Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31666 del 03/03/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 31666 Anno 2015
Presidente: LAPALORCIA GRAZIA
Relatore: BRUNO PAOLO ANTONIO

SENTENZA

Sui ricorsi proposti da

1. BANDIERA Angelo, nato a Sommariva del Bosco il 04/02/1972
2. BANDIERA Gaetano, nato a Carmagnola il 08/08/1967
3. CARIDI Giuseppe, nato a Taurianova il 28/01/1957
4. CERAVOLO Fabrizio, nato a Canale il 15/03/1969
5. COLOCA Roberto, nato a Mondovì il 14/03/1981
6. DILIBERTO MONELLA Luigi, nato ad Asti il 23/11/1984
7. DILIBERTO MONELLA Stefano nato a Milena il 06/10/1957
8. GARIUOLO Luigi, nato a Bra il 19/07/1972
9. GARIUOLO Michele, nato a Bra il 30/01/1969
10. GUZZETTA Damiano, nato ad Asti il 12/05/1971
11. INI Giuseppe, nato a Carignano il 04/01/1979
12. MAIOLO Antonio, nato ad Oppido Mamertina il 02/01/1940
13. PERSICO Domenico, nato a Seminara il 16/03/1949
14. PRONESTI’ Bruno Francesco, nato a Cinquefrondi il 19/02/1949
16. REA Romeo, nato a Napoli il 03/03/1962
avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino del 10 dicembre 2013;

Data Udienza: 03/03/2015

visti gli atti, la sentenza impugnata ed i ricorsi;
letta la memoria difensiva depositata dall’avv. Giorgio Scagliola nell’interesse di Fabrizio
Ceravolo;
udita la relazione del consigliere dr. Paolo Antonio Bruno;
sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Mario Pinelli, che
ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio nei confronti di Pronestì limitatamente al
reato di porto di cui al capo B)ed il rigetto nel resto di tale ricorso, ed il rigetto di tutti gli altri

sentiti, altresì, l’avv. Aldo Mirate, difensore di Maiolo e sostituto processuale dell’avvv.
Demetrio Cristofori, difensore di Bandiera Angelo e Bandiera Gaetano; l’avv. Gianpaolo
Zancan, difensore di Gariuolo Luigi e Romeo Sergio; l’avv. Carlo Maria Romeo, difensore di
Gariuolo Michele, Persico e Ceravolo e sostituto processuale dell’avv. Pierfrancesco Bertolino,
difensore di Coloca, mi e Ceravolo; l’avv. Giovanni Nigra, difensore di Diliberto Monella
Stefano, Diliberto Monella Luigi e Guzzetta Damiano; l’avv. Luca Gastini, difensore di Pronestì;
l’avv. Licia Sardo, difensore di Caridi Giuseppe anche in sostituzione dell’avv. Agostino Goglino,
che hanno chiesto l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Le persone in epigrafe nominate erano chiamate a rispondere, innanzi al Tribunale di
Torin9, dei reati di seguito indicati:
A) ai sensi dell’art. 416 bis., commi 1, 2,3, 4, 5e 6 cod. pen. perché facevano parte, insieme
ad altre persone (alcune delle quali allo stato non ancora individuate) dell’associazione di
stampo mafioso denominata ‘ndrangheta operante da anni sul territorio piemontese, collegata
con le strutture organizzative della medesima compagine insediata in Calabria e costituita in
articolazioni territoriali denominate “locali”; in particolare, per avere operato all’interno
dell’articolazione territoriale operante nel basso Piemonte (zona territoriale compresa tra i
Comuni di Novi ligure, Alba, Sommaria del Bosco e Asti), nella quale:
Pronestì Bruno rivestiva il ruolo e la qualità di capolocale, dirigendo e riorganizzando il
sodalizio, assumendo le decisioni più rilevanti, impartendo le disposizioni o comminando
sanzioni agli altri associati a lui subordinati, decidendo e partecipando ai riti di affiliazione
curando i rapporti con le altre articolazioni dell’associazione (ed in particolare con il locale di

Genova), dirimendo contrasti interni ed esterni al sodalizio, curando i rapporti con gli esponenti
apicali delle organizzazioni criminali sedenti in Calabria.
Persico Domenico, Maiolo Antonio e Guzzetta Damiano (quest’ultimo avente la carica di
“maestro di giornata” del locale)

rivestivano il ruolo di elementi di vertice del locale,

partecipando ad assumere le decisioni più rilevanti, impartendo disposizioni, partecipando ai
riti di affiliazione, curando i rapporti con le altre articolazioni dell’associazione, dirimendo
contrasti interni ed esterni al sodalizio.

ricorsi;

t

Gariuolo Michele, Gariuolo Luigi, (avente la carica di “picciotto di giornata”) Diliberto Monella
Stefano, Ceravolo Fabrizio, Bandiera Angelo, Bandiera Gaetano (avente la carcica di “capo
giovani”), Caridi Giuseppe, Coloca Roberto (avente la carica di “puntaiolo”), Diliberto Monella
Luigi, mi Giuseppe, Rea Romeo e Romeo Sergio rivestivano qualità di partecipi attivi de/locale,
svolgevano il compito di assicurare le comunicazioni tra gli associati, partecipare alle riunioni
ed eseguire le direttive dei vertici della società e dell’associazione, riconoscendo e rispettando
le gerarchie e le regole interne al sodalizio;

di assoggettamento ed omertà che ne deriva, allo scopo di:
commettere delitti in materia di armi, esplosivi e munizionamento, contro il patrimonio, la vita
e l’incolumità individuale, in particolare commercio di sostanze stupefacenti, estorsione; furti,
abusivo esercizio di attività finanziaria, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita
in attività economiche, corruzione e favoreggiamento, corruzione e coercizione elettorale,
intestazione fittizia dei beni, ricettazione, omicidi;
acquisire direttamente ed indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche, in
particolare nel settore edilizio, movimento terra, ristorazione;
acquisire appalti pubblici e privati;
Ostacolare il libero esercizio del voto, procurare a sé e ad altri voti in occasione di competizioni
elettorali, convogliando in tal modo le preferenze su candidati al loro vicini in cambio di future
utilità;
conseguire per sé e per altri vantaggi ingiusti.
Con l’aggravante di essere l’associazione armata.
B) Il solo Pronestì:
del delitto di cui agli artt. 110 e 697 cod. pen. e 10 e 14 legge n. 497/74, art. 7 d.l. n. 151/92
perché, in concorso con altra persona non identificata, senza l’autorizzazione, deteneva e
portava in luogo pubblico un un’arma comune da sparo e relativo munizionamento;

con

l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’associazione `ndranghetistica di
appartenenza.
Con la recidiva semplice per Coloca Roberto, Gariuolo Michele, Diliberto Monella Stefano.
Con la recidiva infraquinquennale per Guzzetta Damiano e Gariuolo Luigi.
Con la recidiva reiterata e specifica di cui all’art. 99 per Pronestì Bruno Francesco e Maiuolo
Antonio.
Con la recidiva infraquinquennale, reiterata e specifica di cui all’art. 99 per mi Giuseppe e Rea

Romeo.
Con sentenza del 6 ottobre 2012, il Tribunale assolveva gli imputati dal reato di cui al
capo A), ai sensi degli artt. 438 ss e 530, comma secondo, cod. proc. pen., con formula perché
il fatto non sussiste; dichiarava Pronestì Bruno Francesco colpevole dei reati a lui ascritti al
capo B) e lo condannava alla pena, ridotta per il rito, di anni uno e mesi sei di reclusione, oltre
consequenziali statuizioni;

associazione che si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione

Pronunciando sul gravame proposto dal Procuratore della Repubblica di Torino, Ila Corte
d’appello di quella stessa città, con la sentenza indicata in epigrafe, riformava la sentenza
impugnata, dichiarando gli imputati colpevoli di reati loro rispettivamente ascritti e, per
l’effetto, con la diminuente di rito, li condannava alle seguenti pene:
Pronestì Francesco Bruno: anni sette e mesi sei, previa unificazione dei reati a lui contestati
sotto il vincolo della continuazione e con la concessione delle attenuanti generiche equivalenti
alle contestate aggravante e recidiva;
Maiolo Antonio: anni sei di reclusione, con la concessione delle attenuanti generiche

Persico Domenico anni sei di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti alla
contestata aggravante:
Rea Romeo; anni cinque e mesi quattro di reclusione, con il riconoscimento delle attenuanti
generiche equivalenti all’aggravante e recidiva contestate.
Ceravolo Fabrizo, Coloca Roberto e Garaluolo Michele: anni cinque e mesi quattro di
reclusione ciascuno, con il riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di
equivalenza rispetto all’aggravante contestata e, quanto al Coloca ed al Gariuolo, alla recidiva;
mi Giuseppe: anni quattro e mesi otto un reclusione, con riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto all’aggravante ed alla recidiva
Contestate;
Bandiera Angelo, Bandiera Gaetano, Caridi Giuseppe e Romeo Sergio: anni quattro e
mesi otto di reclusione ciascuno, con il riconoscimento delle attenuanti generiche in rapporto di
equivalenza all’aggravante contestata;
Guzzetta Damiano: anni quattro di reclusione, con per il riconoscimento delle generiche con
giudizio di prevalenza rispetto all’aggravante ed alla recidiva contestata;
Diliberto Monella Luigi, Diliberto Mondlla Stefamo e Guraiuolo Luigi: anni tre mesi uno
e giorni dieci di reclusione ciascuno, con il riconoscimento delle attenuanti generiche con
giudizio di prevalenza rispetto all’aggravante e, quanto a Diliberto Monella Stefano e Gariuolo
Luigi, alla recidiva contestata:
oltre alle pene accessorie delle misure di sicurezza della libertà vigilata per la durata non
inferiore ad un anno e consequenziali statuizioni.
Avverso la pronuncia anzidetta i difensori di Angelo e Gaetano Bandiera, avv. Domenico
Cristofori; di Giuseppe Caridi, avv. Agostino Goglino; di Giuseppe mi e Roberto Coloca, avv.
Pierfranco Bertolino; di Damiano Guzzetta, Luigi Diliberto Monella e Stefano Diliberto Monella,
‘avv. Giovanni Nigra; di Luigi Gariuolo e Sergio Romeo, avv. Giampaolo Zancan; dello stesso
Romeo, avv. Giuseppe Cormaio; di Michele Gariuolo e di Domenico Persico, avv. Carlo Maria
Romeo; di Antonio Maiolo, avv. Aldo Mirante; di Bruno Francesco Pronestì, avv. Luca Gastini;
di Romeo Rea, avv. Mauro Anetrini; di Fabrizio Ceravolo, avv. Giorgio Scagliola, hanno
proposto distinti ricorsi per prestazione, ciascuno affidato alle regioni di censure di seguito
indicate.

equivalenti alle contestate aggravante e recidiva;

