Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 30579 del 21/05/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 30579 Anno 2014
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: MULLIRI GUICLA

SENTENZA
sui ricorsi proposto da:
Barbera Francesco, nato a Rizziconi il 17.10.80
Florio Stefano, nato a Cosenza il 31.8.78
imputato art. 73 T.U. stup.

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria del 26.6.13
Sentita, in pubblica udienza, la relazione del cons. Guida Mùlliri;
Sentito il P.M., nella persona del P.G. dr. Gioacchino Izzo, che ha chiesto l’annullamento
con rinvio della sentenza nei confronti del Barbera e rigetto del ricorso di Florio
Sentito il difensore degli imputati avv.ti Antonino Napoli e Maurizio Nucci, che hanno
insistito per l’accoglimento del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

Il Barbera è stato giudicato
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato colpevole della violazione dell’art. 73 T.U. stup. per avere ceduto a terzi 50 gr di cocaina e,

Data Udienza: 21/05/2014

fi

per tale ragione, condannato ad una pena di 6 anni e 6 mesi di reclusione e 30.000 € di multa
che la Corte d’appello, con la decisione qui impugnata, ha confermato.
Al Florio è stata, invece, irrogata la pena di dodici anni di reclusione (anch’essa confermata
in secondo grado) per avere violato gli artt. 74 e 73 T.U. stup. Gli si contesta, infatti, di avere, in
concorso con numerosi altri soggetti, fatto parte di una organizzazione criminosa dedita allo
spaccio di stupefacente ed, in particolare, di avere mantenuto i contatti con tale Ascone,
acquistando periodicamente cocaina, eroina e marijuana che poi aveva immesso sul mercato
in un arco di tempo compreso tra il maggio 2001 e l’ottobre 2002 ed, inoltre, per avere,
sempre in concorso con altri, ceduto, nel medesimo periodo, sostanza stupefacente.
Avverso la decisione di conferma della Corte d’appello, i
2. Motivi del ricorso
condannati hanno proposto ricorso, tramite i rispettivi difensori, deducendo:
Barbera
violazione di legge penale e processuale in relazione alla mancata
1)
riassunzione della prova testimoniale acquisita prima del cambiamento del collegio.
In pratica, è accaduto che, nel corso del dibattimento, vi è stato un mutamento del
collegio giudicante a seguito del quale vi è stata rinnovazione mediante lettura ancorché la
difesa del Barbera si fosse opposta. La decisione è stata assunta dai giudici sulla base del
disposto dell’art. 190 bis c.p.p.. Si fa, però, notare da parte del ricorrente che, se è vero che il
procedimento nel cui ambito il Barbera è stato giudicato conosceva anche una contestazione di
art. 74 T.U. stup. (sì da rientrare tra i reati di cui all’art. 51 comma 3 bis c.p.p.), di certo il Barbera
rispondeva solo della violazione dell’art. 73 e, quindi, non era legittimata, nei suoi confronti la
rinnovazione mediante lettura.
Il ricorrente, nella eventualità non sia accolto il presente motivo, solleva eccezione ci
incostituzionalità dell’art. 190 bis, in relazione all’art. 3 cost. nella parte in cui consente
l’applicazione di un principio così limitativo del diritto alla prova delle parti (in deroga all’art. 190
c.p.p.) che, però, riguarda solo soggetti nei confronti dei quali si proceda per determinati delitti;
2) violazione di norme sostanziali e processuali per avere ritenuto la utilizzabilità
delle intercettazioni ancorché i decreti autorizzativi non fossero stati prodotti in dibattimento.
Il ricorrente ricorda che la mancata allegazione dei decreti era stata causata dal fatto che il
giudizio, dopo l’udienza preliminare, si era biforcato. Una grossa fetta era stata trattata e
decisa con rito abbreviato, l’altro ramo riguarda gli odierni ricorrenti nei confronti dei quali si è
proceduto con le forme ordinarie.
E’ per tale ragione che, secondo il ricorrente, non è possibile applicare l’art. 270 c.p.p.
visto che la norma si riferisce ad altri procedimenti mentre invece, nella specie, il procedimento
è il medesimo.
E’ ben vero che la Corte d’appello, rinnovando il giudizio,ha disposto l’acquisizione (a
cura dell’ufficio di procura Generale) dei decreti autorizzativi ma, nel fare ciò, ha errato perché la
rinnovazione del dibattimento si sarebbe giustificata in caso di prova ritenuta inutilizzabile per
una violazione delle regole attinenti alla sua assunzione e non per violazione di un divieto
probatorio ex art. 191 c.p.p..
3) errata applicazione della legge e vizio motivazionale in quanto l’affermazione
di responsabilità non sarebbe avvenuta “oltre il ragionevole dubbio”. Essa, infatti, si fonda
essenzialmente sul rilievo che l’imputato ed il cessionario della droga (Ragaimuto mammino Sauro)
si sono incontrati un po’ prima del rinvenimento della droga ben occultata nel vano dello
specchietto retrovisore dell’auto del Ragalmuto ma ciò solo non legittima il convincimento che
la sostanza stupefacente fosse stata data al Ragalmuto dal Barbera.
Gli operanti non hanno assistito ad alcuna cessione e neppure le intercettazioni offrono
in proposito elementi di convincimento maggiore perché il loro significato non è univoco nel
senso che si stia parlando di droga. A tal fine, il ricorrente allega il testo delle conversazioni
intercorse tra i due ed evidenzia come taluni riferimenti siano pertinenti con commercio di
veicoli (a cui, sia pure “in nero”, si dedicava il Barbera). In altri termini, si censura la decisione perché
caratterizzata da pregiudizio e fondata su una massima di esperienza illogica secondo la quale
chi incontra una persona che, poco dopo, sia trovata in possesso di sostanza stupefacente,

