Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31763 del 23/05/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 31763 Anno 2014
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: NOVIK ADET TONI

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
HILALI SABRI ALI N. IL 21/08/1983
avverso l’ordinanza n. 1643/2013 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del
07/10/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ADET TONI NOVIK;
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latte/sentite le conclusioni del PG Dott. raGep

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Uditi difensor Avv.;

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Data Udienza: 23/05/2014

RILEVATO IN FATTO
Il G.I.P. del Tribunale di Catania, in data 16/9/2013, emise ordinanza con la
quale applicò la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di HILALI
Sabri Ali per i delitti di cui agli artt. 416 cod. pen. 12, comma 1 lett. a), b) e d)
d. Igs. 286/1998, in relazione all’approdo sulle coste siracusana di 199 migranti
di nazionalità siriana, avvenuto il 12/9/2013.
Il quadro indiziario era costituito dalle dichiarazioni rese da alcuni migranti,
dai riconoscimenti fotografici effettuati e degli esiti di intercettazioni telefoniche,

stavano organizzando con finalità di lucro un viaggio di migranti verso le coste
della Sicilia sud-orientale.
Le indagini, già in corso prima del fatto in questione, erano condotte
attraverso l’ascolto a distanza di telefonate di soggetti operanti in Sicilia, in
diretto contatto con individui, attivi in Egitto nella programmazione dei viaggi di
migranti in Italia; tra questi venivano identificati Ghedu Abdou (operante nel
supporto logistico dello sbarco di 88 cittadini extracomunitari), Said Darwish,
(residente a Vittoria, a sua volta coinvolto nella cellula italiana di sostegno
all’organizzazione), Mohammet Farhatt, cittadino egiziano, residente in Firenze,
risultato attivo dall’Egitto nell’operazione che portò allo sbarco a Porto Palo del
13.8.2013, di 161 migranti, Qat Amir che insieme al menzionato Ghedu, il
3.9.2013, dopo lo sbarco di 93 migranti nel Porto grande di Siracusa, si occupò
di nascondere due giovani riconosciuti come componenti dell’equipaggio in uno
stabile abbandonato nei pressi della stazione ferroviaria di Siracusa.
L’ipotesi era confermata dalla comunicazione pervenuta da una nave militare
rumena che in data 10/9/2013 aveva segnalato alle autorità italiane la presenza
in acque internazionali di una nave intenta al trasbordo di un elevato numero di
persone su un’imbarcazione più piccola al rimorchio. Poco prima le due
imbarcazioni avevano proceduto affiancate e, dopo una breve sosta, la più
piccola si era diretta verso Siracusa. L’imbarcazione più piccola era stata poi
soccorsa da una motonave della Guardia di Finanza che aveva proceduto al
trasbordo dei 199 cittadini extracomunitari. Nel frattempo, il pattugliatore
rumeno aveva fermato la “nave madre”, priva di bandiera, e controllato i
componenti dell’equipaggio che avevano esibito 15 documenti in lingua araba,
attestanti la loro attività di pescatori. L’unità navale della Guardia di Finanza
sopraggiunta aveva proceduto all’abbordaggio del natante che veniva posto sotto
sequestro.
I migranti, sentiti a sommarie informazioni, confermavano di aver iniziato la
traversata del mare con piccoli natanti, partendo da località diverse, fino a

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captate nei giorni precedenti, da cui si era desunto che soggetti italiani e libici

raggiungere la nave madre con cui si erano diretti verso l’Italia. Dopo erano stati
trasbordati su una imbarcazione più piccola.
L’indagato veniva riconosciuto da alcuni migranti, come colui che era
addetto alla distribuzione del cibo.
Detti apporti conoscitivi venivano ritenuti attendibili e genuini, perché frutto
di osservazione ed esperienza personalmente vissute e reciprocamente
convergenti in termini di piena e logica compatibilità. Avverso il provvedimento
cautelare proponeva tempestivo riesame l’indagato eccependo:

non operatività della Convenzione de Montego Bay per mancanza di ratifica.
Mancava la prova che lo sbarco per cui si procedeva era riconducibile a quelli
organizzati dall’associazione per delinquere autrice degli altri trasporti. Il reato di
favoreggiamento dell’immigrazione, reato di natura istantanea, non era stato
commesso in parte in Italia, in quanto lo sbarco dei migranti non era l’evento del
reato, ma la conseguenza del reato già perfezionatosi in territorio estero;
b) la mancanza di poteri coercitivi dello stato italiano in quanto i reati erano
stati commessi in acque internazionali;
c) la non configurabilità del reato di immigrazione clandestina per mancanza
del requisito dell’illegalità dello status di migranti, in quanto tutti coloro che
erano entrati in Italia erano di nazionalità siriana ed egiziana suscettibili di
ricevere protezione internazionale, in quanto provenienti da paesi in cui era in
corso una guerra civile.
Con ordinanza emessa il 7/10/2013, il tribunale di Catania in sede di
riesame confermava l’ordinanza custodiale.
Secondo i giudici della cautela, lo sbarco dei migranti del 12.9.2013, in cui
fu coinvolto l’indagato, si inseriva -alla luce delle conversazioni captate a
distanza- nella pluralità di interventi di un’organizzazione operante con metodi
seriali, con disponibilità di navi madre fatte intervenire solo in acque
extraterritoriali. A confortare tali conclusioni portavano le conversazioni
intercettate dopo il sequestro della nave madre, risultata di proprietà di tale
Hannafy, dimostrative della preoccupazione nutrita dagli organizzatori, mitigata
dal solo fatto che la nave aveva già svuotato il suo carico in mare ( “non c’era
niente dentro”) quando venne controllata, nonché della imposizione ad opera di
detto Hannafy, di una linea di condotta diretta a dissimulare l’attività illecita
gestita.
Veniva quindi ritenuto che la natura, le finalità, lo scopo di lucro della
condotta erano ampiamente emersi dalle conversazioni intercettate, dense di
riferimenti ad un modus operandi concertato tra equipaggio e cabina di regia

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a) il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana sul rilievo della

egiziana e consapevolmente inserito nel più ampio quadro organizzato del
traffico illegale di migranti.
In primis, il Tribunale riteneva che fosse destituita di fondamento la tesi
difensiva secondo cui il trasporto di cittadini provenienti da uno Stato in guerra,
come la Siria, essendo suscettibili di protezione internazionale, non rivestiva
caratteri di antigiuridicità, atteso che lo status di rifugiato non discende in modo
automatico, dovendo essere accertato da apposita commissione.
In secondo luogo, venivano ritenuti integrati i reati in contestazione e la

favoreggiamento risultava

il delitto di

essere stato consumato, attese le concordi

dichiarazioni rese dai migranti e considerate le condizioni di esposizione a rischio
di vita in cui furono fatti navigare, così come accertate dagli stessi militari. Per
quanto riguarda la partecipazione dell’indagato al sodalizio operante su larga
scala le operazioni di trasporto clandestino di stranieri in fuga verso l’Europa,
veniva evidenziato come il medesimo facesse parte della fitta rete tra gruppi
interagenti tra loro, in contatto costante, con la piena consapevolezza di operare
ad un progetto delittuoso e di speculazione lucrativa unitario ed organico, visto
che l’indagine aveva consentito di accertare che ogni traversata era monitorata,
tanto dalla base in Egitto, quanto dalla cellula di supporto in Sicilia e
l’equipaggio in mare. Veniva evidenziato come fosse stata collaudata la
procedura di utilizzare la nave madre solo in acque extraterritoriali (onde porla al
riparo dall’esercizio della giurisdizione dei paesi di approdo), con successivo
“scarico” dei disperati su natanti inadeguati ad affrontare i flutti, ma tali da
giustificare l’intervento di soccorso in mare, doveroso in base alle leggi
internazionali, onde raggiungere terra sotto lo scudo della causa di
giustificazione.
Affrontando il punto relativo alla giurisdizione, il tribunale del riesame
riteneva che già il fatto stesso che l’attività di supporto logistico ai singoli sbarchi
fosse stata realizzata in Italia da Qat Amir, Said Darwish e Ghedu Abdou nel
territorio compreso tra Siracusa e Ragusa, consentiva di ritenere ai sensi
dell’articolo 6 del codice penale la giurisdizione dello stato italiano, anche
prescindendo dall’avvenuto sbarco.
Alle stesse conclusioni perveniva anche riguardo al delitto di
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in quanto ad esso avevano
cooperato soggetti stazionanti sul territorio italiano. In ogni caso il reato era
stato anche realizzato in territorio italiano in quanto qui si era realizzata la
conseguenza naturalistica del reato, cioè l’ingresso illegale di cittadini
extracomunitari, costituente il risultato finale voluto, senza che potesse avere
valore scriminante il comportamento fraudolento attuato con il trasbordo su un
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consapevole partecipazione dell’indagato a detti reati:

natante inidoneo e la conseguente richiesta di soccorso in mare, pena il
frazionamento di fattispecie complessa, scientemente pianificata, che
comprendeva l’utilizzo di un successivo natante, manifestamente fatiscente,
onde provocare l’intervento delle autorità dello Stato rivierasco deputate
all’obbligatorio soccorso in mare.
In conclusione, sussisteva la giurisdizione dello stato ex art. 6, 2 0 comma
cod. pen. in ordine ad entrambi i reati configurati a carico dell’indagato.
Quanto infine ai poteri di coercizione in acque internazionali (sequestro della

di Montego Bay del 10.2.1982, entrata in vigore in Italia il 12.2.1995 a seguito
della autorizzazione alla ratifica intervenuta con I. 2.12.1994 n. 689 , secondo
cui in alto mare il collegamento tra una nave e lo Stato, si attua attraverso il
requisito della nazionalità espresso dalla bandiera del natante, laddove una nave
priva di bandiera è soggetta alla interferenza, cioè alla giurisdizione di qualsiasi
Stato marittimo. Ne doveva seguire il giudizio di piena legittimità del controllo
ad opera della nave su cui venne controllato l’indagato, su ordine dell’AG
italiana, ad opera del comandante del pattugliatore della Agenzia dell’Unione
europea Frontex, avendosi riguardo a nave senza bandiera. L’Autorità Giudiziaria
italiana aveva tra l’altro giurisdizione anche in forza del diritto di visita a navi in
alto mare, previsto dall’art. 110 della Convenzione di Montego Bay, oggi ancora
più stringente e mirato, in forza dell’art. 8 par. 7 del protocollo delle Nazioni
unite sul traffico di migranti, firmato a Palermo nel 2000. Veniva fatto di rilevare
che il primo c. dell’art. 110 suindicato fa salvo il caso in cui gli atti di ingerenza
in alto mare siano derivati da poteri conferiti in forza di trattati e nel novero dei
trattati internazionali andava iscritto detto protocollo sul traffico dei migranti per
terra, mare ed aria, addizionale alla convenzione delle Nazioni Unite sul crimine
transnazionale. All’art. 8 par. 7 è previsto che ” lo Stato che ha ragionevoli
motivi di sospettare che una nave priva di nazionalità o assimilabile a una nave
priva di nazionalità sia coinvolta nel traffico di migranti può fermare o

