Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 30888 del 17/06/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 30888 Anno 2014
Presidente: CARMENINI SECONDO LIBERO
Relatore: ALMA MARCO MARIA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:

CATANZARO Chiara, nata a Santhià (VC) il 12/12/1990

SERBOUTI Hamza, nato in Marocco il 20/6/1988
avverso la sentenza n. 1958/2013 in data 29/8/2013 della Corte di Appello di
Torino
visti gli atti, la sentenza e i ricorsi
udita la relazione svolta dal consigliere dr. Marco Maria ALMA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Massimo GALLI, che ha concluso chiedendo rigettarsi entrambi i ricorsi;
udito il difensore dell’imputata CATANZARO Chiara, Avv. Massimo SOMAGLINO,
che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso riportandosi ai relativi
motivi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 29/8/2013 la Corte di Appello di Torino, in parziale riforma
della sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vercelli in
data 16/10/2012, riduceva le pene inflitte agli imputati – rispettivamente ad anni
2, mesi 6 di reclusione ed Euro 800 di multa e ad anni 2 mesi 8 di reclusione ed
Euro 800 di multa – e confermava nel resto la sentenza di condanna emessa dal
Giudice di prime cure (ivi compresa la concessione ad entrambi gli imputati delle
circostanze attenuanti generiche valutate con giudizio di equivalenza alle
aggravanti contestate) condannando altresì gli imputati al risarcimento dei danni
nei confronti delle parti civili costituite Toni Antonelli e Debora Pia.

Data Udienza: 17/06/2014

Il Giudice per le indagini preliminari aveva, infatti, ritenuto la CATANZARO ed il
SERBOUTI responsabili del reato di concorso in rapina aggravata (artt. 110, 628
co. 3 n. 1, cod. pen.) consumata in Santfittà il 9/10/2011 ai danni delle sopra
indicate persone offese costituite parte civile.

Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza la CATANZARO per
mezzo del proprio difensore ed il SERBOUTI personalmente, deducendo:

La CATANZARO

contraddittorietà ovvero manifesta illogicità della motivazione.
Osserva, in particolare, la ricorrente che il piano criminoso consisteva
nell’accesso del SERBOUTI nella cucina del ristorante “La vecchia taverna” previo
avviso telefonico della Catanzaro. Il SERBOUTI si sarebbe diretto rapidamente a
colpo sicuro a prendere la borsa sul davanzale per poi fuggire. La rapidità
dell’azione (che sarebbe durata pochi secondi e non certo pochi minuti come
scritto nella motivazione della sentenza impugnata) e la sorpresa dell’arrivo del
SERBOUTI avrebbero fatto sì che nessuno dei presenti avrebbe potuto avere il
tempo e la possibilità di porre in essere una reazione. Essendo così avvenuto, e
non essendo stata proferita alcuna minaccia e/o violenza nei confronti dei
proprietari del locale pubblico, peraltro non presenti in loco, non sussisterebbe il
reato di rapina. Il progetto criminoso non prevedeva, invero, in alcun modo l’uso
di un’arma ed in ogni caso nel fascicolo processuale non vi è traccia di
qualsivoglia condotta, anche di natura cognitiva, tenuta da parte della Catanzaro
circa la mera consapevolezza del porto del coltello ad opera del complice.
A detta della ricorrente, vi sarebbero, poi, alcune contraddizioni nella
motivazione della sentenza della Corte territoriale laddove si menziona la
“presenza di un borsello od altro dove nascondere il coltello” in quanto il coltello
sarebbe stato prelevato sul posto, ed altresì laddove la corte territoriale
menziona nella sentenza l’arrivo “assieme” dei due coimputati in quanto la
Catanzaro era già sul posto di lavoro al momento del compimento dell’azione
mentre il SERBOUTI era in attesa all’esterno del locale.
Non configurandosi dunque l’elemento della minaccia e/o della violenza deve, ad
avviso della ricorrente, procedersi alla riqualificazione del reato contestato in
quello di cui all’articolo 624 cod. pen.
In subordine, non essendo provato che la CATANZARO fosse a conoscenza del
fatto che il SERBOUTI avesse portato con sé un’arma al fine di consumare
l’azione criminosa per cui è processo, la condotta della ricorrente dovrebbe
essere sussumibile nella fattispecie prevista dall’articolo 116 cod. pen.

