Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 30778 del 02/07/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 30778 Anno 2014
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: ALMA MARCO MARIA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:


RIDOSSO Salvatore, nato a Gragnano (NA) il 25/9/1987
LORETO Alfonso, nato a Scafati il 14/6/1986
SIANO Udalrico, nato a Salerno il 24/4/1945

avverso la sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. n. 24/14 in data 23/1/2014 del
Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno
visti gli atti, la sentenza e i ricorsi
udita la relazione svolta dal consigliere dr. Marco Maria ALMA;
lette le richieste scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore Generale dott. Luigi RIELLO, che ha concluso chiedendo la
declaratoria di inammissibilità dei ricorsi con conseguente adozione dei
provvedimenti di all’art. 616 cod. proc. pen.

RITENUTO IN FATTO
Con sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. in data 23/1/2014 il Giudice per le
indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno applicava a:
– RIDOSSO Salvatore, concessa la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6
cod. pen. con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti comuni e
della recidiva, aumentata ex art. 7 I. 203/91, diminuita per il rito, la pena di anni
1 e mesi 7 di reclusione ed Euro 900,00 di multa;
– LORETO Alfonso, concessa la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod.
pen. con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti comuni,

Data Udienza: 02/07/2014

aumentata ex art. 7 I. 203/91, diminuita per il rito, la pena di anni 1, mesi 6 e
giorni 6 di reclusione ed Euro 800,00 di multa;
– SIANO Udalrico, concessa la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod.
pen. con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti comuni e alla
recidiva, aumentata ex art. 7 I. 203/91, diminuita per il rito, la pena di anni 1,
mesi 6 e giorni 6 di reclusione ed Euro 800,00 di multa.
Tutti i predetti imputati erano chiamati a rispondere del reato di concorso in
tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso ai danni di POERIO PITERA’

Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza i difensori degli imputati,
deducendo:
1. per RIDOSSO Salvatore:
a) Violazione ex art. 606 lett. b) e c) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 521 e
444 cod. proc. pen. in relazione all’art. 393 cod. pen.
Lamenta al riguardo il ricorrente che il giudice avrebbe dovuto qualificare
diversamente i fatti in quanto il SIANO vantava nei confronti della persona offesa
un credito effettivo spettantegli a seguito di rapporti commerciali. La vicenda
avrebbe dovuto essere qualificata come violazione dell’art. 393 cod. pen. e non
certo come tentativo di estorsione non essendo possibile, a fronte della presenza
di tutti gli elementi costitutivi di quest’ultima fattispecie, trasmodare da delitto di
“ragion fattasi” a quello di estorsione solo in relazione alla gravità della minaccia
che, peraltro, a detta del ricorrente nel caso in esame non assumerebbe neppure
le caratteristiche di particolare gravità e sarebbe caratterizzata da un
travisamento della prova.
b) violazione ex art. 606 lett. b) e c) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 521 e
444 cod. proc. pen. ed all’art. 56, comma 3, cod. pen.
Lamenta il ricorrente che, qualora il contestato reato di estorsione non sia
riqualificato in quello di ragion fattasi, il Giudice per le indagini preliminari non
avrebbe riconosciuto l’esimente della desistenza volontaria di cui alla norma
citata.
c) violazione ex art. 606 lett. b) e c) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 521 e
444 cod. proc. pen. ed all’art. 7 I. 203/91.
Lamenta il ricorrente che il Giudice per le indagini preliminari avrebbe
erroneamente ritenuto configurabile la circostanza aggravante

de qua

in

relazione alla “tipologia meramente mafiosa dall’evocare ambienti di grosso
spessore criminale al fine di intimorire la persona offesa” avendo trascurato di
considerare che nell’area territoriale di Scafati (alla quale hanno detto di
appartenere gli interessati) non opera alcuna consorteria camorristica e che tale

2

Vincenzo.

tipo di minaccia non è stata idonea ad intimorire la persona offesa che è rimasta
ferma nei propri intenti di insolvenza.
Conclude il ricorrente chiedendo alla Corte, alla luce dei contrasti di
giurisprudenza in materia ed in caso di mancato accoglimento del ricorso, di
rimettere la questione della qualificazione del fatto come art. 393 o 629 cod.
pen. alle Sezioni Unite.
In data 16/6/2014 è stata depositata in cancelleria una memoria difensiva
nell’interesse dell’imputato RIDOSSO con la quale si è ribadita la doglianza

pen. in luogo di quella ritenuta di cui all’art. 629 cod. pen. con conseguente
violazione di legge censurabile innanzi a questa Corte anche in presenza di
sentenza di applicazione della pena e si è insistito per l’eventuale rimessione
della questione alle Sezioni Unite di questa Corte.