In favore di Angelo Bandiera si eccepisce mancanza, contraddittorietà e/o manifesta
illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., con riferimento agli
artt. 192 e 530, comma 2, del codice di rito. Si contesta, al riguardo, la ritenuta idoneità delle
circostanze utilizzate a sostegno dell’ipotizzata partecipazione associativa dell’imputato.
Lamenta, inoltre, che il riconoscimento vocale, da parte dell’operante di p.g., non sia stato
confermato da una perizia fonica pur espressamente richiesta dalla difesa e ritenuta opportuna
dallo stesso Pm. Non era, dunque, certa la partecipazione alla pretesa riunione e, ad ogni

ragiooe della partecipazione di donne, tra cui la moglie del Pronestì, e di altri commensali non
indagati; a tutto concedere, in base a quanto era stato ritenuto per il Pronestì, si trattava della
costituzione di una società minore, che non era vera ‘ndrangheta. Nessuna valenza sintomatica
avrebbe potuto attribuirsi alla la partecipazione al matrimonio di Antonio Maiolo. In definitiva,
mancava del tutto la prova di un contributo causale del ricorrente al mantenimento del
sodalizio delinquenziale, non essendo dimostrato lo status dell’appartenenza né la commissione
di alcun reato fine. Si sarebbe, semmai, trattato di mera adesione psicologica inidonea a
sostanziare l’accusa di partecipazione mafiosa.
In favore di Gaetano Bandiera si deducono identiche ragioni di censura. Nello
specifico, si rappresenta che l’imputato non aveva neppure preso parte alla riunione in casa del
Pronestì ed il suo coinvolgimento era stato affermato solo sulla base di generici riferimenti, da
parte di partecipanti alla riunione del 30 maggio, ad un non meglio specificato Gaetano,

asserito fratello del “muratore” (ove invece Angelo Bandiera svolgeva attività di piastrellista) e
dal fatto che Michele Garaiuolo, riferendosi a tale “Gaetano”, l’avrebbe indicato come “capo dei
giovani”. Non risultava da alcunché che egli avesse accettato un simile incarico né v’era prova
di alcun contributo effettivo al mantenimento del sodalizio delinquenziale. Sicché, il solo indizio
a carico dell’imputato era rappresentato dalla partecipazione al matrimonio di Antonio Maiolo,
circostanza questa assolutamente insufficiente ai fini dell’affermazione di colpevolezza per il
delitto di partecipazione mafiosa.
In favore di Giuseppe Caridi si denuncia, con il primo motivo, inosservanza e/o
erronea applicazione dell’art. 416 bis cod. pen., ai sensi dell’art. 606 lett. b) del codice di rito.
Si contesta, al riguardo, la ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di
associazione per delinquere di stampo mafioso, ritenendosi inidonea la valutazione del giudice
di appello che aveva ingiustamente ribaltato il giudizio di primo grado, formulato sulla base di
un’approfondita analisi della fattispecie. Nel caso di specie, infatti, non si verteva in tema di
associazione per delinquere mafiosa, neppure allo stato embrionale del tentativo né di
associazione ordinaria e, in proposito, si richiamano precedenti giurisprudenziali di questa
Corte regolatrice.
Con il secondo motivo si deduce contraddittorietà e/o manifesta illogicità della
motivazione nella parte in cui aveva ritenuto operante nel basso Piemonte una consorteria
mafiosa soggetta alla direzione ed alla determinazione di personaggi residenti in Rosarno, ai

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modo, nessun elemento induceva a ritenere che quell’incontro fosse un summit, anche in

sensi dell’art. 606 lett. e). Si duole, in particolare, che all’obiezione difensiva riguardante la
mancanza di prova della capacità intimidatrice di un preteso sodalizio operante nel basso
Piemonte (senza peraltro specificazione degli atti attraverso cui si sarebbe manifestata la
pretesa “autonomia organizzativa ed operativa”) abbia fatto generico riferimento alla forza
intimidatrice della ‘ndrangheta calabrese, ed in particolare alla caratura di tale Domenico
Oppedisano, soggetto che viveva ed operava in Rosarno, peraltro neppure indagato nel
presente procedimento.
Con il terzo motivo si denuncia travisamento della prova ed omessa valutazione di
prove decisive in ordine alla partecipazione del ricorrente al sodalizio mafioso, ai sensi dell’art.
606 lett. e). Si lamenta, al riguardo, che agli atti non v’era il benché minimo elemento di prova
di consapevolezza e, segnatamente, di appartenenza alla locale di Alessandria presieduta da
Bruno Pronestì. Infatti, gli elementi utilizzati dal giudice di appello erano tratti da captazioni
telefoniche ed ambientali di conversazioni intercorse tra terze persone. Infondatamente, si era
ritenuto che la cerimonia d’investitura dell’imputato fosse avvenuta il 28 febbraio 2010 presso
la sua abitazione per il fatto che i cellulari di determinati coimputati e di altre persone avessero
agganciato celle limitrofe alla via Filippona, ove era ubicata la detta abitazione. Ben nota,
tuttavia, era, l’inaffidabilità del dato investigativo, in sé considerato, posto che la cella
telefonica copre una zona estesa qualche chilometro e che, quando la stessa è satura, il
cellulare aggancia automaticamente una cella limitrofa ancora più vasta. Contrariamente
all’assunto espresso dal giudice di legittimità in sede cautelare, la determinazione del luogo di
svolgimento della cerimonia era rilevante, posto che, ove la stessa si fosse svolta in casa
dell’imputato, era pressoché certa la sua partecipazione, che, diversamente restava
indimostrata.
Particolarmente significativa, inoltre, era la mancata partecipazione del Caridi alla riunione
conviviale in casa del Pronestì, in ordine alla quale la giustificazione offerta dai presenti, così
come intercettata dagli inquirenti nel corso della captazione ambientale, sarebbe stata quella
della necessità per lo stesso imputato di partecipare ad un battesimo di un suo cugino. È
evidente, infatti, che, ove effettivamente fosse stato un componente del sodalizio mafioso,
peraltro appena affiliato, secondo la prospettazione accusatoria, l’imputato non avrebbe potuto
addurre una scusa tanto banale. Peraltro, in considerazione del fatto che, nell’occasione, erano
presenti anche donne, tra cui la moglie del Pronestì, la riunione non avrebbe potuto avere
carattere di summit, trattandosi, piuttosto, di incontro conviviale cui l’imputato era stato
invitato solo in qualità di politico. Era significativo, del resto, che, al termine di quella riunione
nel corso della quale sarebbero state conferite ai presenti determinate cariche e si sarebbe
convenuto sulla necessità di riconvocazione della stessa riunione, tra le persone da avvisare
non fosse stato menzionato l’odierno ricorrente.
Era stato, inoltre, chiaramente travisato l’episodio dell’alterco tra lui ed il consigliere comunale
Paolo, Bellotti, peraltro in ambito politico ed istituzionale, essendosi trattato soltanto di un

c

o

gesto reattivo, mediante lancio di una sedia in direzione di quest’ultimo) provocato da
un’ingiuria che lo stesso Bellotti gli aveva rivolto (quaquaraqua).
D’altronde, ove il giudice di appello avesse considerato che il contenuto delle captazioni
in atti non era in alcun modo significativo; che tal Gangemi, ritenuto capo della locale
‘genovese, pochi minuti dopo la cerimonia del 28 febbraio 2010, aveva definito l’imputato
ancora “un giovanotto”, che nel gergo ‘ndranghetista significa soggetto di interesse, ma non
ancora affiliato; che lo stesso imputato non aveva mai partecipato alle riunioni né era stato

alcunpcarico e che, pur in sua assenza “il mastro di giornata” aveva ritenuto che i componenti
della locale fossero tutti presenti; assai difficilmente avrebbe emesso sentenza di condanna nei
suoi confronti.
Con il ricorso in favore di Damiano Guzzetta, Luigi Diliberto Monella e Stefano
Diliberto Monella si lamenta che il giudice di appello abbia ritenuto sussistere la fattispecie
delittuosa di cui all’art. 416 bis cod. pen. indipendentemente dalla verifica dei presupposti
costitutivi, segnatamente dell’effettiva capacità intimidatrice, ritenendo che, all’uopo, fosse
sufficiente l’accertato collegamento tra l’aggregazione delinquenziale e la casa madre.
Con unico motivo si denuncia, quindi, la violazione dell’anzidetta norma sostanziale, ai
sensi dell’art. 606 lett. b). Entrambe le sentenze, di primo e secondo grado, erano concordi nel
ritenere che l’accusa avesse fornito prove rassicuranti in merito all’esistenza di un locale di
‘indrangheta nel basso Piemonte. Sennonché, vi era in atti una dichiarazione scritta, con la
quale ciascuno degli odierni ricorrenti aveva ammesso la partecipazione al sodalizio. Si poneva,
pertanto, il quesito se essere ‘ndranghetista equivalesse a “fare” il ‘ndranghetista. Si poneva,
inoltre, il problema di accertare se il cosiddetto locale del basso Piemonte avesse assunto
connotati propri della ‘ndrangheta della terra di origine.
Erroneamente, il giudice di appello aveva ritenuto che non fosse necessario che
l’organizzazione delinquenziale avesse esplicato la potenzialità delinquenziale ai fini della
configurabilità del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., contrariamente al convincente assunto
del primo giudice. Nel caso di specie, nessuna manifestazione esterna del preteso sodalizio si
era registrata nell’arco di tempo di oltre un anno dalla presunta costituzione del sodalizio, con
riferimento alla riunione del 30 maggio 2010 sino all’emissione dell’ordinanza di custodia
cautelare. Insignificanti erano le circostanze addotte dal giudice di appello, come la mera
Manifestazione di solidarietà in favore di Fabrizio Ceravolo, il sostenimento delle spese legali,
ovvero l’alterco verificatosi in consiglio comunale fra il Caridi ed altro consigliere. Inoltre,
inidonei erano gli elementi di fatto a sostegno della ritenuta disponibilità di armi, sulla base del
possesso di una pistola da parte del Pronestì e di un risalente possesso di arma in capo al
Ceravolo. Né gli atti processuali dimostravano che nella collettività fosse diffuso un alone di
intimidazione. Il giudice d’appello non aveva, inoltre, verificato il necessario elemento
soggettivo della consapevolezza di partecipare ad un sodalizio delinquenziale o dell’effettiva
disponibilità di ciascuno in favore dell’associazione.

f.

invitato al matrimonio di Giuseppe Riotto né di Antonio Maiolo; che non gli era stato conferito

Il ricorso in favore di Luigi Gariuolo e Sergio Romeo denuncia, con il primo motivo,
erronea applicazione della legge penale, contraddittorietà della motivazione in relazione alla
ritenuta responsabilità ai sensi dell’art. 416 bis

cod. pen. Si dubita, in sostanza, della

sussistenza dei presupposti costitutivi del reato associativo, indipendentemente
dall’esteriorizzazione della capacità di intimidazione nascente dal vincolo associativo.
Illogicamente, il presupposto era stato ritenuto connesso al collegamento con unitaria
organizzazione nonostante la mancanza di elementi probatori. Richiama, in proposito, la
giurisprudenza di questa Corte di legittimità.

partecipazione dei due ricorrenti all’associazione mafiosa, nonostante la mancanza di affidabili
elementi di prova di adesione, permanente e volontaria, al sodalizio, occorrendo la prova
dell’incondizionata disponibilità a servire interessi non particolari, ma della consorteria.
Il ricorso proposto dall’avv. Cormaio in favore dello stesso Romeo propone, con il primo
motivo, identica questione sostanziale in ordine alla configurabilità dell’art. 416 bis cod. pen. di
cui, nella fattispecie, mancherebbero i presupposti, alla luce dei precedenti giurisprudenziali
specificamente indicati.
Il secondo motivo deduce contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione
nella parte in cui, da un lato, si sostiene l’esistenza di una consorteria mafiosa operante nel
basso Piemonte e dall’altro, pur in presenza di un’autonoma capacità intimidatoria, spiega una
siffatta capacità con il preteso collegamento del sodalizio con la casa madre.
Con il terzo motivo si denuncia mancanza di motivazione o illogicità o travisamento
della prova con riferimento alla riunione del 30 maggio 2010.
Con il quarto motivo si denuncia mancanza di motivazione nella parte in cui si nega la
concessione delle attenuanti generiche in rapporto di prevalenza sull’aggravante contestata,
stante il comportamento processuale, l’incensuratezza e lo stile di vita dell’imputato e non era
stata esaminata la richiesta di derubricazione del fatto critto al capoA) ai sensi dell’art. 418
cod. pen. (assistenza agli associati).
Il ricorso in favore di Michele Gariuolo denuncia inosservanza ed erronea applicazione
dell’art. 416 bis cod. pen.; travisamento della prova; mancanza o contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione in quanto l’affermazione secondo la quale nel basso Piemonte
avrebbe operato una struttura `ndranghetista sottordinata alla

‘ndrangheta

(Provincia o

Crimine) radicata in Calabria era rimasta allo stadio di mera congettura, in mancanza di
qualsiasi riscontro probatorio. Tale non poteva ritenersi la conversazione captata in proprietà di
Oppedisano Domenico, ritenuto elemento di spicco della mafia calabrese, nel corso della quale
tale Rocco Zangrà e l’odierno ricorrente avrebbero chiesto allo stesso Oppedisano il permesso
di costituire un autonomo “locale” di ‘ndrangheta in Alba .
Con il secondo motivo si denuncia inosservanza od erronea applicazione dello stesso
art. 416 bis, comma secondo, cod. pen.; mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità
della motivazione. Erroneamente, il giudice di appello aveva ritenuto che, ai fini della

