Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31378 del 14/01/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 31378 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: GRILLO RENATO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GHIDINI GABRIELLA CELESTINA N. IL 16/04/1948
avverso la sentenza n. 1231/2014 CORTE APPELLO di BRESCIA, del
24/06/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 14/01/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. RENATO GRILLO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. roi Lb o Po C#
che ha concluso per 14, QzG,t–rr o

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

O

Data Udienza: 14/01/2015

RITENUTO IN FATTO

1.1 Con sentenza del 24 giugno 2014, la Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma
della sentenza del Tribunale di quella città del 17 gennaio 2014 con la quale GHIDINI Gabriella
Celestina era stata ritenuta colpevole del reato di omesso versamento delle ritenute
previdenziali per i lavoratori dipendenti (art. 2 della L. 638/83) relative al periodo compreso tra
marzo e dicembre 2007 e condannata alla pena ritenuta di giustizia, escludeva la contestata

300,00 di multa, confermando nel resto.
1.2 Avverso la detta sentenza ricorre l’imputata personalmente sollevando, con un primo
motivo, eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen. per violazione
dell’art. 117 Cost. in riferimento all’art. 4 Prot. 7 CEDU: rileva, in proposito, la ricorrente che
essendo stata la stessa già condannata in via definitiva per il medesimo fatto storico al
pagamento di una sanzione civile ai sensi dell’art. 116 comma 8 lett. a) della L. 388/00,
sarebbe affetto da illegittimità costituzionale l’art. 649 del codice processuale di rito per
contrasto con l’art. 117 Comma 1 Cost. nella parte in cui non prevede che procedimenti non
qualificati formalmente come penali, ma aventi natura sostanzialmente penale possano
determinare il proscioglimento dal reato per il principio del

ne bis in idem. Richiama, al

riguardo, i contenuti della sentenza emessa dalla CEDU nella causa Grande Stevens ed altri c.
Italia del 4 marzo 2014 ed i principi di diritto in essa richiamati tra i quali il divieto del doppio
grado di giudizio in materia penale; la natura sostanzialmente penale della sanzione civile in
quanto afflittiva; l’identità del fatto e del reato. Con un secondo motivo la ricorrente lamenta
vizio di motivazione per contraddittorietà e/o illogicità manifesta con specifico riferimento al
profilo afferente alla crisi di liquidità dell’azienda ritenuta irrilevante dalla Corte ed alla
correlata carenza dell’elemento psicologico del reato (dolo), pur a fronte delle specifiche
doglianze formulate sul punto con l’atto di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso non è fondato: l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc.
pen. nei termini prospettati dalla ricorrente, a giudizio del Collegio, è manifestamente
infondata.
1.1 Si osserva da parte della ricorrente che, avendo la stessa subito una sanzione civile ai
sensi dell’art. 116 comma 8 lett. a) della L. 388/2000 conseguente al mancato pagamento dei
contributi, tale sanzione per la sua natura afflittiva acquisirebbe caratteristiche proprie della
sanzione penale. E poiché la sanzione penale prevista dall’art. 2 comma 1 bis della L. 638/83
consegue all’omesso versamento dei contributi per il medesimo periodo di riferimento oggetto
della sanzione civile, ciò costituirebbe il presupposto della identità del fatto sulla quale si è poi

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recidiva e, per l’effetto, riduceva la pena originariamente inflittale a mesi sei di reclusione ed C

,

sviluppato il percorso argomentativo della CEDU con la menzionata sentenza Grande Stevens
c. Italia.
1.2 La ricorrente, al fine di dimostrare l’incostituzionalità della norma processuale penale
(art. 649 cod. proc. pen.) nella parte in cui non prevede la possibilità del proscioglimento in
applicazione del principio del divieto del bis in idem per fatti identici assoggettati a due diverse
sanzioni aventi, però, identica natura, richiama le argomentazioni sviluppate dalla CEDU con la
ricordata sentenza del 4 marzo 2014.