2. Per LORETO Alfonso:
a) Omessa dichiarazione della contumacia dell’imputato detenuto e rinunziante a
comparire. Eccezione di incostituzionalità dell’art. 420 quater cod. proc. pen. in
relazione all’art. 420 quinquies cod. proc. pen.
Lamenta il ricorrente che essendo il proprio assistito in occasione dell’udienza
camerale detenuto ma con autorizzazione a recarsi autonomamente all’udienza,
il Giudice per le indagini preliminari avrebbe dovuto dichiararne la contumacia in
ossequio alla normativa di cui all’art. 420 quater cod. proc. pen. così come
previsto per l’imputato libero. Alla luce di ciò la difesa dell’imputato ha eccepito
l’incostituzionalità dell’art. 420 quater cod. proc. pen. in relazione all’art. 420
quinquies cod. proc. pen. nella parte in cui non è previsto che rispetto
all’imputato detenuto, autorizzato a recarsi con mezzi propri all’udienza e
rinunziante a comparire non debba procedersi alla dichiarazione di contumacia,
laddove siffatta violazione si traduce nella violazione dell’art. 3 Cost.
b)

Omessa concessione e relativa mancata motivazione in relazione alla

applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena ex art. 163
cod. pen.
Lamenta il ricorrente che il giudice, contrariamente a quanto avrebbe dovuto
fare, ha omesso di motivare sul punto.

3. per SIANO Udalrico:

,

a) Violazione ex art. 606, lett. b), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 53, 55 e
58 I. 689/81.

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riguardante la qualificazione giuridica del fatto come violazione dell’art. 393 cod.

Evidenzia il ricorrente che all’udienza del 23/1/2014 i difensori dell’imputato
avanzavano richiesta di sostituzione della pena detentiva nella misura già
concordata con quella della semidetenzione. Il Pubblico Ministero su tale richiesta
si rimetteva al giudice il quale la rigettava ritenendo che l’istanza non rientrava
nella proposta di patteggiamento costituendo una modalità della pena e
necessitando quindi del consenso dello stesso Pubblico Ministero.
Lamenta, quindi, il ricorrente che il Giudice per le indagini preliminari avrebbe
omesso di verificare l’accoglibilità dell’istanza o che, in alternativa, avrebbe

l’accordo su tutti gli aspetti dello stesso.
b)

Violazione ex art. 606 lett. b) e c) cod. proc. pen. per violazione degli artt.

521 e 444 cod. proc. pen. in relazione all’art. 393 cod. pen.
Il motivo di ricorso ripercorre di fatto gli stessi elementi di doglianza già
prospettati dalla difesa dell’imputato RIDOSSO e di cui al superiore punto 1/a.
c) violazione ex art. 606 lett. b) e c) cod. proc. pen. per violazione degli artt.
521 e 444 cod. proc. pen. in relazione all’art. 56, comma 3, cod. pen.
Il motivo di ricorso ripercorre di fatto gli stessi elementi di doglianza già
prospettati dalla difesa dell’imputato RIDOSSO e di cui al superiore punto 1/b.
d) violazione ex art. 606 lett. b) e c) cod. proc. pen. per violazione degli artt.
521 e 444 cod. proc. pen. in relazione all’art. 7 I. 203/91.
Il motivo di ricorso ripercorre di fatto gli stessi elementi di doglianza già
prospettati dalla difesa dell’imputato RIDOSSO e di cui al superiore punto 1/c.
Anche in questo caso conclude il ricorrente chiedendo alla Corte, alla luce dei
contrasti di giurisprudenza in materia ed in caso di mancato accoglimento del
ricorso, di rimettere la questione della qualificazione del fatto come art. 393 o
629 cod. pen. alle Sezioni Unite.

