Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31453 del 17/06/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 31453 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: GRAZIOSI CHIARA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PAGLIALONGA BRUNO N. IL 09/10/1960
PAGLIALONGA MICHELE N. IL 16/03/1957
avverso la sentenza n. 1757/2011 CORTE APPELLO di LECCE, del
08/03/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/06/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. t2 ;- – t ‘2–Q-st-^ -‘-r
che ha concluso per e
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Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 17/06/2014

38844/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza dell’8 marzo 2013 la Corte d’appello di Lecce ha respinto l’appello proposto
da Paglialonga Bruno e Paglialonga Michele avverso sentenza dell’8 luglio 2010 con cui il
Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Galatina, li aveva condannati ciascuno alla pena di sei
mesi di reclusione per il reato di cui agli articoli 81 cpv., 110 e 544 ter c.p.(per avere inflitto
lesioni e fatiche insopportabili ad animali nella loro azienda zootecnica: capo a) e alla pena di

152/2006 (per avere realizzato una discarica non autorizzata di rifiuti pericolosi: capo b).
2. Ha presentato ricorso il difensore di Paglialonga Bruno, sulla base di due motivi.
Il primo motivo denuncia violazione di legge e vizio motivazionale, in quanto avrebbe dovuto
contestarsi come capo a), in luogo del delitto di cui all’articolo 544 ter c.p., la contravvenzione
di cui all’articolo 727 c.p., non essendo stati commessi atti particolari di crudeltà nei confronti
degli animali detenuti (semmai, sarebbero state prese poche accortezze nell’allevamento); e
l’erronea qualificazione del reato ha inciso anche sulla pena. Vi sarebbe comunque mancanza
assoluta di prove. Quanto poi al reato di cui al capo b), adduce il ricorrente che proprietario dei
terreni ove sono stati trovati rifiuti è soltanto Paglialonga Michele, e che mancano comunque le
prove che sia stato il proprietario del terreno (non recintato) a realizzare la discarica.
Il secondo motivo denuncia vizio motivazionale e mancanza di valutazione probatoria, non
essendo stata data una risposta adeguata alle doglianze presentate nell’atto d’appello.
Ha presentato ricorso il difensore di Paglialonga Michele, prospettando doglianze analoghe,
tranne l’argomentazione relativa alla proprietà dei terreni ove è stata trovata la discarica non
autorizzata.

sei mesi di arresto e € 8000 di ammenda per il reato di cui all’articolo 256, comma 3, d.lgs.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il primo motivo di ambedue i ricorsi adduce anzitutto l’erronea qualificazione della
condotta contestata, che, ad avviso dei ricorrenti, avrebbe dovuto ricondursi alla
contravvenzione di cui all’articolo 727 c.p. anziché al delitto di cui all’articolo 544 ter c.p., non
essendo stati addebitati agli imputati atti particolari di crudeltà nei confronti degli animali
detenuti nella loro azienda zootecnica, ma piuttosto una negligente gestione dell’allevamento.
È il caso di osservare che l’articolo 727 c.p., al secondo comma – che è quello cui fa
riferimento la doglianza dei ricorrenti -, sanziona come contravvenzione “chiunque detien

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animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze”, laddove
l’articolo 544 ter, primo comma, c.p. sanziona come delitto “chiunque, per crudeltà o senza
necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti
o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”. È netta la diversità tra
le due fattispecie. Mentre il delitto di maltrattamento degli animali esige una condotta
volontaria, commissiva od omissiva, della quale ciò che l’animale patisce sia diretta
conseguenza (da ultimo Cass. sez. III, 27 giugno 2013 n. 32837), ovvero una condotta
impregnata di elemento soggettivo doloso (cfr. Cass. sez. III, 24 ottobre 2007 n. 44822, che