2

risponde della sua cessione, se non riesce a trovare una valida e convincente giustificazione
dell’incontro – anche in mancanza di ulteriori elementi di conferma -;
4) vizio motivazionale e violazione di legge nella determinazione della pena. Si
fa, infatti, notare che, alla resa dei conti, si tratta di circa 14 grammi di sostanza pura e che al
Barbera, al momento del giudizio, non era stata contestata alcuna recidiva.

1)
inutilizzabilità delle dichiarazioni del teste Martino in quanto assunte in
violazione dei diritti difensivi. In particolare, si evidenzia che la Corte ha erroneamente
equiparato le eccezioni difensive svolte sul punto dalle difese dei due imputati evidenziando
che i presupposti sui quali si basa quella formulata dalla difesa di Florio erano diverse da quelli
della difesa di Barbera. Ricorda, infatti, il ricorrente come, in vista dell’udienza del 2.10.07, la
difesa di Florio – rappresentata da legali provenienti da altro distretto — avesse chiesto indicazioni circa
l’argomento che sarebbe stato trattato in quella udienza e – come poi confermato in udienza dallo
stesso presidente (v. trascrizioni verbale udienza f. 3 ricorso) — essa era stata nel senso che ci si sarebbe limitati
ad indicare i testimoni da sentire.
Per tale ragione, i difensori avevano deciso di farsi rappresentare da un sostituto
processuale (l’avv. Ienco) che, in quella occasione – nel constatare che, ciò nonostante, si procedeva
all’esame del teste Martino — aveva chiesto che, quantomeno, detto esame non fosse portato a
termine onde permettere ai difensori di fiducia di presenziare per il controesame all’udienza
successiva. Su tale istanza, il collegio si era riservato ed aveva proceduto all’esame del teste
Martino, all’esito del quale – senza che fosse stata sciolta alcuna riserva — il collegio aveva, di propria
iniziativa, rivolto numerose domande al teste circa la posizione del Florio ed, infine, aveva
respinto la richiesta difensiva di riconvocare il teste Martino per l’udienza successiva perché i
dati forniti dal teste potevano considerarsi esaurienti.
Nel fare ciò, secondo il ricorrente, il Tribunale aveva anche violato norme della CEDU
che riconoscono all’accusato di interrogare o far interrogare testimoni a carico;
2)
illogicità della motivazione addotta dalla Corte per negare il differimento
dell’udienza del 13.12.07 per legittimo impedimento dei difensori del Florio sul presupposto
che lo sciopero degli autotrasportatori e la conseguente impossibilità di rifornimento di benzina
non costituissero un impedimento assoluto. Si obietta che i difensori erano sempre stati
presenti alle altre udienze e che, in quella occasione, essi erano impossibilitati a raggiungere il
Tribunale sito in altro distretto anche per via della sospensione del trasporto pubblico. Ciò
nonostante, l’ordinanza non aveva spiegato perché la difficoltà rappresentata dai difensori non
possedesse i caratteri dell’assolutezza;
vizio della motivazione nell’affermazione della responsabilità penale del
3)
Florio. Si fa, infatti, notare che la Corte si è adagiata sulle argomentazioni del primo giudice
non fornendo risposta alle obiezioni svolte nei motivi di appello ove si segnalavano dubbi sulla
identificazione del Florio dal momento che lo stesso teste Donato non era stato in grado di
precisare sulla base di quali elementi si fosse pervenuti alla individuazione del Florio ed anche i
CC. di Paternò Calabro nulla avevano confermato circa l’uso, da parte del Florio, della
medesima auto usata dai sodali. Inoltre, si ricorda che, nelle utenze attribuite al Florio definite
“dedicate” (cioè utili solo al contatto tra le persone che la usavano), gli interlocutori avevano un accento
reggino ed, in ogni caso, non erano state individuate le “celle” dalle quali le conversazioni
erano state captate.
I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Motivi della decisione