In data 11/6/2014 la difesa dell’imputato SIANO ha depositato una memoria
difensiva in sostanziale replica alla memoria depositata dal Procuratore Generale
con la quale è stata richiesta la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi. In detta
memoria, al di là di una nuova illustrazione delle argomentazioni a sostegno dei
motivi di ricorso già presentati, è peraltro contenuto anche un nuovo motivo di
ricorso che si può sintetizzare come segue: mancato riconoscimento in sentenza
delle circostanze attenuanti generiche espressamente richieste di applicazione
nell’ambito dell’accordo intercorso tra le parti e conseguente illegittimità della
sentenza che contiene un giudizio di comparazione delle circostanze diverso da
quello prospettato nella richiesta.

dovuto rigettare la richiesta di patteggiamento non essendo stato raggiunto

Da ultimo deve essere evidenziato che la stessa difesa dell’imputato SIANO in
data 23/6/2014 ha depositato memoria difensiva ripercorrendo le
argomentazioni già contenute in sede di ricorso e di presentazione di motivi
aggiunti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Deve, innanzitutto, essere premesso che secondo la giurisprudenza di questa
Corte, che l’odierno Collegio condivide, «la richiesta di applicazione di pena

a conoscenza dell’altra parte, non può essere modificato unilateralmente né
revocato, e, una volta che il giudice abbia ratificato l’accordo, non è più
consentito alle parti prospettare questioni e sollevare censure con riferimento
alla sussistenza e alla giuridica qualificazione del fatto, alla sua soggettiva
attribuzione, all’applicazione e comparazione delle circostanze, all’entità e
modalità di applicazione della pena. In tale ambito, l’obbligo di motivazione deve
ritenersi assolto con la semplice affermazione dell’effettuata verifica e positiva
valutazione dei termini dell’accordo intervenuto fra le parti». (Cass. Sez. 6^
sent. n. 3429 del 3.11.1998, dep. 11.12.1998, rv 212679).
Inoltre, «In tema di patteggiamento, una volta che l’accordo sia stato ratificato
dal giudice, non è più consentito alle parti prospettare questioni e sollevare
censure con riferimento (come nella specie) alla applicazione delle circostanze …
che non siano illegali: anche entro tale ambito, invero, l’obbligo di motivazione
deve ritenersi assolto con la semplice affermazione dell’effettuata verifica e
positiva valutazione dei termini dell’accordo intervenuto fra le parti». (Cass. Sez.
5^ sent. n. 5210 del 28.10.1999 dep. 4.2.2000 rv 215467).

2. Ciò doverosamente premesso, stante la sostanziale unicità della materia in
esame appare, innanzitutto, doveroso procedere ad una trattazione congiunta
dei motivi di doglianza prospettati dai ricorrenti RIDOSSO e SIANO e di cui ai
sopra indicati punti la e 3b.
Come detto, gli stessi lamentano l’erronea qualificazione giuridica del fatto come
estorsione in luogo di quella di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con
violenza (o minaccia) alle persone.
La doglianza è manifestamente infondata e, come tale, inammissibile in questa
sede.
Deve, innanzitutto, essere precisato che la somma richiesta di consegna
mediante minacce dagli imputati alla persona offesa è superiore, anche se di
poco, rispetto al debito maturato dal POERIO PITERA’ nei confronti del SIANO il

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patteggiata costituisce un negozio giuridico processuale recettizio che, pervenuto

tutto come risulta dal capo di imputazione riportato in sentenza e sul quale gli
imputati hanno liberamente scelto di “patteggiare” la pena.
Ciò, già di per sé appare sufficiente ad escludere la qualificazione del fatto come
violazione dell’art. 393 cod. pen.
In ogni caso deve essere rilevato che, come questa Corte Suprema ha già avuto
modo di stabilire, “la possibilità di ricorrere per cassazione avverso la sentenza di
applicazione della pena su richiesta per errata qualificazione giuridica del fatto
deve ritenersi limitata alle ipotesi in cui trattasi di un errore manifesto e tale,

reato, dovendosi, per converso, escludere detta possibilità, anche sotto il profilo
del difetto di motivazione, qualora la diversa qualificazione presenti (come nel
caso di specie – ndr.) oggettivi margini di opinabilità” (Cass. Sez. 3, sent. n.
44278 del 23/10/2007, dep. 28/11/2007, Rv. 238286).
La declaratoria di inammissibilità del ricorso sul punto che ci occupa determina
l’assenza di necessità di sottoporre, come richiesto dai ricorrenti, la questione
alle Sezioni Unite di questa Corte.

