Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 31203 del 20/03/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 31203 Anno 2015
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: CASA FILIPPO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PAPALIA DOMENICO N. IL 18/04/1945
avverso l’ordinanza n. 887/2013 TRIB. SORVEGLIANZA di
SASSARI, del 06/02/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FILIPPO CASA;
lette/sratite le conclusioni del PG Dott.
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Uditi difensor Avv.;

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Data Udienza: 20/03/2015

RITENUTO IN FATTO

1. PAPALIA Domenico presentava istanza al Magistrato di Sorveglianza di Nuoro per
ottenere il ripristino del regime di permessi premio di cui già aveva goduto sino al 1992,
evidenziando:
– che aveva integralmente già espiato la quota di pena inflittagli per i reati cd. ostativi

co. 1, 0.P., pari ad anni 38 di reclusione;
– che poteva accedere allo strumento trattamentale dei permessi premio in forza di
quanto affermato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 504/95;
– che aveva maturato un grado sufficiente di rivisitazione critica del proprio passato
deviante, tanto da aver visto revocato il regime di cui all’art. 41 bis O.P. e da aver più volte
richiesto il declassamento dal circuito “AS” a quello dei detenuti comuni.
2. Con decreto del 24.7.2013, il Magistrato adìto rigettava l’istanza di permesso,
osservando:
– che l’invocato principio di non regressione trattamentale per fatto non imputabile al
detenuto (affermato nella sentenza della Corte Costituzionale invocata dal detenuto) non
poteva trovare applicazione nel caso di specie, dato che l’interessato aveva commesso
ulteriori gravissimi reati dopo la fruizione dei permessi premio e nelle more dell’entrata in
vigore dell’art. 4 bis O.P. (tanto che i Tribunali di Sorveglianza di Brescia e Milano
revocarono i benefici di cui all’art. 54 O.P. concessi sino al 1993);

che l’affermazione in ordine all’avvenuta espiazione delle pene detentive

temporanee inflitte per reati cd. assolutamente ostativi non teneva in considerazione la
circostanza che anche le pene perpetue in corso di esecuzione dovevano reputarsi ostative pur in difetto di contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/91 – in quanto
irrogate per omicidi deliberati ed eseguiti per agevolare cosche mafiose di riferimento o
alleate, ovvero causati da contrasti in ambito di criminalità organizzata: pertanto, in difetto
di collaborazione attiva ai sensi dell’art. 58 ter O.P. e di collaborazione inesigibile e/o
impossibile (non invocata), il beneficio premiale di cui all’art. 30 ter O.P. non doveva
reputarsi ammissibile.
3. Avverso il decreto proponeva reclamo il detenuto, rilevando:
– che i reati omicidíari per i quali era stata inflitta la pena perpetua non potevano
reputarsi ostativi in difetto della contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/91;
– che gli omicidi, comunque – come anche riconosciuto dall’ordinanza della Corte di
Assise di Milano 21.11.2012 che aveva negato la continuazione tra tali delitti e il reato

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(artt. 416 bis, 630 c.p., 74 D.P.R. n. 309/90), tutti ricompresi nella previsione dell’art. 4 bis,

associativo mafioso – dovevano ritenersi deliberati per finalità personali ed estranee al
contesto criminale organizzato;
– che, qualora si fosse voluto insistere sul terreno dell’ergastolo ostativo, esso istante
si trovava nell’impossibilità di fornire ormai una collaborazione utile, essendo tutti i fatti stati
acclarati attraverso le propalazioni dei collaboratori di giustizia.
4. Con ordinanza del 6.2.2014, il Tribunale di Sorveglianza di Sassari rigettava il