Il SERBOUTI
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1. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché mancanza,

2. Mancanza e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata con
riguardo alla affermazione della penale responsabilità dell’imputato in relazione
al reato ascrittogli per effetto della mancata derubricazione del medesimo nella
fattispecie di cui all’articolo 624 cod. pen., eventualmente aggravato ai sensi
dell’articolo 625, n. 4, cod. pen.
Al riguardo, fa rilevare il ricorrente come dalle dichiarazioni delle testimoni ai
fatti risulterebbe che l’azione avrebbe avuto caratteristiche tali da far sì che le

3.

Mancanza della motivazione della sentenza impugnata ed inosservanza o

erronea applicazione della legge penale, in ordine alla ritenuta equivalenza tra le
circostanze attenuanti generiche, la recidiva e le circostanze aggravanti
contestate al prevenuto.
In particolare, le dichiarazioni ampiamente confessorie ed etero accusatorie rese
dal ricorrente avrebbero dovuto determinare la Corte territoriale a ritenere le
circostanze di cui all’articolo 62 bis cod. pen. prevalenti sulle aggravanti e sulla
recidiva contestate all’imputato.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Per quanto riguarda il motivo di ricorso – comune ad entrambi i ricorrenti riguardante l’asserita erronea qualificazione giuridica del fatto come rapina
aggravata in luogo di furto ex art. 624 cod. pen. (eventualmente aggravato ex
art. 625 cod. pen.), deve essere immediatamente evidenziato che l’azione è
consistita nel fatto che il SERBOUTI ha fatto ingresso nel ristorante “La vecchia
taverna” incappucciato ed è stato visto dalle testi MUCAJ ed ANDRIUCIC
impugnare un coltello, circostanza, questa, ammessa in sede di interrogatorio
anche dallo stesso imputato.
La velocità dell’azione che ha portato all’impossessamento di una borsa
contenente una cospicua somma di denaro (11.700 Euro) di proprietà di Pia
Debora è stata così repentina che le testimoni non hanno avuto in quei frangenti
neanche il tempo di rendersi conto di realizzare ciò che stava accadendo.
Ciò nonostante, correttamente hanno operato il Giudice di prime cure e la Corte
di Appello nel ritenere configurabile nel caso di specie il reato di rapina
aggravata e non quello di furto.
Sul punto, ritiene il Collegio che – così come questa Corte ha già in modo
condivisibile statuito in materia di estorsione aggravata – anche per la
configurabilità del reato di rapina aggravata dall’uso di arma, è da ritenersi
necessario che il reo sia palesemente armato, ma non che l’arma sia addirittura
impugnata per minacciare, essendo sufficiente che essa sia portata in modo da

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stesse non hanno percepito alcun tipo di minaccia.

poter intimidire, cioè da lasciare ragionevolmente prevedere e temere un suo
impiego quale mezzo di violenza o minaccia per costringere il soggetto passivo a
subire quanto intimatogli. (Cass. Sez. 2^, sent. n. 25902 del 24.6.2008 dep.
26/06/2008, rv. 240632 e Cass. Sez. 1^ sent. n. 16211 del 5.10.1978 dep.
29.12.1978 rv 140683).
A corollario di ciò la Corte territoriale ha in maniera condivisibile evidenziato che
anche il fatto che il SERBOUTI abbia fatto ingresso nel locale travisato è stato un
elemento concausale idoneo a determinare una minaccia tale da inibire qualsiasi