3. Appaiono meritevoli di trattazione congiunta anche i motivi di ricorso formulati
in via subordinata dalle difese degli imputati RIDOSSO e SIANO sopra riportati
rispettivamente ai punti 1b) e 3c) stante la sostanziale identità degli stessi.
Al riguardo le difese dei ricorrenti tentano di raggiungere il risultato
dell’annullamento della sentenza impugnata per violazione di legge sostenendo
che dagli atti si evincerebbe una desistenza volontaria degli stessi ricorrenti
rilevante ai sensi dell’art. 56, comma 3, cod. pen.
A parte il fatto che, ancorché si volesse ipotizzare una desistenza volontaria ad
un certo punto dell’iter dell’azione, il tentativo di estorsione sarebbe stato nel
caso in esame comunque già configurabile, deve essere evidenziato che i motivi
di ricorso di cui trattasi vengono prospettati attraverso un’estrapolazione
(ovviamente difensivamente orientata) di parte dell’intero compendio probatorio
in un tentativo di proporre una lettura alternativa a quella dei fatti così come
rubricati nel capo di imputazione. Una simile operazione ermeneutica non è
tuttavia consentita in questa sede di legittimità e soprattutto in presenza del rito
di cui all’art. 444 e segg. cod. proc. pen. al quale i ricorrenti hanno liberamente
scelto di accedere così accettando anche la qualificazione giuridica del fatto che
potrebbe essere messa in discussione solo nel caso in cui la stessa sia
palesemente errata ed il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato.
Ciò tuttavia non si verifica nel caso in esame dove la sentenza, con una
motivazione congrua (tenuto conto della sinteticità richiesta dal rito), logica e

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quindi, da far ritenere che vi sia stato un indebito accordo non sulla pena ma sul

non contraddittoria, ha dato conto delle emergenze probatorie giungendo a
ritenere corretta la fattispecie di reato in contestazione agli imputati.
Questa Corte ha, infatti, sul punto già avuto modo di evidenziare – ed appare in
questa sede doveroso ribadirlo ancora una volta – che in tema di patteggiamento
sulla pena, una volta che sia stata pronunciata sentenza a norma dell’art. 444
cod. proc. pen., l’imputato non può rimettere in discussione i termini dell’accordo
raggiunto neanche per ciò che concerne la qualificazione giuridica del fatto
dedotto in giudizio, dal giudice ritenuta corretta, adducendo la erronea

provvedimento impugnato (Cass. Sez. 6^, sent. n. 7935 del 08/03/1995, dep.
18/07/1995, Rv. 202159).
Del resto se così non fosse una delle parti processuali che è addivenuta
all’accordo (nel caso in esame l’imputato) attraverso lo strumento
dell’impugnazione mostrerebbe di voler porre in essere un inammissibile recesso
dalla proposta dalla stessa avanzata. Questa Corte sul punto ha già evidenziato
in decisioni che questo Collegio condivide che “in tema di patteggiamento
l’accordo delle parti sulla pena non può essere oggetto di recesso, sicché è
inammissibile l’impugnazione del procuratore generale fondata su censure che si
risolvono in un recesso dall’accordo” (Cass. Sez. 2^, sent. n. 3622 del
10/01/2006, dep. 30/01/2006, Rv. 233369; Cass. Sez. 6^, sent. n. 28427 del
12/03/2013, dep. 01/07/2013, Rv. 256455). Orbene se tale regola vale per il
Pubblico Ministero, la stessa non può che valere anche per chi riveste la qualità
di imputato.
I motivi di ricorso di cui al presente paragrafo sono quindi da ritenersi
manifestamente infondati.