I ricorsi sono entrambi infondati e devono essere respinti.

3

Florio

3.1. Il primo motivo sollecita l’attenzione di questa S.C. sulla questione della possibilità
di estensione della deroga procedurale prevista dall’art. 190 bis c.p.p. a chi, nell’ambito del
medesimo procedimento, non debba rispondere di uno dei reati di cui all’art. 51 comma 3 bis
c.p.p.,
Come ricordato anche dalla dottrina, l’attuale testo dell’art. 190 bis c.p.p. ha avuto
vicende piuttosto travagliate in sede di elaborazione legislativa al fine di renderlo compatibile
con i principi del contraddittorio. La norma prevede ora una deroga al regime del diritto alla
prova stabilendo che, nel caso in cui sia richiesto l’esame di un soggetto (teste o imputato di reato
connesso), che abbia già reso le proprie dichiarazioni in incidente probatorio ovvero nel
dibattimento (in contraddittorio con la persona nei cui confronti quelle affermazioni vengono usate), un nuovo
esame di tali soggetti è ammesso solo a determinate condizioni: la prima è che si tratti di
procedimento per taluno dei reati previsti dall’art. 51 comma 3 bis, la seconda è che il nuovo
esame debba vertere su fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti
dichiarazioni o, infine, in alternativa, che il giudice, o taluna delle parti, ritengano il nuovo
esame necessario, sulla base di specifiche esigenze.
La sola elaborazione giurisprudenziale rinvenibile finora sulla presente disposizione ha
affermato che l’attuale disciplina dell’art. 190 bis si applica anche nell’ipotesi in cui si debba
procedere a rinnovazione dell’istruttoria per il sopravvenuto mutamento della persona del
giudice (Sez. VI, 9.5.03, Cottone, Rv. 228300; Sez. IL 8.5.02, Madonia, Rv. 222797; Sez. III, 4.2.03, Cavaliere, Rv. 225431).
Tale è, per l’appunto, il caso che occupa visto che il problema della ripetizione
dell’esame già espletato si è posto proprio a seguito del mutamento del collegio giudicante.
La peculiarità della situazione sottoposta all’attenzione di questa Corte dal ricorrente
Barbera risiede, tuttavia, nel fatto che il procedimento lo vede imputato solo del reato di cui
all’art. 73 T.U. stup. (non rientrante tra i reti di cui all’art. 51 comma 3 bis ) ed è, appunto, su ciò che si
fonda la doglianza del ricorrente che critica la decisione che è stata adottata dalla Corte sul
rilievo che il procedimento riguarda la violazione dell’art. 74 T.U. stup. e, quindi, uno dei reati
per i quali la deroga era consentita.
L’obiezione della difesa del Barbera è che la contestazione del reato “derogante”
riguarda, però, altro imputato, il Florio.
Pur essendo innegabile la delicatezza del tema posto, deve dirsi che l’auspicio di una
procedura “differenziata”, espresso nel ricorso di Barbera, non può trovare accoglimento per
più ragioni.
La prima è da rinvenire nella stessa lettera della norma che recita «nei procedimento