4.1. Premetteva il Tribunale che la semplice elencazione dei titoli in esecuzione
(relativi ai reati di sequestro di persona a scopo di estorsione, violazione della disciplina degli
stupefacenti, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, associazione di stampo
mafioso, tre omicidi volontari in concorso: vedi l’indicazione delle relative sentenze di
condanna a pag. 3 del provvedimento) induceva a ritenere infondato l’argomento del
reclamante in ordine al regresso trattamentale che il medesimo avrebbe subito per l’entrata
in vigore dell’art. 4 bis 0.P.., atteso che la circostanza dell’adeguato livello rieducativo
raggiunto (rivendicato dal detenuto per la fruizione di permessi premio e l’ammissione al
lavoro all’esterno) risultava palesemente smentita, come già riconosciuto dal primo Giudice,
dalle condanne riportate dal reclamante per reati assai gravi commessi proprio nel periodo
compreso tra il 1990 e il 1992, ossia durante la fruizione dei permessi premio (omicidio
volontario in concorso commesso 1’11.4.1990 e associazione a delinquere di stampo mafioso
commesso in permanenza sino al 1993).
4.2. Quanto al tema dell’avvenuta espiazione della pena inflitta per i reati ostativi,
categoria dalla quale il reclamante escludeva gli omicidi sia per la mancata contestazione
dell’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/91 sia perché di fatto non riconducibili a matrici
mafiose, il Tribunale di Sassari, oltre a richiamare la costante lezione della giurisprudenza di
legittimità in materia, osservava che, in base all’esame del contenuto delle sentenze di
condanna, risultava palesemente dimostrato il contesto mafioso in cui si collocavano detti
omicidi: del resto, lo stesso detenuto, nell’istanza proposta ex art. 671 c.p.p. al Giudice
dell’esecuzione nel 2012, aveva dedotto che l’omicidio D’AGOSTINO doveva reputarsi di
matrice ‘ndranghetistica per l’appartenenza a tale contesto sia dei rei sia della vittima, che
l’omicidio LABATE fu commissionato per consolidare i rapporti tra la cosca facente capo allo
stesso PAPALIA e quella facente capo a DE STEFANO, e che l’omicidio MORMILE fu ordinato
dallo stesso PAPALIA ed eseguito da uomini di vertice dell’associazione (perché la vittima,
educatore presso il carcere di Opera, non si era attivata per far ottenere benefici al
reclamante).
Del resto, anche l’ordinanza della Corte di Assise di Milano, nel rigettare la
continuazione ai sensi dell’art. 671 c.p.p., non aveva affatto inteso negare la riferibilità degli

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reclamo.

omicidi ad un unico contesto mafioso, ma aveva semplicemente ritenuto non dimostrata la
rappresentazione ab origine, nel programma dell’associazione, di tutti i reati omicidiari nelle
loro linee essenziali.
4.3. Infine, il Tribunale escludeva potesse ravvisarsi, ai fini della possibilità di
concessione dei benefici richiesti, la collaborazione attiva o quella inesigibile.
4.3.1. La prima risultava esclusa dal contenuto delle sentenze esaminate, nonché

4.3.2. Quanto alla collaborazione inesigibile, il PAPALIA si era limitato ad allegare il
completo accertamento dei fatti sotteso agli omicidi sulla base delle dichiarazioni dei
collaboratori di giustizia.
Osservava il Giudice a quo sul punto che, diversamente da quanto rappresentato dal
reclamante, le motivazioni relative agli omicidi LABATE e D’AGOSTINO evidenziavano il
residuare di lacune cognitive, dovute al fatto che non si era pervenuti alla identificazione di
alcuni concorrenti nel reato; analogo rilievo poteva farsi per la sentenza sull’omicidio
MORMILE, in cui si evidenziava che era rimasto ignoto colui che aveva atteso i killer al
cambio auto.
In conclusione, tenuto conto anche della mancata specificazione, da parte del
PAPALIA, delle ragioni che gli rendevano impossibile tali ulteriori contributi, detto motivo di
reclamo doveva ritenersi parimenti infondato.
4.4. Quanto all’ultimo profilo dedotto, attinente al preteso contrasto della legislazione
italiana in materiale di ergastolo ostativo con l’art. 3 della Convenzione EDU, i Giudici della
Sorveglianza osservavano:
– che la questione non poteva essere esaminata, non essendo sfociata in questione di
legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 4 bis 0.P.;
– che la Corte EDU aveva più volte censurato quelle pene perpetue prive di
prospettive di apertura, mentre l’art. 4 bis O.P. offriva la possibilità dell’apertura all’esterno,
ancorché collegandola a comportamenti di collaborazione, in quanto ritenuti gli unici idonei a
rimuovere il giudizio di pericolosità sociale su persone condannate per gravi reati.
5. Ha proposto ricorso per cassazione PAPALIA Domenico, per il tramite del difensore
di fiducia, deducendo, con un unico, ampiamente articolato, motivo, erronea applicazione
della legge penale con riferimento all’art. 4 bis O.P. e mancanza di motivazione.
5.1. Il richiamo operato dal Tribunale di Sorveglianza alla giurisprudenza in materia
di commissione dei fatti avvalendosi del metodo mafioso o del fine agevolativo
dell’associazione mafiosa non era conferente o, comunque, sufficiente a spiegare il mancato
riconoscimento dell’avvenuta espiazione dei reati ostativi.

