Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31739 del 09/05/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 31739 Anno 2014
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: CASSANO MARGHERITA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MELIS SISINNIO N. IL 22/02/1961
avverso la sentenza n. 58/2013 CORTE MILITARE APPELLO di
ROMA, del 23/10/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 09/05/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARGHERL345,ASSANO
Udito il Procuratore Generalenersona del Dott.
che ha concluso per ,-Q

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit, gdifensot9kvv.
77,-;

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13
C LAT

Data Udienza: 09/05/2014

Ritenuto in fatto.
LH 12 marzo 2013 il Tribunale militare di Roma assolveva, perché il fatto non

sussiste, il Brigadiere dei Carabinieri Sisinnio Melis dal reato di insubordinazione
con ingiuria aggravata in danno del Maresciallo Bugnoli (in servizio, come
l’imputato, presso la Stazione dei Carabinieri di Sovicilee), ritenendo che il
compendio probatorio acquisito, costituito dalle contrapposte dichiarazioni della

consentissero di delineare la responsabilità di Melis oltre ogni ragionevole dubbio.
2.11 23 ottobre 2013 la Corte d’appello militare, in riforma della decisione di
primo grado, impugnata dal Procuratore generale militare, affermava la penale
responsabilità dell’imputato e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche,
dichiarate prevalenti sulle contestate aggravanti, lo condannava alla pena di un
mese di reclusione militare con i doppi benefici di legge.
Ad avviso della Corte le dichiarazioni della parte offesa erano intrinsecamente
credibili e, alla stregua dei principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza di
legittimità, non richiedevano elementi di riscontro. La ricostruzione del fatto, così
come riferito dalla parte offesa, non era stata confutata dall’imputato, che aveva
pienamente confermato quanto accaduto prima dell’episodio contestato, in tal modo
avvalorando le dichiarazioni rese dal Maresciallo Bugnoli e dal Capitano Pigozzo.
La ragione della discussione veniva individuata nei rilievi mossi al Brigadiere Melis
da parte del Maresciallo Bugnoli, suo comandante, il quale, rientrato in caserma,
sebbene ancora in licenza, il giorno 11 settembre 2011, nell’incontrare l’imputato
gli aveva chiesto se aveva dato corso ad alcune disposizioni da lui impartite e, in
particolare, se aveva messo a disposizione la chiave del proprio alloggio di servizio,
se avesse riposto il telecomando di un televisore che Melis aveva messo a
disposizione dei colleghi, se aveva rimosso dalrufficio la targhetta contenente una
frase di Benito Mussolini.. L’imputato, in un primo momento, si era limitato a
prendere atto delle contestazioni a lui mosse; successivamente, incontrando lungo le
scale il Maresciallo Bugnoli, lo aveva apostrofato con le frasi oggetto della
contestazione.
I giudici militari osservavano che il racconto della parte offesa, oltre ad essere
connotato da piena credibilità soggettiva e oggettiva, era riscontrato dalle
dichiarazioni del teste Caldarera — svegliato dalle urla di Melis – e da quelle rese in
appello dal teste Pigozzo che descriveva le diverse personalità dei due protagonisti
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parte offesa e dell’imputato, integrate da quelle dell’unico teste presente, non

della vicenda (Bugnoli pacato, timido, educato; Melis “un po’ più diretta e
schietta”). La cautela usata da Bugnoli nel riferire l’accaduto al superiore era, ad
avviso della Corte militare, spiegabile con le caratteristiche della sua personalità e
con la volontà di non determinare la lesione del prestigio del superiore nei confronti
degli altri sottufficiali.
3. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il

Lamenta violazione dei canoni di valutazione probatoria, mancanza,
contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in ordine agli elementi posti
a base dell’affermazione di penale responsabilità, tenuto conto della inattendibilità
delle dichiarazioni della parte offesa, desumibile dalle seguenti circostanze: a)il
primo ad avvisare il cap. Pagozzo fu Melis e non Bugnoli; b) quest’ultimo non ha
mai specificato il contenuto delle asserite espressioni offensive profferite
dall’imputato; c) non le ha mai riferite né a Caldarera né a Pagozzo; d) non ha
informato il superiore della sua decisione di proporre denuncia.
Denuncia inoltre violazione della legge processuale, atteso che i giudici
d’appello, nel riformare la decisione di primo grado, non hanno specificamente
confutato le argomentazioni del Tribunale.
Osserva in diritto.
Il ricorso non è fondato.
Il suo esame impone una duplice premessa.
1. Il giudice d’appello che riformi la decisione di primo grado ha l’onere di
esaminare tutti gli elementi acquisiti, di valutare la loro valenza probatoria e di
spiegare le ragioni sottese ad un diverso epilogo decisionale. In presenza, quindi, di
due decisioni di merito difformi, ai fini della rilevabilità del vizio di motivazione in
ordine ad una (o più) prova omessa decisiva la Corte di cassazione può e deve fare
riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo del
testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza d’appello, ma anche a
quella di primo grado allo scopo di stabilire se l’iter logico argomentativo seguito
dal giudice dell’impugnazione sia stato fondato sulla disamina di tutte le prove
acquisite oppure abbia pretermesso altre, decisive informazioni.
La mancata risposta dei giudici d’appello circa la portata di decisive risultanze
probatorie acquisite al processo inficia la completezza e la coerenza logica della
sentenza a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il materiale probatorio
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difensore di fiducia, l’ imputato, il quale formula le seguenti doglianze.