Consob, l’avvio di un processo penale sugli stessi fatti violerebbe il principio giuridico del ne bis
in idem, in virtù del quale non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto. I ricorrenti,
infatti, dopo essere stati sanzionati nel 2007 dalla Consob, erano stati rinviati a giudizio, per
essere poi assolti in primo grado e condannati in appello.
2.1 Anche se il processo celebrato innanzi alla CONSOB ha natura amministrativa, secondo
la Corte di Strasburgo le sanzioni inflitte possono essere parificate alle sanzioni penali in
considerazione dell’eccessiva afflittività della sanzione sia per l’importo in sé considerato che
per le sanzioni accessorie ed ancora per le loro ripercussioni sugli interessi del condannato: in
quanto sanzioni penali, le sanzioni “amministrative” devono dunque osservare le garanzie che
l’art. 6 CEDU riserva ai processi penali.
2.2 La Corte ha così riconosciuto un indennizzo ai ricorrenti per la violazione da parte
dell’Italia dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione (diritto a un giusto processo in tempi
ragionevoli) nonché dell’articolo 4 del protocollo n. 7 (diritto a non essere giudicati o puniti due
volte per i medesimi fatti).
3. Come è noto l’art. 4 del Protocollo n. 7 sancisce il c.d. principio del “ne bis in idem”,
laddove si afferma che “Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla
giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a
seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale
Stato”.
3.1 Tale principio, concepito in origine con riguardo esclusivamente ai reati penali, viene
applicato dalla CEDU anche con riferimento al rapporto tra procedimento penale e
procedimento amministrativo o meglio, viene utilizzato con riferimento a quest’ultimo, laddove
la sanzione che esso preveda abbia natura sostanzialmente penale.
3.2 Premessa ineludibile per l’applicabilità del principio del

ne bis in idem è quindi

l’individuazione della natura penale di una sanzione.
3.3 La stessa CEDU ha avuto modo di consolidare una giurisprudenza ai sensi della quale,
per stabilire la sussistenza di una “accusa in materia penale”, occorre effettuare una
valutazione sulla base di tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto

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2. Secondo i giudici della Corte Europea, dopo che sono state comminate sanzioni dalla

nazionale, la natura stessa di quest’ultima, e la natura e il grado di severità della “sanzione”
(cfr. sent. Engel e altri c. Paesi Bassi).
4. Riassunte nei termini testè enunciati le linee direttrici della sentenza CEDU, occorre
analizzare quali siano le conseguenze derivanti da una eventuale incompatibilità delle norme
interne rispetto alle convenzioni internazionali indicate dalla CEDU.
5. Muovendo dal presupposto che le conseguenze nascenti dai principi giuridici enunciati
nella sentenza CEDU del 4 marzo 2014 assumono rilievo specifico nell’ordinamento interno e

individuato nell’art. 117 comma 1 Cost. il parametro costituzionale al quale il legislatore
interno deve fare riferimento nell’ambito del dovere primario di rispettare gli obblighi assunti in
ambito internazionale, al fine di verificare la compatibilità delle norme interne rispetto a quelle
della CEDU, può affermarsi che, una volta accertata l’incompatibilità della norma nazionale
rispetto all’art. 117 comma 1 Cost„ si è in presenza di una norma incostituzionale.
5.1 Laddove non sia possibile una interpretazione conforme, va escluso che il giudice
interno possa disapplicare una disposizione di legge ordinaria ritenuta non conforme alla
Convenzione internazionale, dovendosi invece percorrere obbligatoriamente – come ricordato
nelle richiamate sentenze della Corte Costituzionale – la strada di sollevare la questione di
legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117 comma 1 Cost.
6. Sulla base di tali premesse occorre allora riguardare, alla luce dei criteri indicati dalla
Corte di Strasburgo, la natura della sanzione prevista dall’art. 116 comma 8 lett. a) della L.
388/00 onde verificare se le sue caratteristiche possano incidere sulla sua qualificazione in
termini assimilabili a quelli propri della sanzione penale.
7. Detta norma recita testualmente:

“I soggetti che non provvedono entro il termine

stabilito al pagamento dei contributi o premi dovuti alle gestioni previdenziali ed assistenziali,
ovvero vi provvedono in misura inferiore a quella dovuta, sono tenuti:
a) nel caso di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi, il cui ammontare e’
rilevabile dalle denunce e/o registrazioni obbligatorie, al pagamento di una sanzione civile, in
ragione d’anno, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato di 5,5 punti; la sanzione civile
non puo’ essere superiore al 40 per cento dell’importo dei contributi o premi non corrisposti
entro la scadenza di legge”
7.1 La collocazione della norma in un complesso legislativo avente quale finalità, secondo
l’intitolazione dell’art. 116, quella della adozione di misure atte a favorire l’emersione del
lavoro irregolare”, esclude la natura penale della sanzione tanto più che il successivo comma
12 dello stesso articolo stabilisce il primato delle sanzioni penali previste per gli omessi
versamenti di contributi o premi, rispetto alle sanzioni amministrative già previste che vengono
invece abolite

(“Ferme restando le sanzioni penali, sono abolite tutte le sanzioni

amministrative relative a violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatorie

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ricordato, anche, che la Corte Costituzionale con le note sentenze 348/07 e 349/07 ha

consistenti nell’omissione totale o parziale del versamento di contributi o premi o dalle quali
comunque derivi l’omissione totale o parziale del versamento di contributi o premi, ai sensi
dell’articolo 35, commi secondo e terzo, della legge 24 novembre 1981, n. 689, nonchè a
violazioni di norme sul collocamento di carattere formale”).

