Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31734 del 14/02/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 31734 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: CIAMPI FRANCESCO MARIA

SENTENZA
Sul ricorso proposto da :
1. PEZZOLLA MARCELLO N. IL 31.10.1965
2. FITA (FEDERAZIONE ITALIANA TAEKWONDO) R.C.
avverso la sentenza del TRIBUNALE DI ROMA in data 8 aprile 2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere dott. FRANCESCO MARIA CIAMPI;
sentite le conclusioni del PG in persona del dott. Vincenzo Geraci che ha chiesto l’annullamento
senza rinvio in punto di condanna alle spese dell’imputato per il secondo grado di giudizio della
parte civile ed il rigetto nel resto. E’ presente l’avvocato Carlo Longari del foro di Roma per il
CONI che dichiara di essere presente al solo fine di rilevare che il CONI era già stato
estromesso nelle precedenti fasi di merito. E’ presente l’avvocato Paolo Pesciarelli del foro di
Roma per la parte civile Gianluca Lombardo che si riporta ai motivi e nota spese che deposita e
chiede l’inammissibilità o il rigetto del ricorso. E’ presente per la FITA e Pezzolla Marcello
l’avvocato Antonio Buttazzo del foro di Roma che chiede l’annullamento della sentenza
impugnata e si riporta ai motivi di ricorso

1.

RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 8 aprile 2013 il Tribunale di Roma in riforma della sentenza del
giudice di pace di Roma del 22 gennaio 2011 appellata dall’imputato e dal responsabile
civile, dichiarava non doversi procedere nei confronti di Pezzolla Marcello in ordine al
reato lui ascritto per essersi detto reato estinto per intervenuta prescrizione; in parziale
riforma delle statuizioni civili, condannava Pezzolla Marcello ed il responsabile civile
F.I.T.A., in solido tra loro al risarcimento del danno in favore della parte civile Lombardo
Gianluca, danno da liquidarsi definitivamente in separata sede, davanti al giudice civile.
Disponeva in favore del Lombardo una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad
C 50.000,00 ponendone il pagamento a carico del Pezzolla e della F.I.T.A.. Condannava
infine in solido le parti appellanti alla rifusione in favore della parte civile delle spese
relative all’azione civile.
Il Pezzolla era stato tratto a giudizio e condannato in primo grado alla pena di giustizia
per rispondere del reato previsto e punito dall’art. 590 c.p. perché, nella qualità di
allenatore tecnico della nazionale italiana din Tae Kwon Doper, per imprudenza,
imperizia e negligenza, durante l’allenamento degli atleti della nazionale, ometteva di