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dallo stesso interessato.

Secondo la difesa, l’ordinanza impugnata non considerava che l’aggravante di cui
all’art. 7 L. n. 203/91 non solo non era stata contestata, ma neppure poteva esserlo: sia
perché introdotta successivamente alla data di commissione dell’ultimo omicidio oggetto di
condanna (11.4.1990), sia perché contestabile solo rispetto a reati puniti con pena diversa
dall’ergastolo.
Da ciò conseguiva che invocare l’irrilevanza della formale contestazione

significato frustrare i limiti di cui all’art. 25, comma 2, Cost. e 2 c.p., rilevanti nella materia
in discussione.
Le stesse considerazioni valevano per l’art. 4 bis 0.P., introdotto con il medesimo D.L.
13.5.1991, n. 152, convertito in L. 12.7.1991, n. 203.
La difesa non ignorava come la questione della natura sostanziale o processuale delle
norme in materia di esecuzione della pena fosse stata risolta dalla giurisprudenza di
legittimità – in particolare, dalla sentenza Sez U n. 24561 del 30.5.2006 (P.M. in proc. Aloi)
– nel senso di considerarle sottoposte al principio del tempus regit actum e non a quello
della irretroattività della legge penale, tuttavia appariva necessario un profondo
ripensamento sul punto, anche alla luce dell’esigenza di approfondimento del tema invocata
dalla Corte Costituzionale (nella sentenza n. 306/1993) e dei nuovi e recenti orientamenti
della giurisprudenza europea.
Fra questi, il difensore citava la decisione emessa il 21.10.2013 dalla Grande Camera
della Corte EDU nella causa Del Rio Prada c/Spagna, che, nel confermare quella
precedentemente resa dalla Terza Sezione del 10.7.2012, aveva statuito che il revirement
del Tribuna! Supremo spagnolo – in senso sfavorevole al condannato – in merito alle
modalità di applicazione del beneficio penitenziario della redenciOn de penas por trabajo (che
consentiva uno “sconto” di pena commisurato ai giorni di lavoro) a soggetti pluricondannati
aveva comportato la violazione del principio di legalità di cui all’art. 7 della Convenzione.
Accogliendo la tesi della ricorrente, la Grande Camera aveva chiarito che, per stabilire
la natura penale di una norma (e, quindi, l’applicabilità dell’art. 7 CEDU), non doveva farsi
riferimento al dato formale del nomen iuris, ma a quello sostanziale, in modo, cioè, da
valutare se e come le norme in materia di esecuzione penale incidessero sulla pena
medesima (nella specie, la nuova interpretazione delle norme relative all’esecuzione penale
aveva privato la ricorrente delle aspettative che poteva nutrire al momento in cui i delitti
erano stati commessi).
Il principio dettato dalla Corte EDU poteva, senz’altro, applicarsi al caso del PAPALIA,
il quale, alla data di consumazione dell’ultimo reato punito con l’ergastolo (11.4.1990),