Denuncia, inoltre, mancanza e contraddittorietà di motivazione in ordine alla ritenuta

sussistenza del reato associativo di stampo mafioso, non fosse necessario l’accertamento in
concreto dell’esercizio di capacità intimidatrice, potendo tale presupposto ricavarsi dal
collegamento con la casa madre, ovverosia con la struttura criminale operante in Calabria di
cui le locali del Nord Italia sarebbero mera promanazione, pur dotate di autonomia
organizzativa ed operativa. Inoltre, il metodo mafioso doveva essere inteso come
“esternalizzazione” di capacità intimidatrice quale elemento strutturale della fattispecie. Nel
caso di specie, mancava la prova che l’associazione criminosa si fosse già avvalsa della forza di

deriva; e vi fossero state manifestazioni di metodo mafioso in ambito geografico, quale il basso
Piemonte, notoriamente refrattario; che fosse

aliunde dimostrata una tale diffusione di

consapevolezza della capacità criminale dell’associazione da tendere inutile la prova della sua
sussistenza.
Con il terzo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 416 bis,
comma secondo, cod pen.; mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione; violazione dell’art. 192 cod, proc. pen. Non v’era prova di effettiva partecipazione
del ricorrente, mediante contributo causale, ancorché minimo, al mantenimento ed
o

all’operatività del sodalizio. La semplice adesione formale ad una consorteria, in assenza di
fattivo contributo, non avrebbe potuto considerarsi condotta penalmente rilevante, in quanto in
tal caso veniva a mancare l’affectio societatis, persistente oltre l’iniziale accordo, in vista della
realizzazione del programma criminoso.
Con il quarto motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione dello stesso art.
416 bis, comma quattro, e difetto motivazionale. Si contesta, al riguardo, la ritenuta
sussistenza dell’aggravante del carattere armato del sodalizio, desunto dal fatto che un sodale,
Fabrizio Ceravolo, era stato trovato in possesso di una pistola clandestina e del fatto che Bruno
Francesco Pronestì, ritenuto elemento apicale della consorteria, era stato intercettato mentre
informava un interlocutore non identificato di avere acquistato una pistola. Mancava, però, una
prova adeguata della disponibilità di armi da parte dell’organizzazione e della consapevolezza
degli associati in ordine alla disponibilità dello stesso armamento.
Il ricorso in favore di Antonio Maiolo denuncia, con il primo motivo, difetto di
motivazione, secondo la nuova formulazione dell’art. 606 lett. e). Deduce, in proposito, che a
carico dell’imputato era stata addotta una presunta ammissione “di aver fatto parte
dell’associazione in discorso”, contenuta nella dichiarazione scritta depositata all’udienza del 13
aprile 2012 innanzi al GUP. Era sufficiente, però, leggere la stessa dichiarazione per escludere
Che il Maiolo avesse inteso rendere confessione; del resto, la stessa sentenza riconosceva che
“il 26 luglio 2011 Maiolo negò di appartenere alla

‘ndrangheta”; l’odierno ricorrente aveva

inteso solo ammettere “fatti storici” e non certo la qualificazione giuridica da attribuire a quei
fatti (consistenti nei contatti con Pronestì; nei rapporti di conoscenza con il Guzzetta, lo Zangrà
ed altre persone; nella partecipazione alla riunione conviviale del 30 maggio 2010 in Bosco
Marengo ed in altre circostanze indicate alle pagine 71 e 73 della sentenza impugnata).

intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne

Con il secondo motivo si denuncia difetto od illogicità di motivazione in ordine al
Contestato reato associativo. Erroneamente, era stato ritenuto che la capacità di intimidazione
si connettesse alla dipendenza della locale dalla casa madre e mutuasse da essa la forza di
intimidazione. Nel caso di specie, invece, non risultavano provati gli elementi costitutivi del
reato in contestazione.
Con il terzo motivo si denuncia difetto di motivazione in relazione allo stesso art. 416
bis cod. pen. Illogicamente il carattere mafioso era stato desunto dall’episodio che aveva
contrapposto il Caridi ad altro consigliere comunale di Alessandria, consistente, peraltro, in una

stesso Caridi e la sua qualità non erano mai state strumentalizzate dagli altri sodali.
Si sostiene, inoltre, con richiamo a precedenti giurisprudenziali di legittimità, che la
“mafiosità meramente potenziale”, in mancanza di “esternalizzazione” della capacità di
intimidazione e di assoggettamento, non era sufficiente alla configurazione del reato in
questione.
Con il quarto motivo si denuncia vizio di legittimità con riferimento agli artt. 416 bis,
comma quinto e 59 cod. pen.; erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità
della stessa. Si osserva, al riguardo, che le circostanze in forza delle quali era stata ritenuta
l’aggravante dell’associazione armata erano del tutto inidonee. Peraltro, non era sufficiente,
all’uopo, che uno o più associati possedessero un’arma, essendo invece necessario che le armi
stesse fossero a disposizione del sodalizio e ciacun componente ne fosse consapevole, secondo
quanto prescritto dal richiamato art. 59 cod. pen.
Il ricorso in favore di Domenico Persico deduce quattro motivi identici a quelli proposti
in favore di Michele Gariuolo.
Con un quinto motivo si deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 416 bis,
comma 2, cod. pen; mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Contesta, in particolare, l’attribuzione all’imputato del ruolo di dirigente o organizzatore in
mancanza di prova che fosse stato promotore della “locale”; ruolo, questo, che avrebbe dovuto
essere attribuito non già in base all’astratta importanza della figura dello stesso all’interno
della consorteria criminale, bensì al contenuto delle funzioni che avrebbe esercitato,
impartendo ordini e/o direttive agli altri sodali.
Con il primo motivo del ricorso in favore di Bruno Francesco Pronestì si eccepisce
nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen., per erronea
applicazione della legge penale (art. 416

bis cod. pen.), mancanza, contraddittorietà o

manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla estrinsecazione del metodo mafioso.
Si osserva, al riguardo, che la sentenza di appello differiva da quella di primo grado
esclusivamente in ordine all’interpretazione del requisito della c.d. “esteriorizzazione” del
metodo mafioso. Erroneamente, il giudice di appello aveva ritenuto di poter desumere la
capacità di intimidazione dal collegamento con la casa madre. Tale interpretazione era stata
già confutata da questa Corte regolatrice con sentenza n. 353 del 20 dicembre 2013

mera reazione ad una provocazione ricevuta. Del resto, l’elezione a consigliere comunale dello

(depositata 27 marzo 2004). Infondatamente, inoltre, il metodo mafioso era desunto
dall’episodio dell’alterco intercorso fra i consiglieri comunali Caridi e Bellotti ed erano state
valorizzate le dichiarazioni de relato di quest’ultimo, che aveva riferito come un altro
ponsigliere, Vincenzo De Marte, appartenente allo stesso gruppo politico ed anch’egli calabrese,
l’avrebbe esortato a non denunciare il fatto ed a riappacificarsi con lo stesso Caridi,
chiedendogli scusa.
Con il secondo motivo si eccepisce nullità della sentenza per erronea applicazione delle

contràddittorietà o manifesta illogicità di motivazione in ordine alla prova relativa alla
detenzione dell’arma da parte dell’imputato (capo B), non potendo ritenersi sufficiente il
colloquio captato con persona rimasta ignota riguardo all’acquisto dell’arma, alla dotazione di
proiettili ed al luogo ove era stata nascosta. Nulla, però, era emerso sulle modalità
dell’acquisto (che, peraltro, sarebbe avvenuto mediante consegna da parte del terzo nella
dimora del Pronestì, escludendosi così ogni possibilità di ritenere commesso il porto di arma),
di talché la sentenza avrebbe dovuto essere annullata senza rinvio con riferimento alla seconda
condotta contestata (relativa proprio al porto). Ad ogni modo, la mera affermazione del
ricorrente non era sufficiente ai fini dell’affermazione di colpevolezza, in mancanza del
reperimento all’esito negativo della perquisizione domiciliare, nel corso della quale non erano
state rinvenute armi oltre a quelle legittimamente detenute, non potendosi escludere una mera
millanteria dello stesso ricorrente per enfatizzare la sua caratura di mafioso.
Con il terzo motivo si eccepisce nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 606
lett. e) in relazione all’art. 125 cod. pen., per mancanza di motivazione con riferimento al
mancato accoglimento della richiesta volta adottenere il riconoscimento delle attenuanti
generiche prevalenti sulle contestate aggravanti e recidiva. Il più favorevole trattamento
sanzionatorio avrebbe potuto essere concesso in considerazione del comportamento
processuale dell’imputato.
Inoltre, ove la sentenza fosse annullata in relazione al capo A), il giudizio di comparazione tra
le attenuanti generiche e l’aggravante contestata al capo B) verrebbe automaticamente meno,
con conseguente necessità di riduzione della pena,da rideterminare in sede di rinvio.
Diversamente, qualora fosse confermata l’interpretazione del giudice di appello in ordine alla
c.d. mafia silente, tale da consentire l’addebito associativo ex art. 416 bis cod. pen., avrebbe
dovuto riconoscersi che, in mancanza di esteriorizzazione del metodo mafioso, l’aggravante in
questione doveva essere riconsiderata onde pervenire ad un più equilibrato rapporrto di
comparazione.
Il ricorso in favore di

Romeo Rea

denuncia, con il primo motivo, erronea

interpretazione dell’art. 416 bis cod. pen., con riferimento all’errata esegesi del c.d. metodo
mafioso ed alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi dell’ipotizzata fattispecie
delittuosa, con richiamo a precedenti giurisprudenziali di questa Corte di legittimità.

1I

disposizioni di cui all’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. e per mancanza

Erroneamente, inoltre, il convincimento in ordine al metodo mafioso era stato tratto
dall’asserita disponibilità di armi, trattandosi di una circostanza di fatto ulteriore, capace solo di
àcuire il disvalore di un fatto reato, in sé, già accertato. L’assunto argomentativo secondo cui
nuove acquisizioni investigative (con particolare riferimento alle operazioni “Crimine” di Reggio
Calabria e “Infinito” di Milano avrebbero dimostrato che la

‘ndrangheta

non è mera

denominazione, di carattere sociologico, di consorterie criminali indipendenti l’una dall’altra,
ma organizzazione unitaria, con proprie articolazioni territoriali (c.d. “locali”), coordinate da un
organismo sovraordinato, denominato “provincia” o “crimine”. L’affermazione era illegittima
cod. pro.c. pen., che consente la valutazione del fatto storico

accertato in sentenze emesse in altri procedimenti purché divenute irrevocabili.
Erroneamente. la connotazione mafiosa era stata desunta dall’alterco tra i consiglieri comunali
Giuseppe Caridi e Paolo Bellotti, in ordine al quale, peraltro, erano evidenti contraddittorietà di
ricostruzione alla luce della testimonianza del De Marte e, comunque, la relativa violazione non
era rispettosa dei canoni di giudizio di cui all’art. 192, comma terzo, del codice di rito.
Infondatamente, inoltre, si era ritenuto di poter desumere la partecipazione soggettiva
dell’odierno ricorrente dal contenuto di intercettazioni ambientali, e segnatamente da quella
del 22 agosto 2010, all’interno della sua abitazione e da altre specificamente indicate.
Era illogico, poi, trarre ulteriori elementi di conferma dai suoi precedenti per violazione delle
misure di prevenzione e fatti di estorsione.
Pure erroneo era il riconoscimento dell’aggravante dell’essere l’associazione armata sulla base
dall’accertato possesso di una pistola, da parte di un coimputato, e dell’intercettazione
ambientale di una conversazione intercorsa tra lo stesso Pronestì e persona rimasta
sconosciuta, nel corso della quale egli avrebbe confidato di avere acquistato una pistola ed
infine dalla legittima detenzione di armi da parte del genero Guerrisi. Secondo il richiamato
insegnamento giurisprudenziale legittimità (Sez. 2,8.1.2009, n. 13682) la disponibilità delle
armi avrebbe dovuto, comunque, essere funzionale al perseguimento dei fini dell’associazione
mafiosa.
Il ricorso in favore di Fabrizio Ceravolo deduce,(bn il primo motivo, mancanza,
contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, sul rilievo che, infondatamente, era
stata attribuita valenza dimostrativa alle circostanze indicate in sentenza, senza considerare
che l’imputato non aveva preso parte alla riunione del 30 maggio 2010 presso l’abitazione del
Pronestì in Alessandria; che, nel corso della riunione, non si era fatto alcun riferimento alla sua
persona e che non era stato neppure menzionato tra le persone che avrebbero dovuto essere
riconvocate per una prossima riunione In definitiva, mancava del tutto la prova della sua
partecipazione al sodalizio delinquenziale
Ad ogni modo, la valutazione delle emergenze processuali era erronea e contrastante con l’art.
cod. proc. pen, come dedotto con il secondo motivo.
Con il terzo motivo si deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale, con
riferimento agli artt. 416 bis, commi 3 e 6 cod. pen. e dell’art. 521 cod. proc. pen.

