Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31390 del 23/06/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 31390 Anno 2015
Presidente: FRANCO AMEDEO
Relatore: ROSI ELISABETTA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MAGLIONE GIUSEPPE N. IL 26/07/1957
avverso l’ordinanza n. 89/2014 TRIB. LIBERTA’ di POTENZA, del
23/09/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ELISABETT
12re/sentite le conclusioni del PG Dott.
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Data Udienza: 23/06/2015

RITENUTO IN FATTO
1. L’indagato Maglione Giuseppe ha presentato ricorso in cassazione ex art. 325
c.p.p., per l’annullamento dell’ ordinanza del 23 settembre 2014, depositata il 10
dicembre 2014, con la quale il Tribunale di Potenza, in funzione di giudice del
riesame, ha confermato il decreto di sequestro preventivo del 12 giugno 2014
adottato dal GIP dello stesso Tribunale, avente ad oggetto beni e somme in
disponibilità del Maglione, fino alla concorrenza della somma di 1.189.189,00
euro, indagato del reato – commesso dal medesimo nella qualità di legale
rappresentante della società Maglione auto motive srl – di omesso versamento

imposta 2009 e 2010.
2. Nel corso del procedimento non è stata posta in discussione la materialità del
fatto, atteso che la società ha espressamente riconosciuto di essere debitrice
della somme relative all’IVA dovuta negli anni in riferimento. Secondo il
Tribunale di Potenza la responsabilità penale per tale fatto di reato grava sul
legale rappresentante, atteso che per la commissione di reato è sufficiente il dolo
generico e la contrazione delle commesse, e di conseguenza del fatturato, non
può valere ad escludere il fumus delicti. Né può avere rilevanza il fatto che l’art.
7 del D.L. n. 269 del 2003 preveda una responsabilità autonoma in via
amministrativa in capo alla persona giuridica.
3. Il ricorrente ha lamentato:
1) Violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione la mancata
corresponsione del debito fiscale e delle sanzioni, in quanto le sanzioni
amministrative sono esclusivamente a capo della persona giuridica, trattandosi di
all’art. 7 D.L. n. 260 del 2003, dovendosi escludere la responsabilità del legale
rappresentante per disposizione speciale rispetto al d.lgs n. 472/97, per cui la
pregressa disposizione dell’art. 11 del dlgs n. 472 non è più giuridicamente
sussistente e non vi è alcuna solidarietà tra persona giuridica e legale
rappresentante, come confermato dalla giurisprudenza di Cassazione;

l’amministratore risponde solo per la conservazione del patrimonio sociale.
L’ordinanza impugnata ha invece scisso gli effetti del mancato versamento IVA
attribuendo la responsabilità amministrativa alla società e quella penale al legale
rappresentante, sul presupposto della sua responsabilità per il mancato
accantonamento dell’importo IVA. La tesi è del tutto svincolata dalla gestione
legale delle società come prevista dal codice civile, che stabilisce quali siano
accantonamenti legali, mentre quello destinato al pagamento IVA sarebbe in
concreto una violazione del grado dei privilegi disposto dall’art. 2745 c.c., in

quanto VIVA verrebbe riscossa con prededuzione dai ricavi di esercizio, in
contrasto con la corretta gestione delle risorse finanziarie già esposte dal
ricorrente innanzi al riesame e riassunte nel ricorso, dalle quali emerge la crisi di

dell’IVA (di cui all’art. 10 ter D.Lgs. n. 74 del 2000), in relazione agli anni di

liquidità connessa alla drastica riduzione del fatturato (del 60%) per la crisi del
committente unico FIAT SATA dall’inizio del 2010, dovendo garantire i salari degli
addetti sia nel 2010 che anche nel 2011, nonostante l’interruzione dell’attività,
per cui la società è stata nell’oggettiva impossibilità del pagamento dell’IVA alla
scadenza;
2) Violazione dell’art. 606, lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all’art. 322-ter c.p.p.
per difetto di responsabilità penale del ricorrente. La motivazione del Tribunale è
carente di logica consequenzialità, in quanto è stato provato il motivo del
mancato versamento IVA e, di contro, i giudici del riesame hanno valutato la