4. Argomentazioni sostanzialmente identiche a quelle di cui sopra devono essere
utilizzate in relazione all’analisi dei motivi di ricorso prospettati dalle difese degli
imputati RIDOSSO e SIANO e di cui rispettivamente ai superiori punti 3c) e 1d)
in relazione alla configurabilità della contestata circostanza aggravante di cui
all’art. 7 I. 203/91.
Al riguardo il Giudice, nella parte motiva dell’impugnata sentenza, dopo aver
descritto le modalità d’azione degli imputati, ha posto l’attenzione sulla predetta
circostanza aggravante ed ha evidenziato come la stessa è da ritenersi
configurabile nel caso di specie “per la metodologia tipicamente mafiosa
dell’evocare ambienti di grosso spessore criminale al fine di intimorire la persona
offesa ed indurla a sottostare all’altrui volontà”.

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applicazione della legge penale, ove questa non risulti evidente dal testo del

La motivazione adottata dal Giudice territoriale sul punto è congrua e risponde
alle emergenze processuali. D’altro canto, la contestazione sulla quale gli
imputati hanno ritenuto di patteggiare espressamente consisteva nel fatto di
aver commesso il fatto “con espresso ricorso al metodo mafioso, determinato
dalla inequivoca prospettazione di dover pagare esponenti della criminalità
organizzata della zona di Scafati, quali si auto proclamavano il RIDOSSO ed il
LORETO”.
E, valga il vero, è francamente irrilevante quanto sostenuto dai ricorrenti circa il

inconferente in questa sede – che nella zona di Scafati non opererebbe da tempo
più alcuna consorteria di tipo camorristico, ciò in quanto, come ha già avuto
modo di chiarire questa Corte con un assunto che l’odierno Collegio condivide,
“per la configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”,
prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in I. 12 luglio 1991, n.
203), non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di
un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia
assumano veste tipicamente mafiosa” (Cass. Sez. 2, sent. n. 322 del
02/10/2013, dep. 08/01/2014, Rv. 258103; Sez. 2, sent. n. 41003 del
20/09/2013, dep. 04/10/2013, Rv. 257240).
Detta circostanza aggravante ha poi natura oggettiva legata al modo in cui gli
imputati si sono presentati alla persona offesa ed alle modalità dell’azione posta
in essere e, quindi, è del tutto irrilevante per la sua configurabilità la reazione
che la vittima ha posto in essere.
Da ultimo e sul punto, deve, ancora essere ribadito che in tema di
patteggiamento, una volta che l’accordo tra le parti sia stato ratificato dal giudice
con la sentenza di applicazione della pena, non è consentito, fuori dai casi di
palese incongruenza,

censurare il provvedimento in punto di

qualificazione

giuridica del fatto e di ricorrenza delle circostanze, neppure sotto il profilo della
mancanza di motivazione, ricorrendo in proposito un dovere di specifica
argomentazione solo per il caso che l’accordo abbia presupposto una modifica
dell’imputazione originaria (Cass. Sez. 6^, sent. n. 32004 del 10/04/2003, dep.
29/07/2003, Rv. 228405).
I motivi di ricorso di cui al presente paragrafo sono quindi anch’essi da ritenersi
manifestamente infondati.

5. Passando ora all’esame del primo dei due motivi di ricorso prospettati dalla
difesa dell’imputato LORETO e di cui al superiore paragrafo 2a) relativo alla
omessa dichiarazione della contumacia dell’imputato detenuto e rinunziante a

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fatto – oltretutto rimasto a livello di mera asserzione e quindi assolutamente

comparire al quale è legata una eccezione di incostituzionalità dell’art. 420 in
relazione all’art. 420 quinquies cod. proc. pen., deve essere immediatamente
evidenziato che il predetto motivo è assolutamente generico oltre che
caratterizzato da una manifesta carenza di interesse del ricorrente a coltivarlo.
Non è, infatti, dato comprendere dalla lettura delle assai scarne motivazioni
addotte dal ricorrente quale incidenza abbia la doglianza sulla sentenza di
applicazione della pena applicata allo stesso in assoluta conformità alla richiesta
dal medesimo avanzata e, a dir del vero, non è neppure indicato a quale profilo

In sostanza la doglianza contiene una mera petizione di principio che rimane
finalizzata a sé stessa e non presenta alcuna rilevanza ai fini della decisione che
questa Corte è chiamata ad assumere.
La manifesta infondatezza del motivo porta all’inammissibilità del ricorso sul
punto.