alla luce dell’art. 238 bis

44

Si sostienem in proposito, che la mancata partecipazione dell’imputato alle riunioni mafiose
del 30 agosto 2009, 30 maggio 2010 e 1 settembre 2009, era circostanza idonea a dimostrare
la sua estraneità alla fattispecie associativa.
Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 530, comma 2, del codice di rito, posto
che, a tutto concedere, avrebbe dovuto riconoscersi insufficienza o contraddittorietà degli
elementi di prova. Mancava in ogni caso la dimostrazione del dolo specifico, necessaria ai fini
della configurazione del reato di partecipazione mafiosa.
Con la memoria indicata in epigrafe il difensore ha, ulteriormente, argomentato la pretesa

inidoneità delle circostanze apprezzate in sentenza a sostegno del giudizio di colpevolezza ed
ha allegato copia di sentenza di questa Corte di legittimità, Prima Sezione Penale, che ha
accolto il ricorso proposto in favore dello stesso Ceravolo avverso decreto della Corte d’appello
torinese confermativo di decreto applicativo di misura di prevenzione personale.
Il ricorso proposto in favore di Giuseppe mi e di Roberto Colloca, deduce con il primo
motivo, violazione di legge con riferimento all’art. 416 bis, comma terzo, cod. pen. nonché
mancanza ed illogicità della motivazione in relazione alla sussistenza del metodo “mafioso”,
con richiamo a precedenti giurisprudenziale di legittimità.
Con il secondo motivo si denuncia mancanza ed illogicità della motivazione in ordine alla
r’itenuta partecipazione di entrambi all’consorteria mafiosa. Il giudice di appello, dopo aver
elencato le risultanze investigative, aveva indebitamente valorizzato il fatto che l’imputato non
avesse reso alcuna versione alternativa, avvalendosi della facoltà di non rispondere.

2. Nella camera di consiglio del 16/02/2015, il Presidente differiva la deliberazione
all’odierna udienza del 03/03/2015, in considerazione dell’importanza della questione da
decidere.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Un motivo comune a diversi ricorsi vale a focalizzare il principale thema decidendum del
presente giudizio e, in ragione della sostanziale riferibilità a tutte le posizioni, reclama una
trattazione unitaria, al fine di evitare inutili ripetizioni.
In questa, preliminare, visione d’assieme non sfuggiranno, poi, altri profili di doglianza
presenti in più impugnative, pur essi suscettibili di contestuale trattazione.
1.1.

La principale quaestio iuris attiene all’individuazione dei presupposti perché un

aggregato delinquenziale, che mutui stili e metodiche comportamentali da organizzazioni
mafiose tradizionalmente operanti in altre aree geografiche del Paese, possa essere perseguito
ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen.
In particolare, si pone il quesito se, ai fini della configurazione della speciale fattispecie,
prevista dalla citata norma sostanziale, sia sufficiente l’adesione a moduli organizzativi che
riecheggino, per rituali di affiliazione, ripartizione di ruoli e relative qualificazioni

\3

nominalistiche, organizzazioni criminali di storica

fama criminale, ovvero sia necessaria

l’esteriorizzazione od estemalizzazione del metodo mafioso, ossia la proiezione all’esterno di
siffatta metodica criminale, con i conseguenziali riflessi nella realtà ambientale, in termini di
assoggettamento ed omertà.
Proprio sui corni di tale ultima alternativa si collocano i divergenti epiloghi decisori dei
due gradi di merito, giacché alla statuizione assolutoria di primo grado, fondata sull’assunto
della necessità di esteriorizzazione, ha fatto riscontro il diverso orientamento dei giudici di
appello, espresso nella sentenza oggetto del presente ricorso.

Occorre subito considerare, sin da questo approccio d’assieme, che la divergente lettura
del materiale probatorio nelle due sedi di merito, se rende necessario verificare il rispetto, da
parte della Corte distrettuale, dei requisiti che, per consolidato insegnamento di questo Giudice
di legittimità, deve assumere la sentenza di appello che riformi quella assolutoria di primo
grado, non pone, tuttavia, problemi di sorta sull’altro versante, pure al primo correlato, della
necessità che il difforme apprezzamento consegua alla rinnovata istruttoria dibattimentale,
secondo i dettami di recente lezione di questa stessa Corte, sulla scia della nota giurisprudenza
EDU (maturata sull’abbrivio della sentenza Dan c. Moldavia). Ciò, in quanto – per come si dirà
in prosieguo – il divergente orientamento si fonda sulla rivisitazione “cartolare” non già di
Prove orali, ma di esiti di captazioni ambientali o telefoniche o di attività di osservazione di p.g.
Ad ogni modo, le prove orali raccolte in primo grado non presentavano, di certo, carattere di
decisività nell’economia complessiva del giudizio, considerato, peraltro, che le propalazioni del
collaboratore Rocco Varacalli (f. 11 della sentenza impugnata) attenevano alla struttura
organizzativa ed alle caratteristiche della ‘ndrangheta genericamente intesa, che, nondimento,
il giudice di appello aveva desunto aliunde.
1.2. Per quanto concerne, ora, la preliminare verifica di cui si è detto, può ritenersi ius
.t2
recptum, alla stregua di consolidata interpretazione giurisprudenziale di legittimità, che la
motivazione della sentenza di appello riformatrice della pronuncia di primo grado si
caratterizza per un obbligo giustificativo ulteriore rispetto a quello generale della non manifesta
illogicità e non contraddittorietà, enucleabile dal testo dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod.
proc. pen. In diverse pronunce sul tema è ricorrente la locuzione “motivazioone rafforzata”,
per esprimere, con la forza semantica del lemma, il più intenso obbligo di diligenza richiesto al
giudice di secondo grado, che deve farsi carico di confutare, specificamente, i principali
argomenti addotti dal primo giudice, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza od
incoerenza, alla luce dei principi enunciati da questa Corte di legittimità nella sua più
autorevole espressione a Sezioni Unite (Sez. U. 12.7.2005, n. 33748, Mannino, Rv. 231679;
cfr., sulla stessa linea, Sez. feriale, n. 53562 dell’11/09/2014, Lembo, rv. 261541; Sez. 5 n.
35762 del 05/05/2008, Aleksi, Rv. 241169).
In altri termini, il giudice di appello non può limitarsi ad una motivazione, pur conforme ai
canoni della logica e dell’intrinseca coerenza, che dia plausibile giustificazione dell’alternativa

iA-

lettura delle emergenze processuali, ma deve anche spiegare perché mai non possano
condividersi gli argomenti addotti in prime cure a sostegno della pronuncia assolutoria.
D’altronde, secondo indiscusso insegnamento di questa Corte di legittimità (tra le altre,
Sez. 6, n. 40159 del 03/1172011, Galante, Rv. 251066; Sez. 2, n. 11883 del 08/11/2012 dep
2013, Berlingieri, Rv.254725) è viziata la motivazione della sentenza di appello, che, a fronte
del medesimo compendio probatorio, si limiti ad una lettura alternativa, senza il supporto di
argomenti dirimenti, tali da evidenziare oggettive carenze od insufficienze della decisione

nel senso di lasciare spazio a residui, ragionevoli, dubbi sulla statuizione di colpevolezza. In
altri termini, l’insieme giustificativo della sentenza riformatrice deve avere una forza
persuasiva superiore a quella della prima pronuncia.
Orbene, sulla scorta di tali coordinate di giudizio, il collaudo di legittimità della sentenza
riformatrice in esame ha esito ampiamente positivo, giacché il giudice di appello, nel dissentire
dalle conclusioni di prime cure, non ha mancato di spiegare, compiutamente, le ragioni del suo
diverso apprezzamento, senza sottrarsi all’onere di confrontarsi con gli argomenti addotti a
sostegno della soluzione assolutoria, sì da disvelarne l’incongruenza e la sostanziale non
condivisibilità.
Ad un’ultima annotazione deve farsi luogo in questa prospettiva d’assieme. E’ quella
afferente alla singolarità del rilievo che, nel presente giudizio, é fatto conclamato, in quanto
pacificamente riconosciuto dalle due sentenze di merito, che, nel basso Piemonte, sia esistita
‘una struttura associativa di indubbia connotazione ‘ndranghetista, alla quale, del resto, hanno
espressamente ammesso di aver aderito alcuni imputati, odierni ricorrenti (Pronestì Bruno
Francesco, Maiuolo Antonio, Guzzetta Damiano, Gariuolo Luigi, Diliberto Monella Stefano,
Diliberto Monella Luigi), sia pure nel comprensibile tentativo di sminuire, in qualche misura, la
portata della loro ammissione, negando, peraltro, la sussistenza dell’aggravante del carattere
armato dello stesso sodalizio.
Di guisa che per costoro, quanto meno in linea tendenziale, non può porsi un problema di
partecipazione, o meglio di verifica dell’idoneità dell’impianto motivazionale a dimostrare la
relativa condotta, quanto piuttosto quello di individuare i connotati giuridici di quella stessa
partecipazione.

2. Ai fini di pertinente soluzione del principale nodo interpretativo posto dal processo
mette conto ripercorrere i più salienti approdi ermeneutici della giurisprudenza di legittimità in
subiecta materia.
In proposito, è dato cogliere nell’evoluzione giurisprudenziale una linea interpretativa non
sempre lineare e coerente. Occorrerà, ora, capire se si tratta di sintomo di vero e proprio
contrasto, ovvero di soluzioni esegetiche che, inevitabilmente, risentano della specificità delle
fattispecie di volta in volta esaminate.

assolutoria, che – a fronte di quella riformatrice – si riveli, quindi, non più sostenibile, neppure

Come anticipato in premessa, il tema riguarda i presupposti necessari perché un gruppo
criminale che si ispiri a sistemi organizzativi ed operativi di famigerate aggregazioni mafiose,
operanti in altre aree geografiche, possa essere ricondotto all’alveo della previsione dell’art.
416 bis cod. pen. L’implicazione pratica di siffatto interrogativo riguarda la c.d. mafia silente,
espressione con la quale si allude ad organizzazioni criminali, dagli inconfondibili connotati
Mafiosi, che non si siano ancora manifestate all’esterno con le imprese delinquenziali in vista
delle quali sono state concepite e, quindi, non abbiano avuto ancora modo di proiettare

2.1.

Un primo indirizzo interpretativo reputa necessario che la neoformazione abbia

manifestato all’esterno il modus operandi criminale prescelto, sì da ingenerare nell’ambiente
circostante quell’alone di intimidazione, diretta conseguenza del vincolo associativo, e
correlativamente la condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva. Insomma,
sostiene la necessità di verificare, sul piano della realtà effettuale, la sussistenza dei connotati
richiesti dalla perspicua formulazione dell’art. 416 bis, comma terzo, cod. pen. A tale logica
interpretativa si ispirano Sez. 6, n. 30059 del 05/06/2014, Bertucca, Rv. 262398 secondo cui
é configurabile il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. laddove l’associazione per delinquere si
sia radicata “in loco” mutuando dai clan operanti in altre aree geografiche i ruoli, i rituali di
affiliazione e il livello organizzativo, e risulti agire in concreto, nell’ambiente in cui opera, con
metodo mafioso, esteriorizzando cioè un’effettiva forza intimidatrice rivolta verso i propri sodali
e verso i terzi vittime dei reati-fine, che si traduce in omertà e assoggettamento.