Data Udienza: 14/02/2014

far indossare all’atleta Gianluca Lombardo il caschetto di protezione, con la
conseguenza che questi, scivolando a terra durante un allenamento “faccia a faccia” con
altro atleta, sbatteva in terra la testa, riportando la frattura occipitale ed un’emorragia
cerebrale, lesioni personali gravi che richiedevano una craniotomia parieto-occipitale
sinistra e dalle quali derivava una malattia che metteva in pericolo la vita della persona
offesa, determinandone anche l’indebolimento permanente dell’udito e la persistente
presenza di anomalie elettriche corticali encefaliche.
2. Avverso tale decisione propongono ricorso il Pezzola e la FITA. Con autonomo atto
congiunto le stesse parti chiedono la sospensione della efficacia esecutiva della disposta
provvisionale.
Il Pezzolla con un primo motivo deduce l’inosservanza dell’art. 129 comma 2 c.p.p. per
aver il Tribunale pronunciato sentenza ex art. 531 c.p.p. pur ricorrendo i presupposti
per una sentenza di assoluzione ex art. 530 c.p.p., in relazione alla erronea
qualificazione normativa del fatto difettando l’elemento oggettivo e soggettivo,
necessari ad integrare la fattispecie di cui all’art. 590 c.p. Contestava in particolare la
ritenuta posizione di garanzia nei confronti degli atleti in quanto questi ultimi,
maggiorenni e professionisti, tra i quali la persona offesa, cintura nera I° Dan, versano
nella condizione e nella capacità di autodeterminarsi e poter scegliere se, durante un
allenamento ove “il colpo non deve essere portato a segno” indossare il casco oppure
no. Sottilineva che nel regolamento ufficiale federale della F.I.T.A. nulla era previsto in
ordine all’obbligo di indossare il casco durante l’allenamento. Deduceva altresì l’assenza
di rapporto causalità tra la condotta omissiva contestata e le lesioni e richiamava il
contenuto del parere del dott. Shahram Sherkat già versato in atti secondo cui il tipo di
lesione riportato dalla persona offesa non è prevenibile da una protezione quale il casco.
Con un secondo motivo di gravame deduceva l’erroneità della pronuncia di condanna
alla rifusione delle spese per l’azione civile, in assenza di soccombenza.
La F.I.T.A. deduce la violazione degli artt. 40, 42 e 590 c.p., l’inosservanza, violazione e
falsa applicazione dell’art. 192 2 comma c.p.p. per mancanza e/o comunque manifesta
illogicità della motivazione e travisamento della prova. Assume che il giudice d’appello
avrebbe errato nel ritenere irrilevante la mancata prescrizione nei regolamenti federali
del caschetto degli allenamenti e nell’aver disatteso il dato di fatto che i colpi al viso
erano esclusi nel corso dell’allenamento e che il Lombardo come pure gli altri atleti
avevano una facoltà di scelta nella scelta dell’abbigliamento da indossare durante gli
allenamenti. Deduce altresì che erroneamente la sentenza impugnata quanto al punto
della scelta della palestra ove svolgere gli allenamenti che non era da addebitarsi al
Pezzolla nonché in ordine alla ritenuta inidoneità della pavimentazione. Deduce ancora
che la tipologia dell’allenamento- contrariamente a quanto ritenuto nella impugnata
sentenza non prevedeva un violento contatto fisico tra gli atleti in quanto vi era divieto
di portare a segno i colpi al viso come avviene invece in gara e che comunque la finalità
del caschetto non era quella di proteggere il capo dalle cadute, bensì di riparare
quest’ultimo dai colpi al volto. Infine assume che la causa della caduta del Lombardo
poteva rinvenirsi probabilmente in un contatto fisico erroneamente posto in essere tra
lo stesso Lombardo ed altro atleta.
3. La parte civile ha depositato memoria difensiva ex art. 121 c.p.p. chiedendo il rigetto
dei ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. I ricorsi possono essere trattati congiuntamente proponendo analoghe questioni in
punto di sussistenza della posizione di garanzia in capo al Pezzolla e di nesso di
causalità.
Va premesso, quanto al primo motivo di gravame del Pezzolla, che per quel che
riguarda il presupposto della evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato ai fini
della prevalenza della formula di proscioglimento sulla causa estintiva del reato, il
giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p.,
comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del
fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte
dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, al punto che
la valutazione da compiersi in proposito appartiene più al concetto di “constatazione”
(percezione ictu oculi), che a quello di “apprezzamento”, incompatibile, dunque, con

qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento; in altre parole, l’ “evidenza”
richiesta dall’art. 129, comma 2, c.p.p. presuppone la manifestazione di una verità
processuale così chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la
correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in
qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia. Tale regola prevede
l’obbligo (recte dovere) dell’immediata declaratoria, d’ufficio, di determinate cause di
non punibilità che il giudice “riconosce” come già acquisite agli atti. Si è di fronte ad una
prescrizione generale di tenuta del sistema, nel senso che, nella prospettiva di
privilegiare l’exitus processus ed il favor rei, s’impone al giudice il proscioglimento
immediato dell’imputato, ove ricorrano determinate e tassative condizioni, che svuotano
di contenuto – per ragioni di merito – l’imputazione, o ne fanno venire meno – per la
presenza di ostacoli processuali (difetto di condizioni di procedibilità) o per l’avverarsi di
una causa estintiva – la effettiva ragion d’essere ». La norma di cui all’art. 129 c.p.p.
non è alternativa ad altre previsioni di analoghi effetti, né entra in conflitto con queste,
ma, affiancando e integrando tali previsioni, definisce meglio, per tempi e modalità, i
poteri decisori del giudice. Altrimenti, a voler privilegiare una formula liberatoria nel
merito, a fronte di una causa estintiva, allorquando si è in presenza di una prova
insufficiente o contraddittoria, si perverrebbe al risultato paradossale che la evidenza di
cui all’art. 129 cpv. c.p.p. ricorrerebbe anche nel caso di ambiguità probatoria ex art.
530, secondo comma, stesso codice: il che determinerebbe una ingiustificata
equiparazione tra una posizione processuale di evidenza di innocenza ed una situazione
processuale di incertezza probatoria. In definitiva, la regola probatoria di cui all’art.
530, comma 2, c.p.p. – cioè il dovere per il giudice di pronunciare sentenza di
assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della
responsabilità – appare dettata esclusivamente per il normale esito del processo che
sfocia in una sentenza emessa dal giudice al compimento dell’attività dibattimentale, a
seguito di una approfondita valutazione di tutto il compendio probatorio acquisito agli
atti; tale regola, giova ribadirlo, non può trovare applicazione in presenza di una causa
estintiva del reato: in una situazione del vale invece la regola di giudizio di cui all’art.
129 c.p.p. in base alla quale, intervenuta una causa estintiva del reato, può essere
pronunciata sentenza di proscioglimento nel merito solo qualora emerga dagli atti
processuali positivamente (risulta evidente ex. art. 129, comma 2, c.p.p.), senza
necessità di ulteriore approfondimento, l’estraneità dell’imputato a quanto contestatogli.
In sostanza, l’art. 129 si muove nella prospettiva di troncare, allorché emerga una
causa di non punibilità, qualsiasi ulteriore attività processuale e di addivenire
immediatamente al giudizio, anche se fondato su elementi incompleti ai fini di un
compiuto accertamento della verità da un punto di vista storico ( cfr. Sez. Un., Conti,
27 febbraio 2002 n. 17179).
D’altra parte, le diffuse e coerenti argomentazioni svolte dal giudice del gravame nella
medesima sentenza ai fini della conferma della responsabilità del Pezzolla in relazione
alle statuizioni civili, nonché da quello di primo grado, escludono qualsiasi possibilità di
proscioglimento nel merito, ex art. 129 c.p.p.„ comma 2, posto che dall’esame di dette
decisioni non emergono elementi di valutazione idonei a riconoscere la prova evidente
dell’insussistenza del fatto contestato alli imputato o della sua estraneità al medesimo.
In fatto la gravata sentenza ha premesso che : risulta innanzitutto pacifico che
l’infortunio oggetto di causa (che ha visto coinvolto la parte offesa Gianluca Lombardo
all’epoca di anni ventuno ed atleta della nazionale italiana di “taekwondo” si è verificato
la mattina del 22 aprile 2004, all’interno di una palestra del C.O.N.I. (sita in Roma, via
dell’Acqua acetosa) ove diversi atleti della nazionale di “taekwondo” (tra cui il
Lombardo Gianluca) si stavano allenando, nel corso delle selezioni per i campionati
europei (che si sarebbero tenuti di lì a poco in Norvegia) sotto il diretto controllo del
maestro-allenatore della F.I.T.A. Pezzolla Marcello, da circa quattro anni tecnicoallenatore della nazionale…. Risulta pacifico che al momento dell’infortunio, per
problematiche di spazio, gli atleti della nazionale si stavano allenando all’interno della
palestra del maneggio dell’Acqua Acetosa e cioè all’interno di una normale palestra (mai
utilizzata in precedenza per quella pratica sportiva), con pavimentazione rigida in
linoleum, priva della specifica protezione costituita dal tatami (materassino di 2,50 cm.
Di spessore, poggiato su di una pavimentazione in legno su cui si svolgono