esistente e il contenuto della pronuncia e la rende suscettibile di annullamento. Ne
consegue che la Corte di cassazione, senza necessità di accedere agli atti
d’istruzione probatoria, prendendo in esame il testo della sentenza impugnata e
confrontandola con quella di primo grado è chiamata a saggiarne la tenuta, sia
“informativa” che “logico-argomentativa” (Cass., Sez. Un. 30 ottobre 2003, n.
45276, rv. 226093). Una verifica del genere é compatibile con le funzioni della

probatorio, ma comporta unicamente un confronto tra la richiesta di valutazione di
una prova e il provvedimento impugnato.
2.Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606, lett. e), c.p.p., novellato
dall’art. 8 della 1. 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul
discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare
che la motivazione della pronunzia: a) sia “effettiva” e non meramente apparente,
ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base
della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti
sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori
nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria,
ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da
inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d)non risulti
logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini
specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per
cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il
profilo logico (Sez. 6, n. 10951 del 15 marzo 2006). Non è, dunque, sufficiente che
gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con
particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione
complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei
a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni
giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco
e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più
significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in
grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del
giudice e di consentirne la rappresentazione, in teunini chiari e comprensibili, ad un
pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E’, invece, necessario che
gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio
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Corte di cassazione, in quanto essa non richiede la individuazione del risultato

della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o
dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero
ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali
incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o
contraddittoria la motivazione.
Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla

internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del
processo”. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di
una pluralità di deduzioni connesse a diversi “atti del processo” e di una correlata
pluralità di motivi di ricorso — in una valutazione, di carattere necessariamente
unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della
“resistenza” logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta,
infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli
adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una
migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte
nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione
assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino
autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità
e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per
giungere alla decisione.
3.Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae
alle censure che le sono state mosse. La sentenza d’appello, dopo avere ripercorso
l’iter argomentativo della sentenza di primo grado, ha specificamente confutato le
valutazioni effettuate dai primi giudici. In particolare ha ritenuto idonea a fondare il
giudizio di penale responsabilità dell’imputato la testimonianza della parte offesa,
che è stata sottoposta a puntuale e rigorosa verifica per quanto attiene alla credibilità
soggettiva del dichiarante e all’attendibilità intrinseca del suo racconto. Secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte, alle dichiarazioni della parte offesa non si
applicano le regole dettate dall’art. 192, comma 3, c.p.p. le quali da sole possono
legittimamente giustificare l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato,
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persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e

previa verifica, corredata da idonea motivazione, dell’attendibilità del dichiarante e
dell’affidabilità e coerenza intrinseca del suo racconto, verifica che peraltro deve in
tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le
dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. Un. n. 41461 del 19 luglio 2012).
La Corte militare d’appello, oltre a rispettare i suddetti canoni di valutazione
della deposizione della parte offesa, ha indicato, con motivazione esente da evidenti

(testimonianze di Caldarera e Pigozzo) che concorrono a ricostruire il fatto in senso
convergente al quadro delineato dalla parte offesa e permettono, insieme alle
dichiarazioni di quest’ultima, di delineare al di là di ogni ragionevole dubbio la
responsabilità dell’imputato.
In realtà, il ricorrente, pur denunziando formalmente una violazione di legge in
riferimento ai principi di valutazione della prova di cui all’art. 192.2 c.p.p., non
critica in realtà la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla
formazione del convincimento del giudice, bensì, postulando un preteso
travisamento del fatto, chiede la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il
sostanziale riesame nel merito, non consentito, invece, in sede d’indagine di
legittimità sul discorso giustificativo della decisione, allorquando la struttura
razionale della sentenza impugnata abbia – come nella specie – una sua chiara e
puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole
della logica, alle risultanze del quadro probatorio, indicative univocamente della
coscienza e volontà del ricorrente di offendere l’onore, il prestigio e la dignità del
superiore in grado e proprio comandante.
Al rigetto del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, in Roma, il 9 maggio 2014.

incongruenze o da interne contraddizioni, le ulteriori emergenze probatorie

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