nave madre ed arresto dell’equipaggio), il Tribunale richiamava la Convenzione

ispezionare la nave. Se il sospetto è confermato da prove, detto Stato parte
prende misure opportune, conformemente al relativo diritto interno ed
internazionale.” Nel caso di specie la nave madre era stata controllata dall’alto
ed era stato visto l’affiancamento alla nave figlia, il progressivo allontanamento
di quest’ultima verso l’Italia e la virata della nave madre verso le coste africane.
Quanto alle esigenze cautelari, venivano ritenute sia quella di natura social
preventiva, considerato il serio e concreto pericolo di reiterazione dello stesso
tipo di reato (vista la serialità dell’attività criminosa posta in essere),
particolarmente grave e punito con pena non suscettibile di beneficio della
sospensione condizionale della pena, nonché il pericolo di fuga, essendo
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l’indagato privo di fissa dimora nel paese di origine e di residenza nel paese di
approdo.
Avverso tale decisione, ha interposto personalmente ricorso per cassazione
l’indagato, con atto a propria firma, per dedurre l’assenza di legittimazione dello
Stato italiano all’esercizio di poteri di coercizione personale e reale in acque
internazionali, con violazione del c.d. principio di libertà del mare. Secondo il
ricorrente, la soluzione adottata dal G.I.P. e fatta propria dal Tribunale sul punto
specifico sarebbe censurabile perché frutto di un approccio epistemico di natura

anglosassoni, estranee alle tradizioni culturali di politica estera e di diritto
internazionale del nostro Stato, nonché del diritto internazionale diffuso, non
tenendo conto che l’Italia avrebbe ratificato la convenzione di Montego Bay in
misura minima, con la I. 689/1994 che avrebbe semplicemente autorizzato il
Presidente della Repubblica a ratificare, senza che sia poi seguita reale ratifica
della convenzione, nonché alcun atto successivo di formazione primaria o
secondaria idoneo a darvi concreta disciplina di applicazione.
Viene contestato quindi il percorso argomentativo seguito in primo luogo
sotto il profilo della non piena operatività nel diritto interno della c.d.
convenzione di Montego Bay, così come sarebbe stato sostenuto in un arresto di
questa Corte, ma anche e soprattutto in relazione al fatto di avere i giudici della
cautela ritenuto perfettamente coincidenti il diritto di ingerenza esercitabile da
una nave da guerra che incroci in alto mare una nave senza bandiera (di cui è
corollario il diritto di visita), con il diverso concetto di giurisdizione esercitabile
dalle autorità statuali della nave controllante sulla nave controllata e sui suoi
occupanti, allorquando l’operazione avvenga in alto mare. Luogo in cui
difetterebbe la giurisdizione in capo al naviglio ingerente. Secondo il ricorrente
l’articolo 110 della convenzione consentiva il diritto di visita, ma nulla disponeva
circa la possibilità di adottare poteri coercitivi reali e personali, essendo gli stessi
riservati allo Stato che ha la giurisdizione sulla nave (art. 97). Questa
conclusione non era inficiata nemmeno dal protocollo di Palermo, oscuro nel
testo legislativo e di natura meramente programmatica per quanto attiene alle
azioni di contrasto della migrazione, atteso che venne stabilito che gli Stati
possano agire di concerto per il contrasto al fenomeno della migrazione nel
rispetto delle norme interne e di quelle internazionali, con ciò chiaramente
imponendo il rispetto del principio generalmente condiviso della libertà dell’alto
mare. Né potrebbero soccorrere i commi 9 bis e quater dell’art. 12 d.lgs.
286/1998, posto che le modalità di intervento delle navi della marina Militare,
nonché quelle delle altre unità navali in servizio di polizia, sono state rimesse ad
un atto di formazione secondaria emesso in data 14.7.2003, che nulla avrebbe
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analogica in malam partem, mosso da proiezioni interventiste squisitamente

previsto a proposito dell’abbordaggio e delle linee di azione da seguire in caso
di nave priva di bandiera, essendo state solo previste le norme comportamentali
da tenere in caso di nave battente bandiera straniera, subordinando l’eventuale
diritto di visita alla richiesta formale del ministro dell’interno, previa acquisizione
tramite il ministro degli esteri, dell’autorizzazione da parte del paese di bandiera.
Concludeva quindi chiedendo l’annullamento dell’impugnata ordinanza e la
immediata liberazione.
Il Procuratore Generale ha chiesto il rigetto del ricorso e la conferma

