cosa su cui il reato cade (così come non sono strumenti o mezzi, bensì oggetto
dei relativi reati, i beni ricettati o riciclati); e non potendo neppure intendersi
quale prodotto, profitto o prezzo, non è suscettibile di confisca a mente dell’art.
240 cod. pen.
Quanto alla confisca prevista dall’art. 416, comma 7, cod. proc. pen., la
giurisprudenza è assolutamente univoca nel ricordare che la stessa non concerne
tutti i beni comunque acquistati dai singoli associati in un determinato periodo,
ma va riferita esclusivamente a quelli che servirono o furono destinati a
commettere il reato associativo, ovvero che ne sono il prezzo, il prodotto, il
profitto o che ne costituiscono l’impiego (Sez. 1, n. 6784 del 01/04/1992, Bruno,
Rv. 190545); sicché, come ai fini della confiscabilità dei beni in questione occorre
che sia positivamente dimostrata una qualsivoglia correlazione tra i beni

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esprimendosi in termini approssimativi e largamente tautologici, ma

medesimi e l’attività illecita attribuita all’imputato del delitto di cui all’art. 416-bis
cod. pen. (Sez. 1, n. 3392 del 16/07/1993, Acciarito, Rv. 195180), così anche ai
fini del sequestro funzionale alla confisca

ex art. 416-bis occorre che risulti

l’esistenza di una correlazione tra i cespiti e l’ipotizzata attività illecita del
soggetto indagato di associazione di stampo mafioso ( Sez. 6, n. 47080 del
24/10/2013, Guerrera, Rv. 257709). Mentre a tale correlazione il Tribunale non
fa neppure un cenno.
5. Per le ragioni esposte il provvedimento impugnato deve essere annullato
con rinvio al Tribunale di Palermo, che procederà a nuovo esame attenendosi ai
dando in ogni caso risposta alle deduzioni difensive pertinenti.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di
Palermo.
Così deciso in Ro

il giorno 6 giugno 2014

Il Consiglier estensore

principi enunciati, colmando le lacune ed emendando gli errori evidenziati, e

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