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dell’aggravante de qua, al fine di rigettare la richiesta di permesso premio, avrebbe

aveva la possibilità di accedere ai benefici penitenziari, poiché i gravi limiti di cui all’art. 4 bis
O.P. erano stati introdotti nel 1991 e successivamente.
Non andava, poi, trascurato che l’esperienza dei permessi premio era definita dallo
stesso legislatore come “parte integrante del trattamento” (art. 30 ter, comma 3, 0.P.) e
che attraverso di essa il detenuto poteva intraprendere il successivo percorso inteso, ad
esempio, ad accedere alla semilibertà ed alla liberazione condizionale.

considerazione delle conclusioni rassegnate dal Gruppo di Osservazione e Trattamento della
Casa circondariale di Nuoro (verbale del 30.1.2014) in senso favorevole alla concessione al
detenuto di “brevi permessi orari”.
Veniva richiamata a sostegno della tesi difensiva anche altra sentenza della Corte
EDU, Grande Camera, emessa il 9.7.2013 nel caso VINTER e altri c/Regno Unito, che aveva
affermato la necessità di un riesame della condanna all’ergastolo nel caso in cui il detenuto
avesse scontato 25 anni di reclusione (altrimenti, la pena doveva essere riconosciuta come
inumana alla stregua del divieto di tortura di cui all’art. 3 CEDU).
5.1.1. Ad avviso del difensore, la collaborazione con la giustizia non poteva essere

ritenuta – come affermato dal Tribunale – l’unico indice sintomatico del venir meno della
pericolosità sociale.
Altri istituti sostanziali, infatti, non si limitavano a chiedere la “rimozione della
pericolosità sociale”, ma si spingevano ad esigere il “sicuro ravvedimento” (v. art. 176 c.p.
per la liberazione condizionale), consistente, secondo la giurisprudenza di legittimità,
“nell’insieme degli atteggiamenti concretamente tenuti ed esteriorizzati dal soggetto durante
il tempo dell’esecuzione della pena”.
Pur trattandosi di istituti diversi, doveva osservarsi che se il “sicuro ravvedimento”
non era escluso dalla circostanza che il detenuto non avesse mai collaborato con la giustizia
o si fosse dissociato, allora neppure poteva essere ritenuta legittima l’interpretazione per cui
l’unico indice del venir meno della pericolosità presunta per legge tale da consentire
l’accesso ai benefici anche per i condannati per reati ostativi doveva essere riconosciuto nella
sola collaborazione.
5.2.

Nel trattare sotto altra prospettiva il tema in discussione, il Tribunale di

Sorveglianza di Sassari aveva ritenuto di non esaminare – in quanto non sfociata in
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis O.P. – il profilo del dedotto contrasto
della legislazione italiana in materia di ergastolo ostativo con l’art. 117 Cost. in relazione
all’art. 3 CEDU.
Nel rinunciare a motivare sul punto, il Tribunale aveva violato l’obbligo imposto al
Giudice nazionale di conformarsi alle norme della CEDU nel significato loro attribuito dalla

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A questo riguardo, la difesa stigmatizzava, quale carenza motivazionale, la mancata

Corte, discendente dall’art. 117, comma 1, Cost., e ciò, con particolare riferimento agli artt.
7, 5, e 3 della Convenzione.
5.3. Riguardo al tema della collaborazione impossibile o inesigibile, il difensore
deduce carenza di motivazione, in quanto il Tribunale non aveva indicata quale fosse e dove
potesse essere rintracciata la lacuna cognitiva evidenziata.
I Giudici di merito, inoltre, tacevano la rilevante circostanza per cui l’omicidio del

MORMILE, si trascurava che il PAPALIA ne aveva risposto come l’uomo nel cui interesse il
crimine venne commesso mentre egli si trovava in carcere, sicché non poteva conoscere i
dettagli dell’operazione (e il “cambio macchina” era sicuramente un dettaglio).
5.4. Ove la soluzione interpretativa prospettata non fosse considerata possibile per
un ritenuto insanabile contrasto tra le norme nazionali e convenzionali, la difesa chiedeva, in
via subordinata, sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis O.P. per
violazione dell’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 7, 5 e 3 CEDU.
6.

Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua articolata requisitoria

scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.
7. La difesa ha depositato memoria di replica alla requisitoria suddetta, recante la
data del 12.3.2015.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
2.

E’, in primo luogo, corretta e immune da vizi interpretativi la decisione del

Tribunale in ordine alla questioni sollevate sulla corretta interpretazione dell’art. 4-bis 0.P.,
con particolare riferimento alla considerazione di reati ostativi commessi dal ricorrente
anteriormente alla sua entrata in vigore.
2.1. Il Giudice di merito ha puntualmente ricordato che l’art. 4 bis prevede, al primo
comma, il divieto di concessione dei benefici penitenziari per il “delitto di cui all’articolo 416
bis del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso
articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste”, richiamando
in modo pertinente il consolidato orientamento di questa Corte – che qui va ribadito secondo il quale il diniego di concessione dei benefici al condannato per reati commessi per
motivi di mafia che il Tribunale di Sorveglianza abbia verificato attraverso l’esame del
contenuto delle sentenze è del tutto legittimo, a nulla rilevando la circostanza che nel
giudizio non sia stata contestata l’aggravante prevista dall’art. 7 D.L. n. 152/91, convertito
dalla L. n. 203/91 (fra molte, Sez. 1, n. 4091 del 7/1/2010, Dragone, Rv. 246053; Sez. 1, n.

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D’AGOSTINO risaliva al 2.11.1976 e l’omicidio LABATE al 17.11.1983. Quanto all’omicidio

17816 del 9/4/2008, Sanfilippo, Rv. 240005; Sez. 1, n. 34022 dell’ 11/7/2007, Saraceno,
Rv. 237295).
Va precisato che l’enunciato principio è stato esteso anche in relazione ad altra
questione prospettata dal ricorrente, ossia quella relativa all’impossibilità di operare
dell’aggravante in parola nel caso di delitti concretamente puniti con l’ergastolo (Sez U, n.
337 del 18/12/2008, dep. 9/1/2009, Antonucci, Rv. 241578, che ha chiarito che tale

dell’ergastolo e, pertanto, può essere validamente contestata anche con riferimento ad essi,
ma opera in concreto solo se, di fatto, viene inflitta una pena detentiva diversa
dall’ergastolo, mentre, se non esclusa all’esito del giudizio di cognizione, esplica comunque
la sua efficacia a fini diversi da quelli di determinazione della pena).
2.2. Parimenti corretta deve ritenersi la risposta offerta dal Tribunale sulla questione
di diritto intertemporale dedotta dalla difesa in relazione alla data dell’ultimo omicidio
commesso dal PAPALIA (11.4.1990), antecedente all’entrata in vigore dell’art. 4 bis 0.P..
Sul punto, va ricordato, che, per costante insegnamento di questa Corte, che qui si
ribadisce, è stata ritenuta legittima l’applicazione dell’art. 4-bis O.P. ai delitti commessi
anteriormente alla entrata in vigore della legge modificatrice del trattamento penitenziario
(D.L. 13 maggio 1991, n. 152), atteso che, come autorevolmente affermato da Sez U n.
24561 del 30/5/2006, Aloi, Rv. 233976, le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene
detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e
l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non presentano
carattere di norme penali sostanziali e, pertanto, soggiacciono al principio del

tempus regit

actum e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art.
2 cod. pen., e dall’art. 25 Cost. (Sez. 1, n. 34022/2007 cit.; Sez. 1, n. 11580 del 5/2/2013,
Schirato, Rv. 255310).
La sentenza Saraceno, in particolare, ha rilevato: “il D.L. n. 152 del 1991, nello
stabilire una serie di misure limitative ai benefici concedibili a soggetti autori di determinati
delitti di grave allarme sociale e significativi di contiguità o inserimento nella criminalità
organizzata, ha dettato all’art. 4 una apposita disciplina transitoria, stabilendo
espressamente che varie disposizioni da esso introdotte non si applicano ai condannati per
fatti commessi prima dell’entrata in vigore; fra tali disposizioni non è compreso l’art. 1,
comma 1, che ha inserito nella L. n. 354 del 1975 l’art. 4 bis. E’, quindi, chiaro che il
legislatore ha inteso applicare il detto art. 4 bis anche ai detenuti per delitti anteriormente
commessi”.
Sulla compatibilità di tale disciplina con i principi costituzionali, la menzionata
decisione ha osservato: “…basterà ricordare, quanto allo specifico istituto, che – dopo