per taluno dei delitti… » e non (ad esempio) «quando si procede nei confronti di persona
imputata ex art….. ».
In altri termini, il tenore testuale della norma risulta essere di tipo “oggettivo” e non
“soggettivo”; vale a dire che, per decidere se sia applicabile l’art. 190 bis, si deve avere
riguardo al procedimento nel suo complesso.
Diversamente, estremizzando l’approccio interpretativo della difesa, la differenziazione
procedurale dovrebbe essere applicata nei confronti dello stesso imputato cui siano stati, ad
esempio, contestati più reati e solo uno di essi rientri tra quelli per i quali è applicabile l’art.
190 bis. In pratica, si dovrebbe immaginare una sorta di frazionamento del processo con
applicazione di disposizioni diverse sul piano procedurale, a seconda che l’acquisizione
probatoria riguardi la verifica del reato “derogante” rispetto ad altra che non lo consente. ,
La complicazione che, intuibilmente, ne deriverebbe è fin troppo evidente. E ciò vale
anche nel caso, come quello in esame, in cui si tratta, più semplicemente, di due imputati
diversi nei confronti dei quali si procede contemporaneamente.
Del resto, anche prescindendo dalle immaginabili difficoltà pratiche di adottare due
procedure diverse nell’ambito dello stesso procedimento in relazione a ciascun imputato, non
può sfuggire la difficoltà di inquadrare sistematicamente anche le condizioni di verificazione di
tale “bivio procedurale”.
In altri termini, a voler ipotizzare che, al verificarsi di una situazione come quella in
esame, si debbano diversificare le procedute da applicare, verrebbe fatto di chiedersi se ciò
avvenga solo ove l’imputato cui non si contesti alcuno dei reati di cui all’art. 51 comma 3 bis
non abbia mai avuto alcuna accusa di tal genere o, anche, se sia stato, a propria volta
anch’egli inizialmente accusato di uno dei reati qualificati (venuto meno in corso di giudizio, per le più
4

Quanto al ricorso di Barbera

Ed infatti, in tale ultima eventualità, si potrebbe obiettare
che a lui vada ugualmente applicata la procedura “derogante” per essere stato, in qualche
modo, “giustificata” dall’originaria accusa (ancorché venuta meno in itinere).
La complicatezza e tortuosità, perfino, del discorso appena fatto (nello sviluppo delle
varie e imprevedibili vicende processuali).

conseguenze aberranti cui porterebbe l’auspicata “personalizzazione della procedura” all’interno di uno stesso

costituiscono valida spia di allarme per riflettere sulla sua inaccettabilità.
Peraltro, a ben vedere, la suddetta “soggettivizzazione procedurale” potrebbe essere
praticabile solo grazie ad uno stralcio delle posizioni con conseguente moltiplicazione dei
processi e prolungamento dei loro tempi di durata (a dispetto del principio della ragionevole durata del

procedimento)