generalmente gli allenamenti) e che nessuno degli atleti al momento del fatto il
caschetto di protezione non avendo il Pezzo/la dato alcuna disposizione a riguardo
Quanto alla posizione di garanzia del Pezzolla, la sentenza impugnata ha coerentemente
e logicamente argomentato a riguardo.
Deve infatti osservarsi: l’allenatore di una disciplina sportiva è titolare di una posizione
di garanzia, ai sensi dell’art. 40 cod. pen., comma 2 a tutela della incolumità degli
atleti, sia in forza del principio del “neminem laedere”, sia, quando ci si trovi di fronte
ad una attività da qualificarsi pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 cod. civ.. (Cass.
24.1.2006 n. 16698). Ne discende che l’omessa adozione di accorgimenti e cautele
idonei al suddetto scopo in presenza dei quali l’Incidente non si sarebbe verificato od
avrebbe cagionato pregiudizio meno grave per l’incolumità fisica dell’atleta,
costituiscono altrettante cause dell’evento. Posto che l’ attività sportiva del
“taekwondo”(benché non assimilabile alle discipline qualificabili come “sport estremi”
ovvero all’automobilismo od al motociclismo od all’alpinismo) è comunque attività
pericolosa, in ragione dei coessenziali rischi per l’incolumità fisica degli atleti, dalla
stessa derivanti deve affermarsi che la posizione di garanzia di cui l’allenatore è
investito implichi la sicura imposizione di porre in atto quanto è possibile per impedire il
verificarsi di eventi lesivi per coloro che praticano detto sport.
Né il fatto che tali specifiche cautele non fossero espressamente contemplate dal
regolamento federale vale ad escludere la responsabilità del Pezzolla, ove le condizioni
in cui l’allenamento si svolgeva, aggravino i rischi per la salute e l’incolumità degli
atleti. A riguardo peraltro l’impugnata sentenza ha evidenziato come la tipologia
dell’allenamento in atto prevedeva un violento contatto fisico fra gli atleti (sia pure di
minore intensità rispetto al combattimento vero e proprio) e pertanto riproduceva
sostanzialmente lo stesso dinamismo che contraddistingue la gara, con conseguente
necessità dell’adozione di quelle stesse misure precauzionali- caschetto, corazza ecc.prescritte dal regolamento federale; inoltre tanto i testi di accusa (esperti atleti della
nazionale), quanto il teste della difesa Park Young Ghil (già tecnico della nazionale per
le olimpiadi) hanno deposto nel senso che l’utilizzo del casco protettivo costituisce
misura ordinariamente adottata nello svolgimento di allenamenti del genere di quello di
cui trattasi.
Quanto al nesso di causalità, la gravata sentenza, dopo aver ribadito come all’omessa
adozione del casco protettivo, si sia accompagnata nel caso in esame, la circostanza
che l’allenamento si era svolto su superficie assolutamente inidonea, poiché non
soltanto costituita da materiale rigido e scivoloso, tipo linoleum, anziché legno (come
normalmente avviene), ma anche sfornita della necessaria protezione del tatami, ha
espressamente preso in considerazione la consulenza di parte cui si fa cenno nel
gravame della F.I.T.A., affermando che non risulta provato in atti (essendovi invece
prova del contrario: cfr. la deposizione della parte offesa e del teste Belluzzo) che le
lesioni riportate dal Lombardo Gianluca siano imputabili ad uno scuotimento della teca
cranica; in secondo luogo, quand’anche si volesse accedere alla tesi prospettata, è di
intuitiva evidenza il fatto che tale scuotimento sarebbe stato attutito, se non del tutto
scongiurato, dall’utilizzo del casch etto e dalla protezione del tatami e cioè proprio dagli
specifici accorgimenti la cui mancata adozione si contesta all’imputato.
Su tale ultimo aspetto nulla ha osservato la ricorrente F.I.T.A., le cui ulteriori censure
sono comunque inammissibili in quanto tese o ad una diversa valutazione delle prove o
a proporre (peraltro in via del tutto ipotetica) una alternativa ricostruzione della
dinamica dell’episodio.
5. Merita invece accoglimento il secondo motivo di gravame del Pezzolla relativo alla
intervenuta condanna alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio
di appello. Tale statuizione è stata adottata dal giudice del gravame “attesa la
soccombenza” degli appellanti Pezzolla e F.I.T.A., senza che comunque sia stato chiarito
su quali punti detta soccombenza, negata dal ricorrente, che ha evidenziato anzi
l’intervenuto ridimensionamento della valutazione economica del danno riportato dalla
parte offesa, si sia concretamente verificata.
6. Conclusivamente la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla
condanna dell’imputato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio
di appello con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello cui va

demandata anche la regolamentazione delle spese di questo grado di giudizio tra le
parti. Va rigettata ogni altra censura, restando invece assorbito il ricorso ex art. 612
c.p.p. proposto dal Pezzolla e dalla F.I.T.A.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla condanna dell’imputato alla rifusione
delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di appello con rinvio al giudice civile
competente per valore in grado di appello cui rimette anche la regolamentazione delle
spese di questo grado di giudizio tra le parti. Rigetta nel resto ogni altra censura

IL CONSIGLIERE ESTENSORE

Così deciso nella camera di consiglio del 14 febbraio 2014

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