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circostanza è applicabile anche ai delitti astrattamente punibili con la pena edittale

ulteriori modifiche introdotte dapprima dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306 e dalla Legge di
conversione 7 agosto 1992, n. 356, poi dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251 (quest’ultima
irrilevante nella fattispecie) – la Corte Costituzionale con sentenze n. 137/1999 e 257/2006,
ha sancito, in forza dell’art. 27 della legge fondamentale, l’irretroattività delle nuove
disposizioni limitative in tema di permessi premio esclusivamente nei confronti dei detenuti
che, al momento della loro entrata in vigore, avevano già raggiunto un grado di rieducazione

infondate le questioni di legittimità sull’applicazione della legge restrittiva anche nelle ipotesi
in cui la condanna era intervenuta, o l’esecuzione della pena era già iniziata, al momento
dell’entrata in vigore della legge di modifica (ordinanze n. 280 e 308 del 2001). Va dunque
ribadito il principio, consolidato…, secondo il quale le disposizioni che individuano i delitti
ostativi ai benefici penitenziari, in quanto attengono alle sole modalità di esecuzione della
pena, sono di immediata applicazione anche ai fatti pregressi”.
Come correttamente messo in risalto dal Tribunale di Sorveglianza, nello specifico
caso del PAPALIA, il raggiungimento di un grado di rieducazione adeguato al conseguimento
del beneficio richiesto risultava palesemente smentito dall’aver egli riportato condanna per
reati gravissimi commessi proprio nel periodo dal 1990 al 1992, durante il quale egli aveva
fruito di permessi premio (vedi sul punto le indicazioni contenute nella superiore esposizione
in fatto).
2.3. Occorre, a questo punto, fare richiamo alla recente decisione di questa Corte,
Sez. 1, n. 34073 del 27.6.2014, Panno – condivisa dal Collegio – nella quale è stata, fra
l’altro, esaminata la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte EDU con
riferimento all’estensione del principio della irretroattività della legge sfavorevole ai benefici
penitenziari.
In motivazione si prende in esame una delle sentenze valorizzate dalla difesa del
ricorrente – quella emessa il 21.10.2013 dalla Grande Camera nel caso Del Rio Prada
c/Spagna – la quale evidenzia che: «Sia la Commissione sia la Corte hanno delineato nella
loro giurisprudenza una distinzione tra una misura che costituisce in sostanza una pena e
una misura che riguarda l’esecuzione o l’applicazione della pena.
Conseguentemente, se la natura e il fine della misura riguarda la detrazione di pena o
una modifica del regime di liberazione anticipata, essa non fa parte della pena ai sensi
dell’art. 7 […]».
In proposito, la sentenza Panno osserva: “Se è vero che la Corte EDU…riconosce che
, e che è

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adeguato al conseguimento del beneficio.., mentre ha ritenuto per il resto manifestamente

possibile perciò , chiaramente rimarca, tuttavia, che , occorre , considerando .
Sicché nel caso al suo esame giungeva alla conclusione che la disciplina della redenciòn de
penas,