Del resto, a sconsigliare la eventualità caldeggiata dal ricorrente soccorre l’ulteriore
riflessione suggerita dall’intervento con cui questa S.C. (sez. VI, 9.5.08 cit.) ha anche respinto,
perché manifestamente infondata, l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata con
riferimento all’art. 190 bis per contrasto con gli artt. 3 e 24 cost..
Ed infatti, in quella decisione, è stato osservato che il peculiare regime di lettura delle
dichiarazioni già rese, previsto dalla norma impugnata, «si giustifica per l’esigenza di prevenire
l’usura delle fonti di prova particolarmente pressante in ragione delle peculiarità soggettive ed
oggettive dei procedimenti in questione».
Orbene, non vi è dubbio, che tale ultimo richiamo alle “peculiarità” dei “procedimenti”
riporti nuovamente l’attenzione sulla necessità di un apprezzamento di tipo “obiettivo” essendo
evidente che anche quando, colà, si parla di peculiarità “soggettive” ci si riferisce sempre al
“procedimento” (e non all’imputato). Si intende, in altri termini, sottolineare che la deroga
contenuta nell’art. 190 bis trova una propria logica nel fatto che i procedimenti ai quali si
applica riguardano, appunto, una certa categoria di reati (decisamente più gravi ed allarmanti) che
vede imputati anche soggetti di più elevato spessore criminale; con tutto quel che segue anche
sul piano della difficoltà di acquisire la prova nel contraddittorio.
Di qui la necessità di “custodirla” in modo particolare.
Né, a circoscrivere il raggio di azione della norma, può valere il richiamo al fatto che,
nell’ambito del medesimo processo, vi siano – come è il caso che occupa – soggetti ai qual non è
stato contestato uno dei reati di cui all’art. 51 comma 3 bis perché, a ben riflettere, la
“compresenza” di tali soggetti nel medesimo procedimento non è casuale ma evidente indizio
della esistenza di elementi comuni nell’indagine che ha portato alle rispettive incriminazioni.
Esempio emblematico è il caso in esame ove al Barbera si contesta la violazione dell’art.
73 T.U. stup. rispetto a quella di Florio che ha la medesima imputazione nonché anche quella
di cui all’art. 74 T.U. stup. e, come meglio si dirà più avanti (commentando il terzo motivo, relativo alla
responsabilità), risulta chiaro che il singolo episodio di spaccio qui ascritto al Barbera è venuto
alla luce proprio indagando nei confronti di una ampia organizzazione criminosa dedita al
traffico di stupefacente (di cui fa parte, appunto, il Florio).
Vi è, in buona sintesi, una sorta di connessione atipica derivante dal fatto che gli
elementi indizianti per ciascuno dei due imputati sono stati raccolti in occasione
dell’accertamento dell’uno o dell’altro fatto con il risultato che, pur non essendovi state le
condizioni per ipotizzare un concorso, si è proceduto contestualmente nei confronti di
entrambi. In fondo, si tratta di un effetto “estensivo” non difforme da quelli talvolta prodotti
dalle norme sulla competenza per connessione ove accade che un soggetto venga ad essere
giudicato da un giudice territorialmente diverso da quello che gli sarebbe spettato se giudicato
da solo.
In questo caso, la deroga riguarda la procedura ma, rifletendoci, siffatto modo di
procedere costituisce una garanzia e non un limite perché la “oggettività” delle norme
procedurali da applicare è, in sé, una certezza per tutti gli imputati.
Diversamente opinando, infatti, si incorrerebbe nel rischio di aprire un varco
preoccupante verso un fenomeno di “personalizzazione” delle procedure da applicare, oltre
che di eccessiva frammentazione dei procedimenti (ipotesi sicuramente contrastata dal sistema introdotto
con il codice di rito vigente).

Tornando, quindi, al caso specifico, deve concludersi per la correttezza assunta dalla
Corte d’appello sulla base di argomenti non privi di pregio visto che, giustamente, si è posto
l’accento SU “ragioni di economia processuale” (ritenute significative anche nelle considerazioni che
precedono) e, quindi, ha soggiunto che, una corretta applicazione dell’art. 190 bis implicava che,
ai fini della ripetizione dell’esame, fosse necessario sentire le persone su fatti o circostanze
5

processo).