(Fattispecie

in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza impugnata che aveva ravvisato la
sussistenza di una organizzazione qualificabile a norma dell’art. 416
riferimento ai cosiddetti “locali” lombardi della

bis cod. pen. con

‘ndrangheta non soltanto per la sicura

connessione di esso con l’associazione attiva in Calabria, ma anche per la realizzazione in
Lombardia di reati-fine attuativi del programma criminoso, compiuti mediante utilizzo del
metodo mafioso); Sez. 2, n. 31512 del 24/04/2012, Barbaro, Rv. 254031 secondo cui in
tema di associazione a delinquere, il metodo mafioso deve necessariamente avere una sua
esteriorizzazione quale forma di condotta positiva, come si evince dall’uso del termine
“avvalersi” contenuto nell’art. 416 bis cod. pen. ed esso può avere le più diverse
manifestazioni, purchè l’intimidazione si traduca in atti specifici, riferibili ad uno o più soggetti;
Sez. 1, n. 13635 del 28/03/2012, Versaci, Rv. 252358: ai fini della consumazione del reato di
cui all’art. 416 bis cod. pen., è necessario che un’autonoma consorteria delinquenziale, la quale
Mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree
geografiche, abbia conseguito – in concreto e nell’ambiente nel quale essa opera – un’effettiva
capacità di intimidazione, non rilevando il riconoscimento da parte dell’associazione criminale
“casa madre”. (Nella specie, la Corte ha ritenuto configurabile la fattispecie delittuosa in
relazione ad un’associazione criminale, denominata “bastarda”, che, operando in Piemonte, si
era costituita secondo i criteri tipici dei locali di ndrangheta senza, però, chiedere
l’autorizzazione dei gruppi calabresi, ma adottando metodi e comportamenti percepiti

all’esterno la forza intimidatrice di cui sono capaci.

all’esterno come tipicamente mafiosi); Sez. 1, n. 25242 del 16/05/2011, Baratto, Rv. 250704
secondo cui l’integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un
sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità
di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile,
tapace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti.
(La Suprema Corte ha precisato che il condizionamento della libertà morale dei terzi estranei al
sodalizio non deve necessariamente scaturire da specifici atti intimidatori, ma può costituire
l’effetto del timore che promana direttamente dalla capacità criminale dell’associazione); Sez.

connota rispetto all’associazione per delinquere per la sua tendenza a proiettarsi verso
l’esterno, per il suo radicamento nel territorio in cui alligna e si espande, i caratteri suoi propri,
dell’assoggettamento e dell’omertà, devono essere riferiti ai soggetti nei cui confronti si dirige
l’azione delittuosa, in quanto essi vengono a trovarsi, per effetto della convinzione di essere
esposti al pericolo senza alcuna possibilità di difesa, in stato di soggezione psicologica e di
soccombenza di fronte alla forza della prevaricazione. Pertanto, la diffusività di tale forza
intimidatrice non può essere virtuale, e cioè limitata al programma dell’associazione, ma deve
essere effettuale e quindi manifestarsi concretamente, con il compimento di atti concreti, sì
che è necessario che di essa l’associazione si avvalga in concreto nei confronti della comunità
in cui è radicata.
Nello stesso senso si collocano Sez. 1, n. 34974 del 10/07/2007, Brusca, Rv. 237619,
secondo cui in tema di associazione di tipo mafioso, in mancanza di elementi relativi al
compimento di atti diretti ad intimidire, deve comunque risultare un clima di diffusa
intimidazione derivante dalla consolidata consuetudine di violenza dell’associazione stessa,
clima percepito all’esterno e del quale si avvantaggino gli associati per perseguire i loro fini;
Sez. 5, n. 19141 del 13/02/2006, Bruzzaniti, Rv. 234403, secondo cui

ai fini della

consumazione del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., è necessario che l’associazione abbia
conseguito, in concreto, nell’ambiente nel quale essa opera, un’effettiva capacità di
intimidazione. Ne consegue che, in presenza di un’autonoma consorteria delinquenziale, che
mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree
geografiche, è necessario accertare che tale associazione si sia radicata “in loco” con quelle
peculiari connotazioni.
o °

Possono leggersi nella stessa direzione Sez. F, n. 44315 del 12/09/2013, Cicero, Rv.

258637 secondo cui la nozione di “omertà”, che si correla in rapporto di causa a effetto alla
forza di intimidazione dell’associazione di tipo mafioso, deve essere sufficientemente diffusa,
‘anche se non generale, e può derivare non solo dalla paura di danni alla propria persona, ma
anche dall’attuazione di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti, di modo che
sia diffusa la convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria non impedirà ritorsioni
dannose per la persona del denunciante, in considerazione della ramificazione
dell’organizzazione, della sua efficienza, della sussistenza di altri soggetti non identificabili

1, n. 29924 del 23/04/2010, Spartà, Rv. 248010: poiché l’associazione di tipo mafioso si

forniti del potere di danneggiare chi ha osato contrapporsi; Sez. 6, n. 1612 del 11/01/2000,
Ferone, Rv. 216632: carattere fondamentale dell’associazione per delinquere di tipo mafioso va
individuato nella forza intimidatrice che da essa promana: la consorteria deve, infatti, potersi
avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è l’associazione e
°soltanto essa, indipendentemente dal compimento di specifici atti di intimidazione da parte dei
singoli associati, a esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione. Essa
rappresenta l’elemento strumentale tipico del quale gli associati si servono in vista degli scopi
propri dell’associazione. È, pertanto, necessario che l’associazione abbia conseguito, in

concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, una effettiva capacità di intimidazione
e che gli aderenti se ne siano avvalsi in modo effettivo al fine di realizzare il loro programma
criminoso; id. Rv. 216633 il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. è contrassegnato dal metodo
mafioso, seguito dai componenti dell’associazione per la realizzazione del programma
associativo. Esso non è componente della condotta ma dato di qualificazione del sodalizio e si
connota, dal lato attivo, per l’utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice
nascente dal vincolo associativo e, dal lato passivo, per la situazione di assoggettamento e di
omertà che da tale forza intimidatrice si sprigiona verso l’esterno dell’associazione, cioè nei
confronti dei soggetti nei riguardi dei quali si dirige l’attività delittuosa; Sez. 5, n. 4307 del
19/12/1997, Magnelli, Rv. 211071: ai fini della sussistenza del reato di associazione di tipo
mafioso l’intimidazione interna al sodalizio, pur se rilevante sotto il profilo dell’estrinsecazione
del metodo mafioso, non può prescindere dall’intimidazione esterna, poiché elemento
caratteristico dell’associazione in questione è il riverbero, la proiezione esterna, il radicamento
nel territorio in cui essa vive; assoggettamento ed omertà devono pertanto riferirsi non ai
componenti interni , essendo siffatti caratteri presenti in ogni consorteria, ma ai soggetti nei
cui confronti si dirige l’azione delittuosa, essendo i terzi a trovarsi, per effetto della diffusa
convinzione della loro esposizione a pericolo, in stato di soggezione di fronte alla forza dei
“prevaricanti”. Quanto alla diffusività di tale forza intimidatrice, essa non può essere virtuale, e
cioè limitata al programma dell’associazione, ma deve essere effettuale, siccome
manifestazione della condotta, essendo la diffusività un carattere essenziale della forza
intimidatrice, con la conseguente necessità che di essa l’associazione si avvalga in concreto,
cioè in modo effettivo; Sez. 6, n. 7627 del 31/01/1996, Alleruzzo, Rv. 206601: per qualificare
un associazione a delinquere ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen., e cioè di stampo mafioso, non
é sufficiente che la stessa abbia programmato di avvalersi della sua forza intimidatrice e della
conseguente condizione di assoggettamento e di omertà dei singoli, ma è necessario che se ne
sia già avvalsa concretamente.
2.2. In diversa prospettiva sembra, invece, porsi Sez. 1, n. 5888 del 10/01/2012, Rv.
Garcea, Rv 252418, secondo cui per qualificare come mafiosa un’organizzazione criminale è
necessaria la
capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza,
una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto

\g

con gli affiliati all’organismo criminale (Nella specie, è stata ritenuta mafiosa un’organizzazione
criminale costituitasi autonomamente in Liguria che ripeteva le caratteristiche strutturali dei
locali di ‘drangheta calabresi, si ispirava alle regole interne di questi ultimi e con essi
manteneva stretti collegamenti); Sez. 5, Sentenza n. 38412 del 25/06/2003,

Di Donna, Rv.

227361: per l’integrazione del delitto di associazione di tipo mafioso, che il legislatore ha
configurato quale reato di pericolo, è sufficiente che il gruppo criminale considerato sia
potenzialmente capace di esercitare intimidazione, e come tale sia percepito all’esterno, non
essendo di contro necessario che sia stata effettivamente indotta una condizione di

assoggettamento ed omertà nei consociati attraverso il concreto esercizio di atti intimidatori.

3. Il contrasto – all’apparenza evidente – può, però, non risultare tale, a giudizio del

Collegio, ove sia possibile ritenere che le oscillazioni interpretative (tra mera potenzialità ed
attualità della forza intimidatrice) siano il risultato di incerta individuazione del presupposto
cognitivo della questione giuridica in esame e di mancata puntualizzazione delle precondizioni
fattuali del relativo ragionamento.
Si intende dire che, nella soluzione del quesito, può essere dirimente l’individuazione
della natura della struttura associativa in questione e delle sue precipue connotazioni.
3.1. Orbene, non è revocabile in dubbio che nella realtà fenomenica, a fronte della

teorica molteplicità di manifestazioni di criminalità organizzata, di fatto le possibili diversità
tendono a risolversi nella seguente alternativa. Il nuovo aggregato delinquenziale può, infatti,
porsi come struttura autonoma ed originale, anche se si proponga di utilizzare la stessa
metodica delinquenziale delle mafie storiche, attraverso lo sfruttamento di quella maggiore
forza . intimidatrice che, fisiologicamente, si riconnette alla forma associativa. Ovvero può
configurarsi come mera articolazione di tradizionale organizzazione mafiosa, in stretto rapporto
di dipendenza o, comunque, in collegamento funzionale con la casa madre.
Orbene, pare ovvio affermare che, nel primo caso, sia imprescindibile la verifica, in
concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie di reato di cui all’art. 416 bis cod. pen.
Così è assolutamente necessario che si accerti se la neoformazione delinquenziale si sia già
proposta nell’ambiente circostante, ingenerando quel clima di generale soggezione, in
dipendenza causale dalla sua stessa esistenza (proprio in questo prospettiva si pone
l’interpretazione proposta da. Sez. 5, n. 234403/2006 cit.). D’altro canto, è sin troppo palese
per via della forza semantica della locuzione si avvalgono, con riferimento ai partecipi del
sodalizio delinquenziale – che il metodo mafioso debba essersi manifestato all’esterno,
‘producendo nell’ambiente circostante, in termini di causa ed effetto, la condizione di
assoggettamento ed omertà, che possano costituire terreno fertile per una più agevole
realizzazione del programma criminoso.
Ove così non fosse, resta ovviamente impregiudicata la riconducibilità del fatto
all’ordinaria previsione dell’art. 416 cod. pen.