6. Anche il secondo motivo di ricorso prospettato dalla difesa dell’imputato
LORETO e di cui al superiore paragrafo 2b) è manifestamente infondato e rende
inammissibile il ricorso sul punto.
Ancora una volta con una prospettazione caratterizzata da assoluta genericità,
lamenta il ricorrente che il Giudice di prime cure avrebbe omesso di motivare in
relazione alla applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena
ex art. 163 cod. pen.
Appare appena il caso di ricordare che, in base al disposto dell’art. 444, comma
3, cod. proc. pen., l’imputato, nel formulare la richiesta di applicazione della
pena, può subordinarne l’efficacia alla concessione della sospensione
condizionale.
Si tratta all’evidenza di una facoltà alla quale l’imputato LORETO non risulta aver
manifestato la volontà di accedere con la conseguenza che la questione è
rimasta estranea all’accordo pattizio e per l’effetto, trattandosi di sentenza di
applicazione della pena il Giudice non aveva alcun obbligo di prendere in
considerazione tale profilo e tantomeno di motivare sul punto.

7. L’ulteriore motivo di ricorso che deve essere preso in considerazione è quello
prospettato dalla difesa dell’imputato SIANO e riassunto al superiore paragrafo
3a) oltre che nelle successive memorie depositate dalla difesa dell’imputato.
Orbene, risulta dagli atti che nel corso dell’udienza preliminare del 21/11/2013 la
difesa SIANO ha depositato richiesta di applicazione della pena in calce alla quale
risulta essere stato apposto il consenso del Pubblico Ministero in pari data.

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dell’art. 606 cod. proc. pen. la doglianza è rivolta.

Va detto subito che in detta richiesta di applicazione della pena non è contenuta
la richiesta di applicazione della sanzione sostitutiva ex I. 689/81.
Come risulta dal verbale d’udienza di quel giorno, nessun cenno è stato fatto a
tale richiesta ed il Giudice, dopo averla incamerata, ha rinviato per la decisione
al 23/1/2014.
Nel corso dell’udienza celebrata in quest’ultima data la difesa dell’imputato
SIANO ha chiesto di integrare la propria originaria richiesta istando per la
sostituzione della pena detentiva patteggiata con quella della semidetenzione ai

Il Pubblico Ministero non ha espresso il parere sul punto ma si è rimesso alla
volontà del Giudice.
E’ chiaro in maniera lampante sulla base della ricostruzione della vicenda
processuale di cui sopra che l’accordo delle parti era quello formatosi il
21/11/2013, nel quale, come detto, non era contenuta la richiesta di
applicazione della sanzione sostitutiva, mentre all’udienza 23/1/2014 detto
accordo non è stato modificato – e non avrebbe potuto esserlo – ma è stata solo
formulata dalla difesa dell’imputato una richiesta aggiuntiva sulla quale il
Pubblico Ministero non ha prestato un “formale” consenso non potendosi certo
qualificare come tale la condotta della parte processuale che si è limitata a
rimettersi alla decisione del Giudice.
E’ quindi punto fermo il fatto che nell’accordo raggiunto tra le parti e
cristallizzatosi all’udienza del 21/11/2013 non era contenuta la richiesta di
applicazione della sanzione sostitutiva.
L’istanza formulata dalla difesa all’udienza del 23/1/2014 da un lato non ha dato
luogo ad un nuovo accordo e dall’altro non può neppure qualificarsi come revoca
della richiesta precedentemente formulata nell’ipotesi in cui non fosse
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dal Pubblico Ministero anche la nuova richiesta ex I. 689/81 / ciò
perché, come questa Corte Suprema ha già avuto modo di chiarire “è
inammissibile la revoca unilaterale della proposta di applicazione della pena
patteggiata dopo che sulla stessa sia intervenuto il consenso della parte
pubblica, e ciò in quanto, allorché una delle parti abbia aderito alla richiesta
formulata dall’altra, il procedimento speciale si avvia verso l’epilogo anticipato
che non ne consente più la regressione” (Cass. Sez. 2, sent. n. 2845 del
17/04/1997, dep. 29/04/1997, Rv. 207828; Sez. 4, sent. n. 38070 del
11/07/2012, dep. 01/10/2012, Rv. 254371). L’incontro delle manifestazioni di
volontà delle parti determina, infatti, “effetti irreversibili già prima della ratifica
dell’accordo da parte del giudice” (Cass. Sez. 3, sent. n. 39730 del 04/06/2009,