alla dichiarazione annuale di debito IVA e, quindi alla conoscenza del debito.
Mentre manca nel caso di specie la volontarietà dell’inadempimento, essendo lo
stesso riconducibile a fatti oggettivi ed alla anomala crisi aziendale, il Tribunale
del riesame pretende dall’indagato una condotta inesigibile per fatto oggettivo
attesa la corretta gestione della società. Quindi il giudice non ha svolto un
accertamento concreto del fumus commissi delicti, essendosi limitato ad una
postulazione formale offerta dal pubblico ministero, in contrasto con quanto
affermato in giurisprudenza. Né è stata precisata l’attinenza tra i beni personali
dell’indagato sottoposti a sequestro e l’esercizio della società, trattandosi di beni
personali, di provenienza ereditaria o dall’attività di altre compagini societarie.
4. Con motivi aggiunti, depositati l’8 giugno 2015, i difensori hanno censurato
l’ordinanza avuto a riguardo alle seguenti violazioni di legge: 1) dell’art. 325
c.p.p., essendo la confisca per equivalente subordinata all’impossibilità di
applicare la confisca diretta del profitto, mentre il Tribunale del riesame non ha
effettuato alcun accertamento circa la rinvenibilità del profitto presso la persona
giuridica; b) manca il fumus delicti, attesa l’insussistenza dell’elemento
psicologico del dolo, atteso che l’omesso versamento IVA è stato dovuto ad una
provvisoria indisponibilità economica della società; c) risulta violato il termine di
cui all’art. 309 commi 9 e 10 c.p.p. atteso che il Tribunale ha depositato il 23
settembre 2014 il solo dispositivo dell’udienza camerale.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va premesso che, a norma dell’art. 325 c.p.p., il ricorso per cassazione può
essere proposto soltanto per violazione di legge. Secondo le Sezioni Unite di
questa Corte (sentenza n.5876 del 28/1/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua,
Rv.226710), nella nozione di “violazione di legge” rientrano la mancanza
assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in
quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, quali ad esempio
l’art. 125 c.p.p., che impone la motivazione anche per le ordinanze, ma non la
manifesta illogicità della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di

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responsabilità penale senza alcuna motivazione sul dolo addebitabile, ricondotto

legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso dall’art.
606 c.p.p., lett. e). Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi dalle stesse
Sezioni Unite con la sentenza n.25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 25932,
secondo cui nella violazione di legge debbono intendersi compresi sia gli “errores
in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da
rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del
tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e
ragionevolezza e quindi inidonee a rendere comprensibile l’itinerario logico
seguito dal giudice.

che sussistesse il fumus del reato ipotizzato, senza che potesse avere alcun
rilievo il disposto di cui all’art. 7 del di n. 269 del 2003. E’ stato ripetutamente
affermato che il reato di cui all’art. 10 ter del d.lgs n. 74 del 2000, che ha natura
di reato omissivo a carattere istantaneo e si perfeziona con l’omesso pagamento
alla scadenza del termine, è ascrivibile all’amministratore e non all’Ente da lui
amministrato, in relazione al quale, come questa Corte ha statuito, non è
ravvisabile alcuna responsabilità da reato per la mancanza di una espressa
previsione legislativa in tal senso, sicchè non ha senso dolersi del fatto che non
sia stato attivato il procedimento per l’illecito amministrativo tributario nei
confronti dell’ente, non potendo tale corpus normativo spiegare rilevanza
nell’ambito dei criteri di imputazione della responsabilità penale che vanno
applicati nel caso di specie.
3. Quanto poi alle argomentazioni relative alla gestione legale della società ed
alla presunta violazione legale dell’ordine dei privilegi, va rilevato che è proprio
la prudente gestione del bilancio e la chiarezza dello stesso, che vengono ad
essere garantite dal corretto accantonamento delle imposte dovute, quale
auspicabile condotta virtuosa esigibile dal legale rappresentante; non può infatti
essere invocato il criterio di riparto del patrimonio tra i diversi creditori in
relazione al titolo del loro credito, riparto che potrebbe divenire operativo solo in
una futura e futuribile fase liquidatoria, quale criterio di gestione dell’ordinaria
attività societaria.
4. Quanto al secondo motivo di ricorso, occorre ricordare che in tema omesso
versamento dell’imposta sul valore aggiunto, ai fini dell’esclusione della
colpevolezza è irrilevante la crisi di liquidità del debitore alla scadenza del
termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano
state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo
(cfr. Sez. 3, n. 2614 del 6/11/2013, Saibene, Rv. 258595). La giurisprudenza
più recente ha insisto sull’onere probatorio che grava sul responsabile
dell’omissione del pagamento di imposta in riferimento non solo alla non
imputabilità alla sua gestione della crisi economica, che improvvisamente

