Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31448 del 17/06/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 31448 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: GRAZIOSI CHIARA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DOMENICI FRANCESCO N. IL 03/12/1963
avverso la sentenza n. 148/2010 TRIBUNALE di LIVORNO, del
20/11/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/06/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. E che ha concluso per
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Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

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Data Udienza: 17/06/2014

29038/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 20 novembre 2012 il Tribunale di Livorno ha condannato Domenici
Francesco alla pena di C 1840 di ammenda per i reati di cui agli articoli 256, comma 4, d.lgs.
152/2006 (per avere effettuato quale legale rappresentante di Immobiliare Santa Croce Sri
attività di recupero di rifiuti identificati dal codice CER 170504 “terre e rocce da scavo” non
osservando le prescrizioni dell’autorizzazione: capo B) e 674 c.p. (perché, nella stessa qualità,

prodotti inerti nonché dal continuo movimento dei veicoli destinati al trasporto di ciò: capo C),
assolvendolo dal reato di cui all’capo A (per avere, sempre nella stessa qualità, effettuato il
recupero dei rifiuti suddetti senza la prescritta autorizzazione) perché il fatto non sussiste.
2. Ha presentato ricorso il difensore adducendo vizi motivazionali relativi a tutti i capi
d’imputazione. Quanto al capo B, lamenta il ricorrente che il Tribunale si sarebbe fondato sulla
testimonianza di ispettori dell’organo di vigilanza ARPAT senza accertare quali prescrizioni
autorizzative sarebbero state violate, e che comunque l’autorizzazione sarebbe stata rispettata
visto il suo effettivo contenuto. Quanto al capo C, non sarebbe stato affrontato il problema
della valutazione della incidenza delle emissioni sulla salute delle persone. Infine, quanto al
capo A, osserva il ricorrente che il reato non sarebbe stato in alcun modo integrato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è infondato.
3.1 Per quanto concerne il capo A, l’imputato, come si è visto, è stato assolto con formula
piena (perché il fatto non sussiste), per cui l’impugnazione è priva di interesse, e

provocava omissioni di polveri derivanti dallo stoccaggio e dalla macinazione delle macerie e di

conseguentemente è inammissibile ex articolo 591, comma 1, lettera a), c.p.p.
3.2 Per quanto riguarda, invece, il capo B, il ricorrente lamenta che il Tribunale ha ritenuto
integrato reato sulla base di alcune testimonianze degli ispettori dell’organo di vigilanza ARPAT
senza però richiamare quali fossero state le prescrizioni autorizzative violate. Pertanto la
motivazione sarebbe affetta da “estrema contraddittorietà” e “manifesta illogicità”.
La censura – a prescindere dal fatto che non si tratterebbe di vizio di
illogicità/contraddittorietà, bensì semmai d’insufficienza motivazionale – non trova riscontro
nella sentenza impugnata. Osserva infatti il giudice di merito che le prescrizioni violate
consistevano, come emerge dallo stesso capo d’imputazione, in particolare nell’avere
l’imputato “omesso di realizzare un sistema di canalizzazione e raccolta delle acque

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meteoriche” e nel non avere “provveduto a separare le aree di stoccaggio rifiuti da quelle

stoccaggio materie prime”, nel non avere “protetto i cumuli di rifiuti inerti dalle acque
meteoriche e dall’azione del vento” e infine nel non avere “effettuato i prescritti periodici
controlli analitici”. E in corrispondenza a questa specifica imputazione, il Tribunale dà atto che
Macera Nicoletta e Papucci Ilaria, in servizio presso l’ARPAT, hanno dichiarato di aver
constatato nell’ambito dei tre sopralluoghi da loro effettuati proprio che l’impianto non era
provvisto di rete di canalizzazione delle acque, le materie prime e seconde che si producevano
non erano separate, i cumuli in cui erano distribuite le tre attrezzature derivata dal
trattamento dei rifiuti erano attigui e addirittura tra le macerie (la non separazione dei cumuli