\q

Merita interesse, in proposito, il rilievo di Sez. 1, n. 6933 del 10/12/1997, Rasovic, Rv Rv.
209609, che, nell’indicare gli elementi di differenziazione delle due fattispecie associative,
quella comune e quella mafiosa, tra cui il principale è il metodo mafioso, osserva che, ai fini
della specifica connotazione – in termini siffatti – di un sodalizio delinquenziale, vanno
coordinati i vari elementi indiziari, in una chiave di lettura che tenga conto delle nozioni socioantropologiche e del particolare ambiente culturale, geografico ed etnico in cui i fatti sono
maturati. Rilievo ben condivisibile in ragione del fatto che la fattispecie delittuosa in questione

criminale maturata in determinate aree geografiche, ove condizioni di arretratezza economica,
fattori sociali e stratificazioni subculturali hanno favorito l’affermazione di forme di
prevaricazione delinquenziale. che – profittando della forza intimidatrice del vincolo associativo
(consolidatasi in esito ad azioni delittuose anche di particolare efferatezza) e della conseguente
condizione di assoggettamento e di omertà della popolazione (dissuasa dal ricorso alla
denuncia od alla delazione all’autorità costituita dalla consapevolezza dell’ineluttabilità di
reazioni punitive)

hanno fatto della violenza fisica e morale il solo strumento di egemonia e

dominio. La forza dissuasiva ed intimidatoria del vincolo associativo è acuita a dismisura dell’a
nota capacità di quelle organizzazioni di infiltrarsi anche nei gangli fondamentali dell’apparato
politico-istituzionale e di inquinare il regolare sviluppo dell’economia, alterando le ordinarie
regole concorrenziali e creando indebite posizioni dominanti, favorite dalla disponibilità di
ingenti risorse finanziarie.
In mancanza di tali ineludibili presupposti

– e salva la punibilità del fenomeno

associativo nelle ordinarie forme dell’art. 416 cod. pen. – gli eventuali reati-fine consumati con
metodo mafioso saranno ovviamente perseguibili secondo le corrispondenti fattispecie
delittuose, con la speciale aggravante dell’art. 7 I. n. 203 del 1992, che, notoriamente,
prescinde dall’effettivo coinvolgimento dell’agente in un’associazione per delinquere di stampo
mafioso.
3.2. Decisamente diversa, invece, è l’ipotesi che la neoformazione – ben lungi da
qualsivoglia atteggiamento di “autoreferenzialità” o millanteria – nasca come effettiva
articolazione periferica o “gemmazione” dell’organizzazione mafiosa radicata nell’area
tradizionale di competenza. In presenza di univoci elementi dimostrativi di un collegamento
funzionale ed organico con la casa madre, la cellula o aggregato associativo non potrà che
considerarsi promanazione dell’originaria struttura delinquenziale, di cui non può che ripetere
tutti i tratti distintivi, compresa la forza intimidatrice del vincolo e la capacità di condizionare
l’ambiente circostante.
Pacifiche acquisizioni sociologiche in uno a recenti vicende giudiziarie, pervenute anche alla
cognizione di questa Corte di legittimità, offrono – per diffusività ed ampiezza del fenomeno
osservato – validi elementi integranti la nozione del “notorio”. La mafia, e più specificamente la
‘ndran’ gheta che di essa è, certamente, l’espressione di maggiore pericolosità, ha oramai
travalicato i limiti dell’area geografica di origine, per diffondersi, con proprie articolazioni o

è nata dall’osservazione sociologica della pericolosità di una particolare fenomenologia

ramificazioni, in contesti geografici un tempo ritenuti

refrattari

od insensibili al

condizionamento mafioso. L’immediatezza e l’alta cifra di diffusione dei moderni mezzi di
comunicazione, propri della globalità, hanno contribuito ad accrescere a dismisura la fama
‘criminale di certe consorterie, di cui, oggi, sono a tutti note spietatezza dei metodi,
ineluttabilità delle reazioni sanzionatorie, anche trasversali, inequivocità ed efficacia persuasiva
dei codici di comunicazione. Sicché, non è certo lontano dal vero opinare che il grado di
diffusività sia talmente elevato che il messaggio – seppur adombrato – della violenza (di quella

universale da tutti percepibile, a qualsiasi latitudine. Sicché, sembra quasi anacronistico
ipotizzare che possano ancora esistere, nel nostro Paese (e forse anche oltreconfine), contesti
ambientali davvero refrettari all’imposizione mafiosa, tanto più non appena si abbandonino
posizioni teoriche di macrocriminalità o di sociologia spicciola per spostarsi sul terreno concreto
della dimensione individuale, per saggiare l’effettiva capacità di ciascuno di resistere, pur in
contesti tradizionalmente incontaminati, alla forza d’intimidazione del metodo mafioso, pur con
la prospettiva di sicure rappresaglie ed attentati alla incolumità propria e dei propri cari od
all’integrità del patrimonio. E non è certo azzardato ritenere che_,, 5L la mafia – e
segnatamente la ‘ndrangheta – specie se non contrastata efficacemente nei territori di origine,
sia in grado, ove lo voglia, di radicarsi ovunque, pur se con rischio variabile, per imporre i
propri strumenti persuasivi in vista del conseguimento di illeciti obiettivi. Né si pensi che la
proliferazione o delocalizzazione della detta mafia sia frutto di mere smanie espansionistiche,
per la conquista di nuove frontiere, o di mera colonizzazione di aree produttive ovunque site. Il
fenomeno – a quanto pare, proprio della `indrangheta o più marcatamente evidente per essa sembra dovuto, alla luce di recenti indagini giudiziarie, i cui esiti sono già pervenuti alla
cognizione di questa Corte di legittimità, all’ineludibile esigenza di investire enormi risorse
finanziarie od alla possibilità di rilevare – a prezzi competitivi – interi settori commerciali o
rami di azienda, per la cui gestione si renda necessario il radicamento in loco, ovvero dalla
vera e propria vendita di danaro, ovviamente a condizioni usurarie, ad imprenditori del Nord in
difficoltà, specie nell’attuale congiuntura economica, con la necessità, anche in tal caso, del
radicamento in zona per assicurarsi la certezza del rientro dell’investimento con i convincenti
sistemi propri del metodo mafioso. O più semplicemente, l’esportazione del detto sistema è
dettato, dal mero intendimento di sperimentare, fuori dai confini tradizionali, la praticabilità di
certe forme di semplificazione che, attraverso l’impiego della forza intimidatrice del vincolo
associativo, renda più agevole il conseguimento, anche extra moenia, di parassitarie fonti
reddituali ovvero di commesse ed appalti pubblici.
Ora, pretendere che, in presenza di simile caratterizzazione delinquenziale, con
confondibile marchio di origine, sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della
condizione di assoggettamento od omertà è, certamente, un fuor d’opera. Ed infatti,
l’immagine di una `ndrangheta cui possa inerire un metodo “non mafioso” rappresenterebbe un
ossimoro, proprio in quanto il sistema mafioso costituisce l’in sé della ‘ndrangheta, mentre

specifica violenza di cui sono capaci le organizzazione mafiose) esprima un linguaggio

!Impatto oppressivo sull’ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo da
questa stessa consorteria. Il baricentro della prova deve, allora, spostarsi sui caratteri precipui
della formazione associativa e, soprattutto, sul collegamento esistente – se esistente – con
l’organizzazione di base.
Va, inoltre, considerato che lo stesso dato positivo ha ormai sganciato la nozione
dell’associazione di stampo mafioso dal contesto originario

di elezione, ossia il territorio

siciliano, che ha costituito oggetto di particolare attenzione, specie all’indomani di gravi

Ed infatti, la norma contenuta nel comma ottavo dell’art. 416

bis cod. pen. dispone

chiaramente che «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla
‘ndrangheta (il riferimento a quest’ultima è stato introdotto, solo successivamente, dall’art. 6
d.l. 4.2.2010 n. 4 conv. in I. 31.3.2010, n. 50) e alle altre associazioni comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo
perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso». Il che induce a
ritenere – anche alla luce di recenti acquisizioni investigative e giudiziarie – che non esistano
distinte ed autonome espressioni

‘ndranghetiste,

posto che la ‘ndrangheta è fenomeno

criminale unitario, articolato in diramazioni territoriali, intese

locali, dotate di sostanziale

autonomia operativa, pur se collegate e coordinate da una struttura centralizzata.
In questo senso, vanno dunque lette ed apprezzate le statuizioni di questa Corte
regolatrice, che reputano sufficiente la mera potenzialità del vincolo associativo,
indipendentemente dal suo concreto esteriorizzarsi. D’altro canto, ai fini della sussistenza dei
connotati dell’art. 416 bis cod. pen. non è, pacificamente, necessaria la consumazione dei reati
fine che costituiscano l’obiettivo strategico dell’organizzazione, in considerazione dell’indiscussa
natura di reato di pericolo dell’associazione per delinquere in questione.
Da ultimo, va considerato che la linea interpretativa qui sostenuta conferma l’orientamento
già espresso da questa Corte, sia pure in fase cautelare de libertate, in diverse pronunce
emesse proprio su ricorsi proposti dagli odierni istanti, nelle quali è ricorrente la seguente
affermazione: «questa Corte ritiene configurabile il reato associativo in presenza di una mafia
silente purché l’organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione, il
livello organizzativo e programmatico raggiunto, lascino concretamente presagire, come nella
tattisecie in esame la prossima realizzazione di reati fine dell’associazione, concretando la
presenza del “marchio” (ndrangheta), in una sorta di franchising tra “province” e “locali” che
consente di ritenere sussistente il pericolo presunto per l’ordine pubblico che costituisce la ratio
del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. La forza di intimidazione e lo stesso metodo mafioso
del “locale” piemontese della ‘ndrangheta sono stati individuati: a) dai rituali attraverso cui
avviene l’affiliazione e la promozione dei diversi ruoli all’interno dell’associazione mafiosa; b)
dalla vita sociale interna dell’associazione, caratterizzata da regole rigide, alla cui violazione è
ricollegata irrogazione di sanzioni, come è emerso in occasione di un episodio (c.d.
trascuranza) evidenziato dal Tribunale, emergendo dalle intercettazioni anche il collegamento

manifestazioni di criminalità organizzata, culminate con la consumazione di omicidi eccellenti.

con la struttura di Rosamo il cui capo Oppedisano Domenico, che ha indicato nel Pronestì il
capo de/locale del Basso Piemonte; dall’episodio relativo all’affiliazione del Caridi, che all’epoca
rivestiva la qualità di consigliere comunale del Comune di Alessandria; d) dall’essere
l’associazione armata, essendo stato uno dei presunti affiliati Fabrizio Cera volo, arrestato in
flagranza, in data 11/10/2009, essendo stato trovato in possesso, a bordo della propria
autovettura unitamente a Rocco Zangrà, di una pistola automatica Beretta con matricola
abrasa insieme al munizionamento, nascosti in una intercapedine del cruscotto dell’automobile;

perfettamente efficiente e deducendosi dalle conversazioni captate all’interno dell’abitazione
del Pronestì, che quest’ultimo aveva comprato, la stessa mattina, una pistola» (Sez,2, n. 4305
dell’11/01/2012, Caridi; id. n. 4304/2012, Romeo).

3. Alla stregua di tali coordinate valutative, è indubbio che sia pienamente condivisibile il
giudizio espresso dalla Corte territoriale che, nel caso di specie, ha ritenuto di poter individuare
i connotati distintivi dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, sussumendo
correttamente la vicenda in esame nel paradigma dell’art. 416 bis cod. pen. All’uopo, sono
stati giustamente considerati il modulo organizzativo della neoformazione, univocamente
ispirato ai canoni d’impostazione strutturale della

‘ndrangheta, attraverso tipici rituali di

affiliazione e ripartizione dei ruoli, con assegnazione a ciascuno delle colorite qualificazioni
proprie del gergo mafioso (senz’altro significativa era pure la segnalata circostanza che, nel
corso di perquisizioni domiciliari, fossero stati rinvenuti e sequestrati manoscritti inneggianti
alla ‘ndrangheta e riproducenti i tradizionali riti di affiliazione ed organizzazione interna).
Peculiari espressioni di organizzazione ‘ndranghestista è poi l’accertata imposizione di regole
interne, la cui violazione (c.d. trascuranza) era prontamente ed energicamente sanzionata ed il
sostegno finanziario assicurato ai sodali in difficoltà, a seguito di carcerazione.
Non è poi mancata la prova, attraverso le captazioni ambientali, di tipiche riunioni mafiose
dall’apparente carattere conviviale (c.d.

mangiate), ma di fatto, motivatamente, ritenute

occasioni di incontro con finalità operative e strategiche. Al riguardo, è solo suggestivo il rilievo
difensivo, proposto in diversi ricorsi, in ordine al carattere

neutro od innocuo di siffatti

convegni per il solo fatto che, tra i commensali, vi fossero anche donne ed altre persone mai
indagate. E’ agevole replicare, al riguardo, che, a parte l’irrilevanza delle opzioni selettive degli
inquirenti – più o meno opinabili – con riferimento alla posizione dei partecipanti esclusi
dall’addebito accusatorio, pure la presenza di donne a simili convegni è – nella stessa ottica fatto del tutto irrilevante, alla luce di acquisizioni storiografiche e giudiziarie che dimostrano il
ruolo tutt’altro che marginale delle donne in seno alle consorterie mafiose. D’altronde, non è
possibile, certo, escludere che, dietro il paravento della riunione conviviale, gli esponenti del
sodalizio, nel corso della stessa, abbiano potuto appartarsi – al momento della captazione
ambientale – per discutere, segretamente, di fatti e programmi associativi.

il Cera volo, inoltre, veniva successivamente trovato in possesso di una pistola revolver,

,

o

Ma elemento dirimente e decisivo, nel panorama probatorio, è la dimostrazione del

collegamento tra la cellula piemontese e la `ndrangheta reggina, che faceva della prima una
diretta promanazione dell’altra. La prova è stata, correttamente, tratta dall’episodio del viaggio
in quel di Rosarno di una “delegazione” di piemontesi per ottenere da Domenico Oppedisano,
ritenuto esponente di rilievo dell’organizzazione mafiosa, prossimo all’investitura di

capo

crimine, il placet per la costituzione di una nuova cellula `ndranghetistica ad Asti, per venire
incontro alle esigenze logistiche di taluni sodali. Sul piano inferenziale, infatti, è ineccepibile la

cellule, anche quella di Alessandria e zone viciniori, a suo tempo, ha necessitato di analogo
assenso; e, se si richiedeva tuttora siffatta autorizzazione, è segno incontrovertibile che il
collegamento funzionale era ancora in atto e pienamente cogente.
Anche la circostanza emersa dal compendio probatorio in ordine alla partecipazione di
alcuni rappresentanti della cellula piemontese a rituali in programma presso il Santuario della
Madonna di Polsi in Aspromonte è fortemente emblematica nella prospettazione accusatoria,
posto che é dato notorio che le annuali riunioni a Polsi costituivano occasione di incontro dei
maggiorenti delle cosche ‘ndranghetistiche, per l’investitura di nuove doti (maggiori incarichi
nell’organigramma mafioso) o per scelte strategiche di rilievo per l’intero sistema mafioso.
Sicché, può senz’altro ritenersi che, una volta raggiunta la prova dei connotati distintivi
della ‘ndrangheta e del collegamento con la casa madre, la nuova formazione associativa sia,
già in sé, pericolosa per l’ordine pubblico, indipendentemente dalla manifestazione di forza
intimidatrice nel contesto ambientale in cui è radicata. I singoli partecipanti, che erano, di
certo, ben consapevoli di non aderire ad un circolo ricreativo o ad un’associazione no profitt,

sono stati giustamente chiamati a rispondere del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen.