3.2. Decisamente infondato è il secondo motivo di gravame. Il ragionamento del
difensore finisce per “provare troppo”.
Innanzitutto, di fronte alla obiettività del fatto che i decreti non erano presenti nel
fascicolo del procedimento stralciato a carico di Barbera e Florio solo perché erano rimasti
all’interno del troncone principale che aveva seguito altra strada, sembra veramente eccessivo
sostenere la inapplicabilità dell’art. 270 c.p.p. sul rilievo che la disposizione – che apre la strada
alla utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti – non si attaglierebbe al caso di
specie perché parla di “altri” procedimenti mentre invece, nella specie, il procedimento è il
medesimo.
A prescindere dal rilievo che ciò non è neppure del tutto esatto visto che, a seguito di
stralcio, i procedimenti si sono differenziati ( a meno che non si voglia discettare sul concetto di “altro” procedimento
intendendo come tale quello che era diverso ab initio), semmai, vale l’esatto contrario di ciò che il ricorrente
sostiene e cioé che, essendo consentito dal sistema l’utilizzo delle intercettazioni di “altri”
procedimenti, a fortiori, si possono ritenere utilizzabili quelle del “medesimo”.
Il discorso estremizzante del ricorrente è errato anche esaminandolo sotto altri aspetti
come correttamente fatto dalla Corte. Ed infatti, dal momento che non si tratta di utilizzare atti
affetti da alcun vizio “patologico” è decisamente eccessivo sostenere che il semplice fatto di
non aver acquisito, già in primo grado, i decreti autorizzativi renderebbe le intercettazioni
irreparabilmente inutilizzabili al punto di non poter essere acquisite neppure dalla Corte. In
realtà, è giusta anche la semplice obiezione dei giudici di secondo grado quando ricorda che la
questione posta con i motivi di appello era ormai tardiva (sez. v, 1.2.11, n. 7591) perché avrebbe
dovuto essere sollevata immediatamente dopo compiute, per la prima volta, le formalità di
apertura del dibattimento.
Inoltre, opportunamente la Corte ha fatto anche notare che la parte che deduce la
inutilizzabilità delle intercettazioni per illegittimità o – come è il presente caso – per mancanza
dei relativi decreti, ha un onere di allegazione che qui non è stato onorato (sez. VI, 15.4.09, n. 6875)
oltre che un dovere di specificazione delle intercettazioni di cui si chiede la inutilizzabilità
(perché non indicabili in modo generico o generalizzato

Sez. VI, 19.4.12, n. 18725).

Come infine anticipato, è pretestuoso anche censurare il fatto che, nonostante tutto, la
Corte abbia, ad abundantiam e con scelta pragmatica e di buon senso, acquisito di ufficio i
decreti (ovviando così a quello che era stato solo un disguido pratico nella effettuazione delle copie).
Non vi sono margini di accoglimento neppure del terzo motivo ove si
3.3.
affronta il merito della declaratoria di responsabilità perché, sul punto, la decisione impugnata
è argomentata in modo logico e, quindi, ormai qui incensurabile. Né la critica alla motivazione
acquista maggior pregio (sfuggendo al sospetto di sua quasi inammissibilità perché “in fatto”) attraverso la
insinuazione che la decisione assunta non resisterebbe al “ragionevole dubbio”. Nel fare ciò,
infatti, il ricorrente incorre nel frequente errore “parcellizzante” proprio di chi, per difendersi,
cerca di circoscrivere l’attenzione solo su una parte dell’intera vicenda criminosa.
Come, invece, appare chiaro dalla lettura della sentenza impugnata e dal commento ivi
fatto delle complessive indagini e delle intercettazioni telefoniche, l’episodio di cessione della
droga da parte del Barbera al Ragalbuto Mammino Sauro non si atteggia come un evento
anomalo o occasionale ma, al contrario, legittima il convincimento che la droga rinvenuta sotto
lo specchietto retrovisore dell’auto di Ragalmuto provenisse dal Barbera. Infatti, il nome di
Barbera è emerso insieme a quello (tra altri) di Arcuri Rosario ed Ascone Antonio (di cui si dirà
parlando di Florio), soggetti coinvolto nell’ambito di una indagine (cd. operazione Timpano) che, nel
novembre dello stesso anno, aveva portato al rinvenimento di 15 kg di cocaina.
Le accuse nei confronti del Barbera, con riferimento alla droga rinvenuta a Ragalmuto,
non sono frutto di una supposizione semplicemente legata al fatto che, in precedenza, i due si
fossero incontrati. Si deve, infatti, ricordare che, a carico del Barbera, vi sono i suoi contatti
con lo spacciatore D’Agostino Giuseppe ed «i suoi rapporti stabili con lo spacciatore Ragalmuto
6