prima prevista dall’ordinamento spagnolo e abrogata nel 1995, poteva essere

considerata parte integrante del droit pénal materiel vuoi per gli importanti riflessi ad essa
accordati dalla giurisprudenza con riguardo al problema del cumulo materiale delle pene,
vuoi, soprattutto, per il fatto che, in occasione della riforma del 1995, il legislatore si era
curato di formulare disposizioni transitorie volte a garantire l’applicazione del beneficio ai
soggetti giudicati sulla base del codice penale del 1973, e che violava dunque l’art. 7 della
Convenzione il revirement giurisprudenziale adottato in proposito dalla Corte Suprema”.
L’esame del testo della richiamata decisione consente di rendere manifesta la
diversità tra il caso esaminato dalla Corte EDU, risolto favorevolmente, e quello concernente
il ricorrente, incentrato sulla corretta applicazione dell’art. 4 bis O.P. in relazione alla
richiesta di accesso ai permessi premio (tenuto conto di reati ostativi commessi
anteriormente all’entrata in vigore della citata norma penitenziaria), situazione che non può
essere assimilata a quella del mutamento giurisprudenziale in ipotesi incidente sul diritto
penale sostanziale.
Del resto, come già prima evidenziato, il PAPALIA, nel caso concreto, non si è visto
privare di alcuna “aspettativa” di beneficio al momento dell’entrata in vigore dell’art. 4 bis, a
causa delle menzionate condanne irrevocabili per gravissimi delitti commessi durante la
fruizione dei permessi premio.
2.4. Non paiono conferenti gli argomenti tratti dalla seconda sentenza evocata dalla
difesa, emessa dalla Grande Camera della Corte EDU il 9.7.2013 nel caso VINTER e altri
c/Regno Unito, atteso che in essa si è affermata la necessità di riesaminare la condanna
all’ergastolo dopo l’espiazione di 25 anni di reclusione, al fine di verificare la possibilità di
riduzione della pena in virtù della riabilitazione del condannato.
Nel nostro ordinamento, l’ergastolo ha, di fatto, cessato di essere una pena perpetua
e, quindi, non contrasta né col senso di umanità, né con la possibilità di un reinserimento
sociale del condannato: proprio sulla base di queste considerazioni, questa Corte ha

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comportava effettivamente la “pena” inflitta in base al diritto interno in vigore al momento

dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 c.p.
con riferimento all’art. 27 Cost. nonché all’art. 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo e all’art. 6 della Convenzione EDU (Sez. 1, n. 33018 del 29/3/2012, Esposito, Rv.
253430).
Nel caso che ci occupa, l’ergastolo è di ostacolo al beneficio invocato solo perché
correlato a reati contemplati dall’art. 4 bis 0.P., ovvero in ragione della tipologia dei delitti

proprio la natura e le connotazioni di maggiore pericolosità di tali delitti rendono non
discriminatoria (art. 3, primo comma, Cost.), né contraria al principio di rieducazione della
pena (art. 27, terzo comma, Cost.), e neppure irragionevole la limitata applicazione dei
benefici penitenziari.
3. Come detto, l’unica condotta che giustifica la deroga al divieto di benefici consiste
nella collaborazione con la giustizia o nella collaborazione impossibile o inesigibile.
E’ inappropriato il “parallelismo” operato dalla difesa con la liberazione condizionale
ex art. 176 c.p., che non è un beneficio penitenziario, ma un istituto di diritto sostanziale, in
quanto implica, oltre alla immediata liberazione, la estinzione, sia pure differita, della pena
(Sez. 1, n. 100 dell’11/1/1985, Rv. 167977).
Nel caso di specie, pacificamente assente la condotta di collaborazione “attiva”, il
Tribunale di Sorveglianza ha correttamente escluso la configurabilità della collaborazione
impossibile o inesigibile, sia stigmatizzando l’insufficienza delle generiche allegazioni del
richiedente, sia esaminando il contenuto delle sentenze di condanna, da cui ha desunto, con
motivazione non suscettibile di censure in questa sede, l’esistenza di spazi per un’utile
collaborazione al fine di individuare i concorrenti, rimasti ignoti, negli omicidi oggetto di
condanna.
Le censure dedotte dal ricorrente al riguardo devono, perciò, ritenersi infondate.
4. Le considerazioni spese sul tema della compatibilità dell’interpretazione offerta dal
Giudice a quo con la Carta costituzionale, anche in relazione alle norme della CEDU indicate
dal ricorrente, consentono di ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4 bis O.P. nei termini sopra prospettati.
5. In conclusione, il ricorso va rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle
spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 20 marzo 2015

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per i quali è intervenuta condanna: deve ritenersi dato giurisprudenziale ormai acquisito che

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