“per crudeltà” e un reato a dolo generico quando invece sia tenuta “senza necessità”), ai fini
dell’integrazione della contravvenzione di cui all’articolo 727 c.p. non è necessaria alcuna
volontà del soggetto di infierire sull’animale (Cass.sez.III, 13 novembre 2007-7 gennaio 2008
n. 175), essendo sufficiente una condotta colposa (cfr. Cass.sez.III, 26 aprile 2005 n. 21744).
E tipica manifestazione di una condotta colposa riconducibile all’articolo 727 c.p. sotto forma di
negligenza è proprio la mera detenzione degli animali secondo modalità inadeguate per
incompatibilità con la loro natura e per arrecamento a essi di sofferenza (cfr. ancora
Cass.sez.III, 26 aprile 2005 n. 21744 e Cass.sez.III, 13 novembre 2007-7 gennaio 2008 n.
175, nonché Cass.sez.III, 16 giugno 2005 n. 32837 e Cass.sez.III, 7 novembre 2007 n.
44287) che, appunto in quanto tale, non è idonea a integrare invece la fattispecie delittuosa
(cfr.Cass.sez.III, 12 gennaio 2010 n. 6656).
Nel caso in esame, quella che in effetti è stata addebitata agli imputati, e per cui sono stati
condannati, è configurabile come una condotta negligente nella detenzione degli animali nella
loro azienda zootecnica. Ciò è posto in luce dalla stessa corte territoriale, laddove ha ritenuto
integrato il delitto sulla base di elementi sussumibili chiaramente, invece, nella
contravvenzione. Richiama infatti il giudice d’appello – cui era stata presentata la stessa
doglianza di riqualificazione – le dichiarazioni del teste Panzera, che ha “constatato le pessime
condizioni in cui veniva tenuto il bestiame”, nonché quelle del teste Tondo, che ha “precisato
che le strutture dell’azienda per il ricovero degli animali erano del tutto sottodimensionate
rispetto al numero dei capi; agli animali non era assicurata la possibilità di muoversi in
maniera adeguata, a causa dei legacci corti e stretti; il letame non veniva smaltito…molti
animali erano in cattive condizioni di salute, anche a causa delle infezioni intestinali provocate
dalle condizioni insalubri dell’azienda”. Ben consapevole la corte territoriale di avere dinanzi a
sé un quadro colposo (qualifica infatti essa stessa la condotta degli imputati come “grave e
ingiustificabile incuria”), tenta di ricondurre comunque la fattispecie al delitto avvalendosi del
dolo eventuale, che sarebbe ravvisabile in quanto la condotta ascritta agli imputati sarebbe
stata tenuta “senza necessità”. Ma, a ben guardare, la corte perviene in tal modo a una
forzatura, poiché non tiene adeguato conto di quanto da essa poco prima riconosciuto come
esito probatorio, e cioè che il ricovero degli animali era sottodimensionato rispetto al loro

poi distingue nella fattispecie un reato a dolo specifico qualora la condotta lesiva sia tenuta

numero, e per questo essi avevano legacci corti e stretti che impedivano una corretta mobilità.
Non è quindi configurabile che gli animali fossero detenuti nelle condizioni in cui erano “senza
necessità”, al sottodimensionamento dovendosi logicamente ricondurre sia l’eccessiva
immobilizzazione, sia l’esubero del letame rispetto agli spazi disponibili, e quindi le condizioni
insalubri dell’azienda. Che poi gli imputati avessero disponibilità economiche sufficienti a
realizzare nuovi e più ampi ricoveri per il loro bestiame, si osserva per completezza logica in
ordine alla pretesa mancanza di necessità, non è stato affatto adotto nella sentenza impugnata
come esito probatorio, né comunque argomentato. Da tutto ciò consegue, dunque, la
violazione di legge l’addebito del delitto anziché quello della contravvenzione.
Peraltro, una volta riqualificato il reato ascritto nel capo a), entrambi i reati contestati sono
ora contravvenzioni; ed essendo stati accertati il 26 settembre 2008, non emergendo alcuna
sospensione, si deve dare atto che, successivamente alla sentenza di secondo grado, e cioè in
data 26 settembre 2013 per il combinato disposto degli articoli 157 e 161 c.p., è maturata per
entrambi la prescrizione. Poiché, come si è appena visto, i ricorsi non sono manifestamente
infondati quanto meno – a parte ogni altra tematica – per quanto concerne il primo motivo di
ciascuno laddove ha richiesto la riqualificazione del reato sub a), non si può negare la valida
instaurazione del presente grado di giudizio, id est non si può negare che i ricorsi – che non
patiscono peraltro vizi di rito stricto sensu

non sono affetti dalla inammissibilità originaria che

inibisce tale instaurazione come insegna la consolidata giurisprudenza di questa Suprema
Corte (ex multis S.U. 11 novembre 1994-11 febbraio 1995 n.21, Cresci; S.U. 3 novembre
1998 n. 11493, Verga; S.U. 22 giugno 2005 n. 23428, Bracale; Cass. sez. III, 10 novembre
2009 n. 42839, Imperato Franca). Ciò conduce, non emergendo poi dagli atti elementi che
possano giustificare l’applicazione dell’articolo 129, comma 2, c.p.p., alla dichiarazione ex
articolo 129, comma 1, c.p.p. della estinzione dei reati contestati per maturata prescrizione,
con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la impugnata sentenza perché, qualificato il delitto di cui al capo a) come
violazione dell’articolo 727 c.p., i reati sono estinti per prescrizione.
Così deciso in Roma il 17 giugno 2014
Il Consigliere Estensore

Il Presidente

fondatezza del motivo di entrambi i ricorsi, nella parte in cui, appunto, denuncia come

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