In ogni caso ritiene il Collegio che la minaccia idonea a configurare il reato di
rapina può ritenersi sussistente quando la stessa viene esercitata con modalità
potenzialmente idonee ad inibire la resistenza delle persone offese presenti,
anche se il colpevole non sia riuscito nel suo intento, e deve avere natura
positiva ed estrinsecarsi in un’attività che palesi – come avvenuto nel caso in
esame – in modo concreto il proposito di interdire od ostacolare alle stesse il
compimento di qualsivoglia reazione. Non è, pertanto, necessario che la minaccia
abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione,
ancorché improduttiva del risultato perseguito, essendo sufficiente che si tratti di
minaccia idonea ad incutere timore e diretta a costringere il destinatario a
tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente.
D’altro canto gli imputati non potevano non essersi posto il problema che
entrando il SERBOUTI in un locale aperto al pubblico e dove era presente la
clientela si rendeva necessario, per l’appunto impugnando un coltello, prevenire
eventuali reazioni dei presenti.
La durata dell’azione sopra descritta indicata dalla Corte territoriale in “pochi
minuti”, espressione che sembra più fare riferimento alla repentinità dell’azione
piuttosto che al preciso dato temporale, anche perché lo svolgimento e la
tempistica dell’azione delittuosa sono stati debitamente ricostruiti nella
motivazione della sentenza, non costituisce certo un travisamento della prova
rilevante in questa sede.

2. Per quanto, concerne, poi, il motivo di ricorso avanzato dalla CATANZARO in
via sostanzialmente subordinata, relativo al fatto che alla stessa è stato negato
dalla Corte di Appello il riconoscimento della invocata circostanza attenuante
della c.d. “minima partecipazione” di cui all’art. 116 cod. pen., deve essere
innanzitutto rilevato che nella sentenza impugnata la Corte territoriale ha
adeguatamente motivato in relazione alla predetta decisione (così conformandosi
all’analoga decisione assunta dal Giudice di prime cure) evidenziando che il ruolo
di “basista” assunto dall’imputata appare essere un elemento di importanza

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reazione delle persone ivi presenti.

essenziale dell’azione. Se a ciò si aggiunge che, come evidenziato in sentenza,
l’imputato SERBOUTI in sede di interrogatorio ha affermato che la CATANZARO
era a conoscenza del fatto che egli avrebbe fatto ingresso nel locale munito di un
coltello, è evidente che il reato originariamente progettato da entrambi gli
imputati era quello di rapina e non certo quello di furto.
In tal senso si vede pacificamente al di fuori dell’ipotesi di “reato diverso da
quello voluto da taluno dei concorrenti” di cui all’art. 116 cod. pen.
Il motivo di ricorso della CATANZARO sotto questo profilo è, quindi, da ritenersi

3. Per quanto concerne, infine, il motivo di ricorso formulato dal SERBOUTI
relativo al mancato riconoscimento alla stesso da parte della Corte territoriale
delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti
contestate, lo stesso è pure manifestamente infondato.
Deve, infatti, essere evidenziato che la motivazione sul punto della sentenza
impugnata appare caratterizzata da elementi di congruità e logicità con
particolare riguardo alla comparazione effettuata tra il livello di gravità dei fatti
in questione ed il fatto che l’imputato ha violato le prescrizioni inerenti gli arresti
domiciliari.
Infatti, secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, per il
corretto adempimento dell’obbligo della motivazione in tema di bilanciamento di
circostanze eterogenee è sufficiente che il giudice dimostri di avere considerato e
sottoposto a disamina gli elementi enunciati nella norma dell’art. 133 cod. pen. e
gli altri dati significativi, apprezzati come assorbenti o prevalenti su quelli di
segno opposto, essendo sottratto al sindacato di legittimità, in quanto
espressione del potere discrezionale nella valutazione dei fatti e nella concreta
determinazione della pena demandato al detto giudice, il supporto motivazionale
sul punto quando sia aderente ad elementi tratti obiettivamente dalle risultanze
processuali e sia, altresì, logicamente corretto. (Cass. Sez. 1^ sent. n. 3163 del
28.11.1988 dep. 25.2.1989 rv 180654).
Inoltre, in tema di concorso di circostanze, il giudizio di comparazione risulta
sufficientemente motivato quando il giudice, nell’esercizio del potere
discrezionale previsto dall’art. 69 cod. pen. scelga – come nel caso in esame – la
soluzione dell’equivalenza, anziché della prevalenza delle attenuanti, ritenendola
quella più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto
(Cass. Sez. 1^, sent. n. 758 del 28.10.1993 dep. 26.1.1994, Rv. 196224).

Da quanto sopra consegue il rigetto dei ricorsi in esame, con condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

5

manifestamente infondato.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il giorno 17 giugno 2014.

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