dell’imputato). Inoltre la teste Papucci ha dichiarato che dal test di cessione per valutare
l’ecocompatibilità consegnato dallo stesso imputato risultava il superamento dei limiti previsti,
e la teste Macera ha specificato trattarsi dei limiti di cloruri e solfati, nonché che il test si
riferiva comunque al 2007 mentre per le caratteristiche prestazionali erano stati forniti soltanto
certificati analitici del 2003, così violandosi il punto b) della autorizzazione dirigenziale. La
motivazione considera puntualmente anche le caratteristiche del sistema di irrigazione (in
questo caso aggiungendo alla deposizione Macera le dichiarazioni di altri testi (Orlandini
Simone e Terreni Emiliano) e della protezione dal vento (affiancando alla deposizione delle due
dipendenti dell’ARPAT le deposizioni del teste Testa Aldo), esaminando al riguardo anche le
dichiarazioni del teste di difesa Besnic (che reputa inattendibili) e comunque le difese
dell’imputato. Risulta pertanto manifestamente infondata la doglianza in esame.
A tale doglianza emersa come inconsistente, poi, sempre per il reato di cui al capo B, il
ricorrente aggiunge altre censure che, a ben guardare, rivestono una natura fattuale:
argomenta infatti sul contenuto dell’autorizzazione che gli è stato contestato di avere violata,
la quale a suo dire non imponeva la raccolta delle acque meteoriche e nulla diceva sullo
stoccaggio delle materie ottenute, che avrebbero pertanto potuto essere anche stoccate
attigue; adduce altresì che sempre nell’atto autorizzativo si sarebbe lasciato libero
l’imprenditore di attuare sistemi di captazione per evitare il disperdersi delle polveri e nega che
siano stati misurati i cumuli di messa in riserva dei rifiuti, concludendo con la negazione della
violazione relativa ai cloruri e ai solfati “che niente attengono al mancato rispetto delle
prescrizioni”. In tal modo, il ricorrente persegue una verifica fattuale degli esiti probatori (e in
particolare del contenuto dell’autorizzazione) in questa sede inammissibile.
3.3 Per quanto riguarda il reato di cui al capo C, ovvero il reato previsto dall’articolo 674 c.p.,
lamenta il ricorrente che il giudice non si sarebbe “neanche posto il problema della valutazione
delle emissioni” perché, ritenendo come dato incontrovertibile che dall’impianto si fossero
“generate polveri aerodisperse”, avrebbe ritenuto il reato integrato in re ipsa, laddove avrebbe
dovuto analizzare se le emissioni erano in grado di porre in pericolo la salute delle persone.
In realtà, l’articolo 674 c.p. pone a fianco del getto o versamento delle cose la emissione di
gas, vapore o fumo, tutte condotte che rilevano come causa di pericolo nel senso di essere
“atte a offendere o imbrattare o molestare persone”. Non è quindi necessario per integrare il

è stata confermata, osserva il Tribunale, anche dal teste della difesa Salio Besnic, dipendente

reato che le emissioni causino un pericolo alla salute, essendo sufficiente anche la mera
molestia o l’imbrattamento delle persone (per un’ipotesi di diffusione dell’atmosfera di polveri
atte a molestare come mero fastidio fisico le persone che si trovano nella zona quale reato ex
articolo 674 c.p. v. Cass. sez. III, 18 dicembre 2008-17 aprile 2009 n. 35730). Nel caso di
specie, dunque, il Tribunale, dopo avere illustrato come l’emissione di polveri nell’aria doveva
ritenersi derivata dall’omesso rispetto delle prescrizioni autorizzative da parte dell’imputato, e
avere richiamato a prova delle emissioni stesse le fotografie e un esposto di persone che se ne
lamentavano, ha correttamente ritenuto sussistente il reato di cui all’articolo 674 c.p., non

determinare se le emissioni mettevano in pericolo la salute delle persone. Anche questa
doglianza non ha quindi pregio.
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile,
(il che impedisce la formazione di un valido rapporto processuale di impugnazione che
consentirebbe di valutare la presenza di eventuali cause di non punibilità ex articolo 129 c.p.p.
(S.U. 22 novembre 2000 n. 32, De Luca; in particolare, l’estinzione del reato per prescrizione è
rilevabile anche d’ufficio a condizione che il ricorso sia idoneo a introdurre un nuovo grado di
giudizio, cioè non risulti affetto da inammissibilità originaria come invece si è verificato nel
caso de quo: ex multis v. pure S.U. 11 novembre 1994-11 febbraio 1995 n.21, Cresci; S.U. 3
novembre 1998 n. 11493, Verga; S.U. 22 giugno 2005 n. 23428, Bracale; Cass. sez. III, 10
novembre 2009 n. 42839, Imperato Franca) con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi
dell’art.616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto
della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato
che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma,
determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di €1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma il 17 giugno 2014

Il Consi

e Estensore

DEPOSITATA IN CANCELLERIAI Presidente

essendo condivisibile l’asserto che avrebbe dovuto invece effettuare specifiche analisi per

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