4. Sulla base delle superiori premesse, può ora procedersi all’esame delle singole posizioni.
4.1. Il primo motivo del ricorso in favore di Angelo Bandiera, che denuncia difetto
motivazionale con riguardo alla ritenuta idoneità delle risultanze processuali a dimostrare la
contestata partecipazione associativa, è privo di fondamento.
Il vizio denunciato non esiste in quanto che il compendio giustificativo reso dal giudice a
quo risulta immune da vizi od incongruenze di sorta nell’affermazione di colpevolezza
dell’imputato, in esito a corretta rivisitazione del materiale probatorio, nell’ottica della corretta
formulazionedi cui all’art. 416 bis cod. pen.
Il riconoscimento di valenza dimostrativa alle evidenze processuali costituisce oggetto di
apprezzamento squisitamente di merito, che non è sindacabile in questa sede in quanto
adeguatamente argomentato.
Quanto alla partecipazione alla riunione strategica, oggetto di captazione ambientale,
varranno certamente le considerazioni già espresse, mentre il riconoscimento della voce
dell’imputato, da parte di operatori di p.g., è stato, motivatamente, ritenuto attendibile.

ZA

conclusione che, se occorreva espressa e formale autorizzazione alla costituzione di nuove

In questa logica, il mancato espletamento di perizia fonica non può essere lamentato in
questa sede, alla stregua di indiscusso insegnamento di questa Corte regolatrice in ordine al
carattere neutro della perizia, come mezzo sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso al
Prudente apprezzamento del giudice di merito; come tale non può costituire prova decisiva, il
cui mancato espletamento – ove congruamente motivato – possa costituire oggetto di motivo
di ricorso in cassazione (cfr., con riferimento proprio alla richiesta di perizia fonica Sez. 3, n.
19498 del 19/03/2013,

Onica, Rv. 255985; Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013, Sciarra, Rv.

Lo stesso deve dirsi in merito alla circostanza relativa alla partecipazione al matrimonio
di Antonio Maiolo, tanto più alla stregua dell’indicata emergenza processuale in ordine all’invito
rivolto da quest’ultimo a tutti i componenti del sodalizio.
In definitiva, la risultanze di causa, valutate nel loro insieme, sono state,
argomentatamente, ritenute idonee a sostenere l’ipotesi della partecipazione associativa.
Per quanto precede, il ricorso – globalmente considerato – deve essere rigettato, nei
termini di cui in dispositivo.
4.2. Le ragioni di censura proposte in favore di Gaetano Bandiera,

in termini

pressoché identici a quelle oggetto del ricorso che precede, non possono che condividere
l’epilogo di infondatezza. Del resto, attengono a profili squisitamente di merito i rilievi
riguardanti l’individuazione dell’imputato nei riferimenti delle persone presenti alla riunione
strategica in casa del Pronestì, a fronte della motivazione resa al riguardo dai giudici di appello
che hanno spiegato i motivi della ritenuta individuazione e della conseguente attribuzione
all’odierno ricorrente della qualifica di capo giovane.
Per quanto riguarda, la valenza dimostrativa della partecipazione al matrimonio di
Antonio Maiolo, sarà sufficiente il rinvio recettizio alle considerazioni che precedono.
4.3. In merito al primo motivo del ricorso in favore di Giuseppe Caridi, relativo alla
pretesa insussistenza dei presupposti costitutivi del reato di associazione per delinquere di
stampo mafioso, varranno, ovviamente, le argomentazioni espresse nella parte introduttiva.
Per identiche ragioni è infondato il secondo motivo afferente al tema pure in premessa
trattato, in ordine ai connotati precipui del sodalizio mafioso come correttamente ritenuti nella
sentenza impugnata. Al di là delle pur vistose prospettazioni di merito, rileva in questa sede la
Congruità e pertinenza dell’impianto motivazionale, che dà conto delle ragioni di perplessità
prospettate, in sede di gravame, dall’odierno ricorrente.
Di pregnante rilievo è stata ritenuta la circostanza dell’affiliazione dell’imputato, quale
che sia stato il luogo dell’investitura, mentre l’accertato invito alla riunione in casa del Pronestì,
indipendentemente dalla partecipazione ad essa, dava la misura – secondo il plausibile
apprezzamento della Corte di merito – della considerazione e del ruolo che il Caridi, consigliere
comunale, aveva in seno alla consorteria.
° Per quanto concerne, poi, l’episodio dell’alterco tra il ricorrente e tal Belotti, anch’egli
consigliere comunale, al termine del quale il Caridi aveva scagliato una sedia all’indirizzo del

255152)

collega che gli aveva rivolto un epiteto ingiurioso, la “cifra” di mafiosità è stata ravvisata non
tanto nell’episodio in sé (in effetti, ambivalente, posto che ove il Bellotti fosse stato, sin
dall’inizio, consapevole della caratura del suo interlocutore, assai difficilmente gli avrebbe
rivolto espressioni irriguardose) quanto nel suo successivo sviluppo, allorquando p avvertito da
altri del rilievo del personaggio, lo stesso Belotti, anziché denunciare il fatto, accettò
l’intermediazione di un terzo per una riappacificazione forse non gradita.
Destituito di fondamento, insomma, è il rilievo difensivo in merito ad un preteso

invece, ineccepibile e pienamente aderente alle emergenze processuali, apprezzate secondo
una chiave di lettura che non può ritenersi, in sé, arbitraria od implausibile.
4.4. I ricorsi proposti in favore di Damiano Guzzetta, Luigi Diliberto Monella e
Stefano Diliberto Monella agitano identiche problematiche e, per questo, possono avere
contestuale trattazione.
Quanto alla prima, relativa ai connotati del contesto associativo – al quale tutti e tre
hanno ammesso di aver aderito – la stessa trova nelle preliminari argomentazioni le ragioni
della sua infondatezza.
Per quanto concerne la doglianza relativa al mancato riscontro della commissione di
reati-fine nell’arco temporale intercorrente tra la data di accertamento del preteso sodalizio
‘mafioso e quella dei provvedimenti custodiali, sarà sufficiente il riferimento ad indiscusso
insegnamento di questa Corte regolatrice, che non ritiene necessario quel riscontro ai fini della
configurazione del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. (Sez. 2, n. 4304 del 11/01/2012,
Romeo, Rv. 252205, secondo cui il reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche
in difetto della commissione di reati-fine, purché l’organizzazione sul territorio, la distinzione di
ruoli, i rituali di affiliazione ed il livello organizzativo e programmatico raggiunto ne lascino
concretamente presagire la prossima realizzazione;

fattispecie relativa ad attività della

‘ndrangheta in località piemontesi).
Per quanto concerne il carattere armato dell’associazione, è risaputo che l’aggravante di
cui all’art. 416 bis, comma quarto, cod. pen. ha natura oggettiva, di guisa che deve essere
riferita all’attività dell’associazione, in quanto tale, e non già alla condotta dei singoli partecipi,
donde la sua riferibilità a ciascuno di essi in base alla norma di cui al secondo comma dell’art.
59 cod. pen. (Sez. 6, n. 42385 del 15/10/2009, Ganci, Rv. 244904). Donde l’irrilevanza del
fatto che non sia emerso che nessuno dei tre odierni ricorrenti avesse disponibilità di armi,
pacificamente accertata, invece, in capo ad altri coimputati (nello stesso senso Sez. 6, n. 7707
del 04/12/2003, Nocito, Rv. 229769). Il fondamento giustificativo dell’imputazione, in rapporto
alla natura oggettiva dell’aggravante, risiede nella notorietà del carattere armato di
associazioni di tipo mafioso, quali la `ndrangheta, che facciano della violenza la metodica di
elezione per il conseguimento di illecite finalità (cfr., sul carattere armato come attributo della
specifica associazione mafiosa, qualificandone la pericolosità, Sez. 6, n. 856 del 14/12/1999,
Campanella, Rv. 216656).

travisamento delle risultanze probatorie da parte dei giudici di appello, il cui giudizio risulta,

E’, pertanto, sufficiente che – raggiunta la prova della natura mafiosa del sodalizio – si accerti
la disponibilità di armi o esplosivi in capo ad alcuni associati, perché la stessa possa ritenersi
tendenzialmente finalizzata al conseguimento degli scopi propri dell’associazione di tipo
mafioso. L’imputazione oggettiva fa sì che, a carico di ciascuno, sia ritenuta la consapevolezza

del possesso di armi o questo sia ignorato per colpa, agevolmente ravvisabile, anche in via
presuntiva, proprio in ragione delle peculiarità dell’associazione di stampo mafioso (Sez. 1, n.
9958 del 27/10/1997, Care/li, Rv. 208936; Sez. 6, n. 9712 del 06/04/1995, Primavera, Rv.
qualora sia accertato anche nei confronti di taluno soltanto dei

componenti di un’associazione per delinquere di stampo mafioso il possesso di armi,
l’aggravante dell’associazione armata è configurabile a carico di ogni altro componente che sia
consapevole di detto possesso e lo abbia ignorato per colpa).
Nel caso di specie, la disponibilità di armi è stata, correttamente ritenuta, in base
all’accertato possesso di una pistola da parte del capolocale Pronestì e da un precedente in
tema di armi in capo al coimputato Ceravolo, trovato peraltro in possesso anche di un revolver.
I ricorsi, pertanto, sono privi di fondamento.
4.5. Pure infondati sono i ricorsi proposti in favore di Luigi Gariuolo e Sergio Romeo,
che ripropongono la tematica della natura dell’associazione per delinquere in oggetto e della
sufficienza od idoneità delle risultanze processuali utilizzate dai giudici di appello per addivenire
alla statuizione di colpevolezza nei loro confronti.
Quanto al primo aspetto, non v’è che da richiamare le argomentazioni espresse sul
punto nella parte introduttiva, mentre, in ordine all’eccepito difetto motivazionale, sarà
sufficiente il rilievo che, anche per gli odierni ricorrenti, l’insieme giustificativo che correda la
sentenza impugnata risulta immune da vizi od incongruenze di sorta, avendo adeguatamente
spiegato le ragioni del ritenuto loro inserimento nella struttura associativa.
4.6. Il primo motivo del ricorso in favore di Michele Gariuolo si pone sulla stessa
logica contestativa, in tema di sussistenza dei presupposti dell’ipotizzata consorteria
‘ndranghetista operante nel basso Piemonte in collegamento funzionale con la ‘ndrangheta
calabrese. Come è ovvio, l’ordine di argomentazioni che lo sorregge trova risposta nella parte
motiva dedicata, in generale, al tema in questione. Come si è osservato, idonea prova del
ritenuto collegamento è stata, plausibilmente, tratta dai giudici di appello proprio dalla
richiesta, oggetto di captazione ambientale, rivolta ad Oppedisano Domenico, ritenuto
elemento di spicco della mafia calabrese, da una delegazione dei “piemontesi”, di cui faceva
parte proprio l’odierno ricorrente, assieme a tale Rocco Zangrà.
Quanto al secondo motivo, che attinge pur esso a tematica d’ordine generale in ordine
alla necessità di estemaiizzazione del metodo mafioso, è sufficiente – ancora una volta – il
richiamo alle motivazioni espresse in premessa.
A confutare il terzo motivo, riguardante la pretesa mancanza di prova in ordine
all’effettiva partecipazione del ricorrente al sodalizio delinquenziale, sarà sufficiente
considerare che, anche per Michele Gariuolo, il compendio motivazionale appare congruo ed