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato, anche alla luce delle
considerazioni svolte in sede di discussione dalla difesa.
Il ricorso non muove nessuna censura alla configurabilità dei reati ascritti
nell’imputazione provvisoria, nel quadro di «un giudizio di qualificata probabilità
sulla responsabilità dell’indagato» in ordine ai reati addebitati nei termini
riportati nella parte narrativa, ma è circoscritto all’accertamento della legittimità
dell’intervento coercitivo operato in alto mare, in acque extraterritoriali, che
portò all’arresto dei membri di equipaggio della nave madre che ebbe ad operare
-sempre in alto mare- secondo una prassi ormai consolidatasi, il trasbordo dei
migranti su un natante più piccolo ed insicuro, per il completamento del viaggio
verso le coste italiane.
Secondo la difesa, una volta accertata la nazionalità dei componenti
l’equipaggio della nave abbordata in alto mare, pacificamente priva di bandiera
e di nome, lo Stato italiano avrebbe dovuto operare attraverso l’istituto
dell’estradizione, una volta appurata la nazionalità degli stessi. Sul punto vien
fatto immediatamente di rilevare che il sistema dell’estradizione è mal
invocato, considerato che presuppone un rapporto di collaborazione e
coordinamento fra stati, volto a consentire la circolazione delle decisioni
giudiziarie aventi ad oggetto un mandato, in funzione di un processo penale,
ovvero dell’esecuzione di una pena detentiva. L’obiettivo perseguito è quello
dell’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali
che irrogano pene detentive o alle misure privative della libertà personale, ai fini
della loro esecuzione. Nel caso di specie non è in gioco il coordinamento di
sovranità di più stati, poiché la nave abbordata era priva di nazionalità, non
avendo battuto alcuna bandiera, cosicché l’equipaggio della nave controllata non
poteva dirsi soggetto protetto dal diritto dello Stato di bandiera e quindi di
appartenenza, opponibile al momento della c.d. “visita”. Si versava quindi al di
fuori del perimetro del sistema dell’estradizione che per contro ha lo scopo di
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dell’ordinanza.

coordinare i rapporti tra due paesi, rendendo possibile allo Stato richiedente
l’instaurazione del rapporto processuale nei confronti dello straniero, a sua
volta soggetto e tutelato dalla normativa dello Stato a cui appartiene.
In questa particolare fattispecie, in cui non può la nave abbordata essere
considerata come un frammento distaccato della comunità nazionale di cui batte
bandiera, attesa la mancanza di bandiera, non si può sopperire per individuare la
giurisdizione, facendo riferimento alla nazionalità dell’equipaggio, poiché il profilo
è del tutto estraneo al paradigma individuato dalle norme internazionali che

internazionali dettano infatti una disciplina molto specifica, conferendo una netta
priorità allo Stato della bandiera, indipendentemente dalla cittadinanza del
soggetto interessato, che è stata correttamente osservata dai giudici a quibus.
Deve essere ribadito che tradizionalmente le navi in alto mare sono considerate
come un’estensione del territorio della nave di bandiera ed in tale senso depone
l’art. 92 paragrafo 1 della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
Lo stesso codice della navigazione italiano (art. 4) ha recepito questo principio,
laddove statuisce che “le navi in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o
spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come
territorio italiano”.