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sensi dell’art. 55 della I. 689/81.

dep. 12/10/2009, Rv. 244892; ed in tal senso anche Cass. Sez. 4, sent. n.
38051 del 03/07/2012, dep. 01/10/2012, Rv. 254367).
Il Giudice di prime cure ha quindi ben operato limitandosi a decidere
esclusivamente sull’accordo tra le parti perfezionatosi in occasione della richiesta
di applicazione della pena depositata all’udienza del 21/11/2013 così
disattendendo la richiesta integrativa de qua.
Nessun vizio è quindi ravvisabile sotto questo profilo nella sentenza del Giudice
di prime cure e per l’effetto il relativo motivo di ricorso è da ritenersi

8. L’ultimo dei motivi di ricorso che deve essere preso in considerazione è quello
riguardante il fatto che il Giudice di prime cure non avrebbe riconosciuto
all’imputato SIANO le circostanze attenuanti generiche ancorchè espressa
richiesta di riconoscimento delle stesse era contenuta nella richiesta di
applicazione della pena concordata tra le parti.
Se la doglianza in fatto è corretta, non altrettanto può dirsi con riguardo alla
conseguenze in punto di diritto alla quale richiede di addivenire la difesa del
ricorrente.
Ancora una volta appare doveroso fare richiamo all’esatto contenuto della
richiesta di applicazione della pena formulata dalle parti.
Nella stessa, infatti, si evince che per l’imputato SIANO è stata richiesta la
concessione delle “attenuanti generiche e risarcimento danno equivalenti alle

contestate aggravanti comuni e recidiva”.
Il Giudice dell’udienza preliminare per un evidente omissione materiale non ha
menzionato in sentenza le circostanze attenuanti generiche ma solo quella di cui
all’art. 62 n. 6 cod. pen. che peraltro ha valutato – come richiesto dalle parti con giudizio di “equivalenza” rispetto alle contestate aggravanti comuni e alla
recidiva.
In sostanza la predetta omissione è stata assolutamente ininfluente ai fini della
decisione in quanto è stata pienamente accolta la richiesta concordata delle parti
di giungere ad un giudizio di equivalenza nell’ambito della comparazione tra
circostanze attenuanti ed aggravanti comuni e recidiva senza che ciò abbia
quindi avuto incidenza alcuna sulla determinazione della pena.
Non v’è quindi ragione di interesse del ricorso sul punto che, quindi, deve essere
dichiarato inammissibile.
Per solo dovere di completezza, deve essere evidenziato che la sentenza di
questa Corte citata nel ricorso (Cass. Sez. 3, sent. n. 1991 del 16/3/2000, rv.
217597) si riferisce ad un caso totalmente diverso da quello che in questa sede

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manifestamente infondato.

ci occupa riguardando l’ipotesi in cui il Giudice aveva effettuato un giudizio di
comparazione delle circostanze diverso da quello prospettato nella richiesta di
applicazione della pena , il che non si è verificato nel caso oggi in esame ove il
Giudice ha recepito la richiesta delle parti di ritenere equivalenti le circostanze
(comuni) di segno opposto.

Per le considerazioni or ora esposte, dunque, i ricorsi devono essere dichiarati
inammissibili.

loro, al pagamento delle spese del procedimento e, quanto a ciascuno di essi, al
pagamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di
esonero, della somma ritenuta equa di Euro 2.000,00 (duemila) a titolo di
sanzione pecuniaria.

P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e ciascuno della somma di Euro 2.000,00 alla Cassa delle ammende.

Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti, in solido tra

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