202352, secondo cui

adeguato, essendo di tutta evidenza la pregnanza dimostrativa della sola circostanza del
viaggio in Calabria per il conseguimento della necessaria autorizzazione per la costituzione di
nuova cellula mafiosa, ad eloquente riprova del rapporto di dipendenza gerarchica che,
notoriamente, caratterizza la struttura mafiosa.
Le obiezioni difensive che sostanziano il quarto motivo, riguardante la contestata
applicazione dell’art. 416 bis, comma quattro, cod. pen. trovano sufficiente risposta nelle
superiori motivazioni in merito al carattere oggettivo dell’aggravante in questione ed al criterio

o

4.7. Il primo motivo del ricorso in favore di Antonio Maiolo, afferente al preteso

difetto motivazionale in ordine alla ritenuta partecipazione dello stesso ricorrente ad
associazione di stampo mafioso, è destituito di fondamento. In proposito, occorre considerare
che, in forza dell’indicata dichiarazione depositata, all’udienza del 13 aprile 2012,y’ innanzi al
Gup, è stato, correttamente, ritenuto che l’istante abbia ammesso la partecipazione al sodalizio
delinquenziale, salva – a dire dello stesso Maiolo – la qualificazione giuridica di siffatta
partecipazione. Sul punto, è rilevante osservare che, congruamente, accertata – alla stregua
delle superiori considerazioni – la natura mafiosa della consorteria, la partecipazione
dell’imputato, odierno ricorrente, è stata affermata sulla base di elementi fattuali,
specificatamente indicati e, motivatamente, ritenuti dotati di valenza dimostrativa in funzione
dell’addebito in contestazione.
Infondati, per le già dette ragioni, sono anche il secondo e terzo motivo
congiuntamente esaminabili per identità di logica contestativa – che dubitano della correttezza
dell’impianto motivazionale nella parte relativa all’individuazione, nella vicenda in esame, dei
tratti distintivi del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. In proposito, le motivazioni espresse in
premessa danno compiuta ragione della ritenuta loro infondatezza.
Il quarto motivo pone la stessa questione di altre impugnative, in ordine alla riferibilità
all’odierno ricorrente dell’aggravante del carattere armato dell’associazione mafiosa. Anche sul
punto, il rinvio recettizio assolve all’onere motivazionale in merito alla ritenuta infondatezza
della censura.
Per quanto precede, anche il ricorso del Maiuolo deve essere rigettato.
4.8. I primi quattro motivi del ricorso in favore di Domenico Persico hanno contenuto
identico ai corrispondenti motivi del ricorso di Michele Gariuolo e, per ovvie ragioni, non
Possono che condividerne l’epilogo decisorio del rigetto.
Attiene a sostanziale profilo di merito il quinto motivo, riguardante il preteso difetto
motivazionale in ordine al ruolo direttivo attribuito all’imputato, ai sensi dell’art. 416, comma
2, cod. pen. La censura è, comunque, priva di fondamento a fronte di un contesto
motivazionale, che non merita censure di sorta, avendo, adeguatamente e senza sbavature,
spiegato le ragioni della partecipazione “qualificata” del Persico all’associazione per delinquere
di stampo mafioso oggetto di giudizio.

Z. 13

di imputazione della stessa in capo a ciascun componente del sodalizio.

4.9. Il primo motivo del ricorso in favore di Bruno Francesco Pronestì ripropone pur
esso la tematica di fondo di questo processo, ossia l’individuazione dei presupposti costitutivi
del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. nella fattispecie in esame, ed è, ovviamente, infondato
per le ragioni indicate in premessa.
Il secondo motivo di ricorso è, invece, fondato. Si tratta della contestazione relativa al
porto di arma, che l’odierno ricorrente, secondo le risultanze di captazione telefonica, avrebbe
acquistato da persona rimasta ignota e che avrebbe poi nascosto in un determinato luogo.

reato , di detenzione illegale. Invece, identico giudizio di responsabilità riguardo al porto
dell’arma non risulta giustificato da congrua motivazione. Ed invero, risultando per certo che
l’ignoto fornitore abbia consegnato la pistola in casa del Pronestì, dal testo motivazionale
dell’impugnata sentenza non emerge, invece, che l’arma sia stata mai portata fuori
dell’abitazione. Donde, l’annullamento in parte qua della stessa sentenza, per nuovo esame sul
punto, al fine di accertare se in processo vi siano elementi atti a sostenere la relativa ipotesi
accusatoria.
L’accoglimento del motivo che precede implica assorbimento della censura che
sostanzia il terzo motivo, in ordine all’assetto sanzionatorio, anche con riferimento al negato
giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravante e recidiva.
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4.10. Il primo e secondo motivo del rico sein favore di Sergio Romeo si pongono sul
ii-onte riguardante la sussistenza dei presupposti del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. nella
fattispecie in esame e non possono, quindi, che ricevere identica risposta motivazionale in
termini di rigetto.
Ripetitiva di doglianze già esaminate sulla valenza dimostrativa della riunione conviviale
del 30 maggio 2010 è la terza censura, pur essa destituita di fondamento per le già espresse
ragioni.
La quarta doglianza, riguardante il mancato giudizio di prevalenza delle attenuanti
generiche sull’aggravante contestata, si pone, invece, in area d’inammissibilità, afferendo a
questione squisitamente di merito, insindacabile in questa sede di legittimità a fronte di
motivazione adeguata e pertinente. Tale deve ritenersi quella che sorregge il diniego di più
favorevole rapporto di bilanciamento delle attenuanti generiche, posto che il giudice a quo ha
fornito esaustiva giustificazione del regime sanzionatorio adottato, siccome ritenuto più
aderente alla peculiarità della fattispecie oggetto di giudizio.
Per quanto concerne, infine, la mancata derubricazione del reato di cui all’art. 416 bis in
quello di cui all’art. 418 cod. pen. (assistenza agli associati), il riconoscimento, nel caso di
‘specie, degli estremi del reato contestato escludeva, eo ipso, la configurabilità di più favorevole
fattispecie delittuosa.
Per quanto precede, il ricorso del Romeo – globalmente considerato – deve essere
rigettato, nei termini di cui in dispositivo.

Sulla base di tali emergenze, correttamente, è stata riconosciuta la colpevolezza in ordine al

4.11. Il ricorso in favore di Romeo Rea è certamente infondato, per ragioni identiche a
quelle sopra esposte, nella parte in cui si pone sulla stessa linea di contestazione del reato di
associazione per delinquere di stampo mafioso, di cui mancherebbero nel caso di specie i
presupposti costitutivi.
Ma è parimenti infondato nella parte in cui dubita dell’effettiva idoneità delle risultanze
probatorie a sostenere l’ipotesi della partecipazione dello stesso ricorrente all’anzidetto
sodalizio mafioso. Appare, infatti, ineccepibile anche nei confronti del Rea l’apprezzamento

trattandosi di motivato apprezzamento di merito. Tanto è evidente in merito alla valutazione
del contenuto delle captazioni ambientali, di cui si è adeguatamente rilevata la significatività
dimostrativa, con particolare riferimento all’intercettazione del 22 agosto 2010, all’interno
dell’abitazione del Pronestì e di altre intercorse con l’anzidetto capo/oca/e.
Per quanto concerne, infine, la contestazione relativa al riconoscimento dell’aggravante
dell’art. 416 bis, comma quarto cod. pen., il rilievo è identico a quello proposto in altri ricorsi
già esaminati, di talché non v’è che da richiamare le argomentazioni esposte a sostegno della
ritenuta infondatezza dell’obiezione difensiva.
4.12. I primi due motivi del ricorso proposto in favore di Fabrizio Ceravolo investono
il contesto motivazionale della sentenza impugnata nella parte relativa all’apprezzamento di
idoneità delle circostanze valorizzate dal giudice a quo a sostegno del ritenuto convincimento in
ordine alla partecipazione del ricorrente all’associazione mafiosa. Entrambe sono destituite di
fondamento in quanto la struttura motivazionale in esame non merita tali censure, rivelando
solida tenuta sul piano della logica e della coerenza del ragionamento probatorio. Gli elementi
fattuali valorizzati sono stati, motivatamente, ritenuti dimostrativi della contestata
partec,ipazione. Tra di essi è stata giustamente apprezzata, per indubbia concludenza
dimostrativa, la programmata presenza del Ceravolo tra i delegati della missione dei
“piemontesi” a Rosarno sino alla proprietà dell’Oppedisano, dal quale ottenere l’autorizzazione
di nuova cellula mafiosa in Alba ed ancora la circostanza, pur essa carica di significatività, della
ritenuta partecipazione all’investitura dello stesso Oppedisano di superiore carica
nell’organigramma mafioso, nella rituale riunione presso il Santuario di Polsi.
Il terzo motivo ripropone identica logica contestativa, nel tentativo di trarre argomenti
favorevoli dalla mancanza dell’imputato alle riunioni indicate, posto che il dato negativo è
sovrastato – nella struttura argomentativa della sentenza impugnata – dalla valorizzazione di
elementi accusatori, tratti anche dalle disposte captazioni, ritenuti di pregnante efficacia
dimostrativa.
Per quanto riguarda, infine, il terzo motivo che denuncia difetto motivazionale in ordine
all’elemento soggettivo, sarà sufficiente considerare che la prova della consapevolezza
dell’odierno ricorrente è, implicitamente – ma non per questo meno chiaramente – tratta dalla
stessa oggettività delle circostanze fattuali utilizzate che, per loro natura e per l’intrinseca

delle emergenze di causa, quale risulta dal compendio motivazionale della stessa sentenza,

significatività, non potevano che essere rivelatrici di partecipazione consapevole ad un
organismo di stampo incontrovertibilmente mafioso.
Resta da dire che le deduzioni difensive espresse nella memoria indicata in premessa vanno
disattese, risolvendosi ith ulteriori critiche alla ritenuta idoneità delle circostanze di fatto,
indicate in sentenza, a sostenere l’ipotesi accusatoria; mentre è irrilevante l’annullamento del
provvedimento impositivo di misura di prevenzione, stante la nota autonomia del giudizio
ordinario rispetto a quella di prevenzione e la nota diversità dei regimi probatori.

4.13. Le ragioni che sostanziano il primo motivo del ricorso in favore di Giuseppe mi e
di Roberto Colfoca, con riferimento alla tematica di fondo di questo processo, in ordine agli
elementi costitutivi del reato di associazione mafiosa, trovano ancora una volta risposta nei
rilievi motivazionali espressi in premessa.
Destituita di fondamento è anche la seconda censura, che attiene alla riconosciuta idoneità
delle emergenze processuali a sostenere la statuizione di colpevolezza in merito alla
partecipazione associativa di entrambi. Ed invero, con appressamento di merito,
adeguatamente argomentato e, come tale, insuscettibile di sindacato di legittimità, i giudici di
appello hanno spiegato le ragioni del loro convincimento in termini di colpevolezza, al di là,
ovviamente, del legittimo esercizio dei due odierni ricorrenti della facoltà di non rispondere.
Anche il ricorso in esame deve essere, dunque, rigettato.
5.

In conclusione, il ricorso di Pronestì deve essere accolto limitatamente al reato di porto

illegale di pistola, con conseguente annullamento in parte qua della sentenza impugnata, con
rinvio al competente giudice di merito per nuovo esame; per il resto, il ricorso deve essere
rigettato.
Tutti gli altri ricorsi devono essere rigettati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Pronestì Bruno Francesco limitatamente
al reato di porto illegale di arma comune da sparo, con rinvio ad altra sezione della Corte
d’appello di Torino per nuovo esame; rigetta nel resto il ricorso del Pronestì;
rigetta tutti gli altri ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 03/03/2015

Per quanto precede, anche il ricorso del Ceravolo deve essere rigettato.

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