2. Il Tribunale, con motivazione non certo apparente ed apodittica, ha ritenuto

avrebbe investito l’azienda, ma anche alla circostanza che detta crisi non potesse

essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da
valutarsi in concreto. E’ quindi necessario che venga fornita la prova che non sia
stato possibile, alla scadenza per il pagamento, reperire altrimenti risorse
economiche e finanziarie necessarie all’adempimento delle obbligazioni
tributarie, “pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli
per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza
di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito
erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli

dolo; i motivi della scelta non lo escludono” (cfr. Sez. 3, n. 8352 del 24/6/2014,
Schirosi, Rv. 263128).
5.

Ciò significa che

va attribuita rilevanza alla impossibilità oggettiva di

adempiere solo se dovuta a causa di forza maggiore, circostanza che deve
essere esclusa, in presenza di un possibile margine di scelta, ed invece può
essere affermata, quando deriva da fatti non ascrivibili al soggetto responsabile
delle scelte aziendali, il quale non abbia potuto porre tempestivamente rimedio
alla situazione “per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo
dominio finalistico”.
6. Nel caso in esame, l’ordinanza impugnata ha ritenuto, allo stato delle indagini,
non raggiunta la prova di tale impossibilità ad adempiere sulla scorta della sola
dimostrazione della riduzione delle commesse, e quindi del fatturato,
richiamando, con argomentazione adeguata e perciò condivisibile, la necessità di
una più completa ricostruzione della situazione patrimoniale della società.
Nell’attuale fase cautelare, gli elementi forniti dall’istante non sono perciò idonei
a contrastare le valutazioni espresse dal Tribunale del riesame e quanto alla
dedotta mancanza di collegamento tra beni sequestrati e le attività della società
Maglione Automotive, non può che essere confermato quanto esposto
nell’ordinanza impugnata circa l’irrilevanza di tale constatazione, attesa la natura
di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.
7. Per quanto attiene ai motivi aggiunti, il secondo motivo risulta meramente
reiterativo della doglianza in materia di fumus delicti, in riferimento al profilo
psicologico, doglianza alla quale è stata data risposta con quanto già esposto in
precedenza considerata la sussistenza del fumus del dolo generico, richiesto
quale elemento costitutivo della fattispecie, valutata dal Collegio del riesame.
8. Per quanto attiene invece al primo motivo aggiunto, va qui ricordato che la
giurisprudenza ha affermato che il profitto confiscabile, anche nella forma per
equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente
conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un
risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo,

non imputabili”, tanto che è stato affermato che “la scelta di non pagare prova il

interessi, sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez.
un., n. 18734 del 31/1/2013, Adami, Rv. 255036). Va qui ricordato che il profitto
in denaro è sequestrabile direttamente nelle giacenze attive presso i conti della
persona fisica o della società (cfr. Cass S.U. 10561/2014, Gubert). Sempre tale
supremo consesso ha precisato che è legittimo nei confronti di una persona
giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni
fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario
commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o
beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona

transitoria, di procedere a tale vincolo in via diretta, situazione che consente
l’aggressione dell’equivalente di tale profitto. Ed è quanto avvenuto nel caso di
specie. D’altra parte, la menzionata decisione delle Sezioni Unite ha sottolineato
che non è necessario attivare preliminarmente una ricerca generalizzata dei beni
costituenti il profitto di reato stesso, tanto che non è consentito il sequestro
preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona
giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto
dagli organi della persona giuridica stessa (salvo che la persona giuridica sia uno
schermo fittizio).
9. Orbene a tale proposito non è fondata la censura di mancata motivazione
dell’ordinanza impugnata e neppure quella del provvedimento cautelare emesso
dal G.i.p. e della relativa richiesta della Procura della Repubblica, atti che questo
Collegio è legittimato ad esaminare essendo stata censurata la assoluta carenza
motivazionale. Di contro la problematica in questione è stata attentamente
esaminata sin dalla fase della richiesta, avente ad oggetto il vincolo nel limite
quantitativo del profitto, riservando alla fase esecutiva l’individuazione del beni
da sottoporre a sequestro preventivo nel pieno rispetto del principi di diritto che
privilegiano il vincolo diretto del profitto, rispetto a quello dei beni per
equivalente. D’altra parte nessuna censura sullo specifico punto fu sollevata
innanzi al Tribunale del riesame, per cui nessuna doglianza in ordine ad una
omessa pronuncia può essere sollevata in riferimento al corpus motivazionale
dell’ordinanza del Collegio cautelare.
10. Quanto al terzo motivo aggiunto, va peraltro subito evidenziato che lo
stesso è del pari infondato, in quanto il termine di dieci giorni imposto, a pena di
decadenza della misura cautelare reale, dal combinato disposto degli artt. 324,
c.7, e 309, c.9 e 10 c.p.p. per la decisione da parte del Tribunale del riesame,
decorre dal giorno della ricezione degli atti processuali e non sussiste alcuna
perdita di efficacia della misura nel caso in cui la decisione sulla richiesta di
riesame, completa di motivazione, sia depositata oltre il termine di dieci giorni
quando, entro il previsto termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, il

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giuridica, ma deve essere considerata rilevante l’impossibilità, seppure

tribunale del riesame abbia deliberato in merito alla richiesta ed abbia depositato
il dispositivo, poichè la motivazione, in applicazione della norma generale sul
procedimento camerale, può essere depositata nel termine ordinatorio di cinque
giorni dalla deliberazione (cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 38105 del 12/10/2006,
Trombin e altro, Rv. 235760).
11. D’altra parte, quanto osservato a proposito del motivo suddetto risulta nel
caso di specie qualificabile quale obiter, atteso che, seppure i motivi nuovi in
sede cautelare possono essere enunciati sino a che non sia iniziata la
discussione, è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che gli

quali si riferisce l’impugnazione originaria (cfr. Sez. 1, n.46711 del 14/7/2011,
dep. 19/12/2011, Colitti, Rv. 251412 e Sez. U, n. 4683 del 25/2/1998, dep.

20/4/1998, Bono, Rv. 210259), ciò perché la “novità” è riferita ai “motivi”, ossia
“alle ragioni che illustrano ed argomentano il gravame su singoli capi o punti
della sentenza impugnata, già censurati con il ricorso” (così Sez. 1, n.40932 del
26/5/2011, dep. /11/2011, Califano e altri, Rv. 251482), non potendo l’elemento
della novità essere utilizzato per introdurre nuovi capi o punti di impugnazione,
in deroga al termine temporale previsto per la presentazione del ricorso (in tal
senso, cfr. Sez. 5, n. 1070 del 14/12/1999, dep. 1/2/2000, Tonduti ed altri, Rv.
215669)
Pertanto il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente va condannato al
pagamento delle spese processuali.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2015

Il

igliere estensore

Il Presidente

stessi possono investire soltanto i capi o i punti della decisione impugnata ai

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