Proprio l’art. 92 citato prevede che la nave priva di

nazionalità o battente bandiera non autorizzata ad alberare, sia soggetta al
controllo ed all’interferenza (cioè alla giurisdizione) di qualsiasi Stato marittimo.
Correttamente i giudici della cautela, hanno riconosciuto la legittimità
dell’azione di abbordaggio e di intervento sulla nave senza bandiera, proprio con
il riferimento alla convenzione di Montego Bay, che contrariamente a quanto
sostenuto dalla difesa, risulta essere stata ratificata dall’Italia il 13.1.1995 ed è
entrata in vigore il 12.2.1995 a seguito di autorizzazione alla ratifica disposta
con legge 2.12.1994 n. 689 (il comunicato di ratifica è stato pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 253 del 28.4.1995). L’art. 110 della suddetta
Convenzione , come è Stato ricordato nell’atto impugnato, prevede tra l’altro
che una nave da guerra che incroci in alto mare una nave straniera non avente
diritto alla completa immunità, non possa legittimamente abbordarla, a meno
che (per quanto di interesse) la nave sia impegnata in atti di pirateria, sia
impegnata nella tratta degli schiavi, ovvero sia priva di nazionalità. Sul punto
giova ricordare che la Grande Camera della Corte di giustizia europea, nel
procedimento HIRSI contro Italia, ebbe a richiamare per ritenere legittime le
azioni in alto mare, proprio l’art. 100, paragrafo 1, comma d) della Convenzione
sul diritto del mare menzionata, che autorizza l’abbordaggio di navi che non
battono alcuna bandiera, nonché l’art. 100 paragrafo 1, c. b) che autorizza
l’abbordaggio ove vi siano ragionevoli motivi per sospettare che la nave sia
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fanno esclusivo riferimento alla bandiera. Nei casi consimili le Convenzioni

impegnata nel traffico di schiavi, con la preziosa indicazione che si debba
estendere questo motivo alle vittime della tratta degli esseri umani, tenuto
conto dell’analogia tra queste due forme di traffico. A queste previsioni la Corte
europea ha aggiunto che molto puntualmente la Convenzione ONU sul crimine
organizzato, sottoscritta nel corso della conferenza di Palermo (12-15 dicembre
2000) ratificata dall’Italia con legge 2.8.2006, n. 146, in vigore dal 1.9.2006,
all’art. 8, paragrafi 2 e 7, autorizza lo Stato che ha ragionevole motivo di
sospettare che una nave priva di nazionalità o assimilabile ad una nave priva di

od opportune, in base al diritto interno ed internazionale. Il riferimento al diritto
interno e internazionale contribuisce a fare identificare dette misure non solo nel
diritto di visita della nave (ispezione), ma anche nel dirottamento verso un porto
dello Stato costiero, quindi nell’adozione di provvedimenti repressivi sulla nave
visitata, quali il sequestro della stessa e l’arresto delle persone trovate a bordo,
una volta approdate nel territorio dello Stato. E’ infatti Stato affermato nella
sentenza della Grande Camera della corte di giustizia europea del 3.6.2008, n.
308-06 che la libertà di navigare sussiste solo se ricorre un rapporto stretto tra
la nave e lo Stato di appartenenza, laddove il diritto è negato, in mancanza di
bandiera e quindi di riconducibilità della nave ad uno Stato. La nave senza
bandiera si espone inevitabilmente, anche in acque extraterritoriali, ai controlli
delle navi dei paesi rivieraschi, per l’evidente interesse giuridicamente rilevante
che lo Stato costiero ha alla sicurezza e allo svolgimento indisturbato della vita e
delle attività delle proprie comunità territoriali.
Ciò detto, deve essere riaffermata la legittimità dell’intervenuto abbordaggio
della nave madre, del suo dirottamente presso il porto di Siracusa, dell’esercizio
dei poteri coercitivi nei confronti dei membri dell’equipaggio, ritenuti responsabili
con fondatezza di aver imbarcato 199 migranti siriani a bordo della nave madre,
di averli trasferiti in alto mare su altro natante che continuò il viaggio verso
l’approdo, del tutto inadeguato in relazione alle condizioni del mare.

nazionalità, sia coinvolta nel traffico di migranti, a prendere misure appropriate

L’arresto del ricorrente è dunque avvenuto in un contesto di assoluta
legalità, senza forzatura alcuna dei confini della giurisdizione e nell’ambito di una
corretta applicazione delle convenzione internazionali che regolano i rapporti in
acque extraterritoriali.
Va aggiunto che il caso in esame diverge da quello alla base della decisione
di questa Corte richiamata nel ricorso. La fattispecie esaminata in quel caso
concerneva l’attività di polizia giudiziaria, e il conseguente intervento giudiziale,
posto in essere nei confronti di una motonave battente bandiera turca.
Al rigetto del ricorso deve seguire la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali.
8

I

PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso in Roma, 23 maggio 2014.

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