La tipologia della sanzione

disciplinata dal ricordato comma 8 dell’art. 116 rientra quindi nel novero di quelle civili.
7.2 In coerenza con i principi esposti nella sentenza Grande Stevens c. Italia, va verificato
allora, al di là del nomen juris attribuito alla sanzione prevista dal ricordato art. 116 comma 8,

è negativa in quanto mentre la sanzione prevista dall’art. 2 comma 1 bis della L. 683/38 mira a
tutelare il diritto del lavoratore in danno del quale il datore di lavoro si è appropriato delle
somme a lui riservate (tanto che comunemente il delitto previsto dalla legge sopra ricordata
viene accostato alla figura dell’appropriazione indebita), la sanzione contemplata nell’art. 116
citato ha effetti ristoratori verso l’INPS e dunque assume caratteri sostanzialmente, e non solo
formalmente, civilistici.
7.3 Ciò esclude in radice la possibilità di considerare l’identità del fatto, come
erroneamente prospettato dalla ricorrente, in quanto per identità del fatto non basta certo la
medesimezza dell’avvenimento storico, ma occorre che siano identici tutti i tratti caratteristici.
7.4 Inoltre, non può certo attribuirsi carattere di particolare afflittività alla sanzione civile
tale da farla assimilare ad una sanzione penale tenuto conto anche dei limiti massimi
insuperabili ai quali parannetrare la sanzione irrogabile.
7.5 In assenza, allora, delle condizioni necessarie per potersi parlare di sanzioni, seppur
formalmente diverse per il loro nomen juris, identiche dal punto di vista della afflittività e
fermo restando che gli indici indispensabili per poter ritenere violato l’art. 4 prot. 7 della CEDU
non sono soltanto quelli collegati alla afflittività della sanzione, ma anche quelli legati alla
intrinseca natura di essa che, nel caso in esame, è, e resta, esclusivamente civile anche per le
finalità che vengono perseguite, l’eccepita questione di incostituzionalità della norma ai sensi
dell’art. 117 comma 1 della Cost. in relazione all’art. 4 par. 7 del trattato CEDU va ritenuta
manifestamente infondata.
8. Passando all’esame del secondo motivo del ricorso, esso appare invece manifestamente
infondato. La Corte territoriale ha, in modo esaustivo e pienamente convincente sul piano
logico, escluso che l’azienda della ricorrente versasse in una situazione di illiquidità alla
scadenza dei singoli versamenti mensili rilevando come il piano di rateizzazione concordato con
la società Equitalia dimostrasse soltanto che al momento dell’ammissione al pagamento
dilazionato la situazione della ricorrente era di temporanea obiettiva difficoltà ma non di
illiquidità assoluta.
8.1 Ma al di là di tale circostanza di fatto – i cui rilievi da parte della ricorrente si risolvono
in censure improponibili in questa sede perché contenenti profili fattuali non esaminabili in
4

se essa assuma una natura intrinsecamente penale o meno: la risposta, a giudizio del Collegio,

.sede di legittimità – va ricordato, come peraltro già argomentato dalla Corte territoriale, che,
anche a voler ritenere fondato il rilievo della crisi di liquidità, la giurisprudenza di questa
Suprema Corte è concorde nell’escludere ogni rilevanza, sotto il profilo soggettivo, alla
circostanza che il datore di lavoro stia attraversando una fase di criticità e destini le proprie
risorse finanziarie per fare fronte a debiti di altra natura ( come, in ipotesi, il pagamento degli
emolumenti ai dipendenti) ritenuti più urgenti: ciò in dipendenza del fatto che l’elemento
soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice è il dolo generico costituito, dalla consapevole

19.12.2013 n. 3705, P.G. in proc. casella, Rv. 258056; idem 19.1.2011 n. 13100, Biglia, Rv.
249917).
8.2 Nessun vizio di motivazione nei termini denunciati dalla ricorrente ricorre nel caso in
esame essendosi la Corte territoriale adeguata ai principi elaborati dalla giurisprudenza di
questa Corte Suprema e costituendo, anzi, le doglianze sollevate dalla GHIDINI mera
riproposizione di censure già sollevate con l’atto di appello e congruamente vagliate dalla Corte
di Appello.
9. Il ricorso va, in conclusione rigettato. Segue la condanna della ricorrente al pagamento
delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Dichiara manifestamente infondata la dedotta questione di illegittimità
costituzionale. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 14 gennaio 2015
Il

tensore

Il Presidente

scelta da parte del soggetto obbligato di omettere il versamento di quanto dovuto (sez. 3^

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