diverse da quelle sulle quali era già stato sentito ovvero che il giudice stesso avesse ravvisato
la necessità di un nuovo esame.
Non essendo ricorsa alcuna delle predette condizioni, non vi era, quindi, spazio per la
doglianza.
Per tutte le ragioni fin qui illustrate, è avviso di questo collegio che la decisione sul
punto sia stata corretta.

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Mammino Sauro» dei quali non è stata fornita «alcuna valida giustificazione». Pertanto considerata la contiguità temporale tra il fatto che Ragalmuto, provenendo dalla Sicilia, era
andato subito a trovare Barbera (dopo contatti telefonici all’uopo) ed il controllo, immediatamente
non
successivo (v. dichiarazioni del teste Martino), del Ragalmuto (trovato in possesso della droga)
costituisce certo un volo pindarico l’ipotesi che Ragalmuto si fosse appena approvvigionato
presso il Barbera. L’esistenza di plurime conversazioni telefoniche caratterizzate da linguaggio
criptico rafforza la validità dell’ipotesi accusatoria.
Le diverse deduzioni difensive si risolvono solo in un tentativo di “estrapolare” l’episodio
Ragalmuto da un contesto che, invece, lo qualifica ed illumina in modo univoco e, comunque di
indurre questa S.C. ad una rilettura della vicenda sotto una diversa prospettiva. La qual cosa,
come noto, è preclusa in questa sede, se non a rischio di trasformare il presente in un terzo
grado di merito.
3.4. Per ragioni analoghe a quelle appena menzionate, deve respingersi anche il
quarto motivo di gravame ove si sollecita una rivalutazione dell’adeguatezza della pena
laddove è notorio che essa è frutto di una valutazione affidata alla discrezionalità del giudice
di merito il quale diviene qui incensurabile nella misura in cui abbia spiegato in modo congruo
e logico le ragioni del proprio decisum. Nella specie, la Corte, a fronte dell’analoga doglianza,
ha replicato che la misura della pena inflitta al Barbera doveva ritenersi adeguata alla gravità
di una condotta caratterizzata da «ampia adesione al progetto criminale del traffico di
stupefacenti ed indicativa di spiccata propensione a delinquere».

Quanto al ricorso di Florio
3.4. Sebbene la prima doglianza del Florio non sia del tutto priva di fondamento, deve
ugualmente essere respinta per difetto di interesse.
Non vi è dubbio che il modo di conduzione dell’esame del teste Martino, da parte del
collegio, sia stato scorretto visto che ha, di fatto ed immotivatamente, disatteso l’istanza
difensiva di aggiornamento dell’esame all’udienza successiva per consentire il controesame da
parte dei difensori titolari (vista la precarietà di una difesa rappresentata da un sostituto e considerato che la ,
precarietà si era determinata proprio grazie alle “previsioni programmatiche” dello stesso presidente del collegio).

Il vizio non è però rilevante, dal punto di vista della difesa di Florio perché, come si
constata agevolmente dalla motivazione impugnata, le dichiarazioni del teste Martino sono
state considerate solo con riferimento alla posizione di Barbera. Per Florio, sono state evocate
le parole del teste Tarantino e varie intercettazioni telefoniche.
3.4. Il secondo motivo si segnala per una certa genericità. Con esso, infatti, si

riproduce la doglianza già svolta dinanzi alla Corte che vi ha replicato in modo sintetico ma
sufficiente. E’, infatti, chiaro che il semplice sciopero di autotrasportatori con conseguente
carenza di carburante non costituisce impedimento assoluto per gli spostamenti ma solo,
semmai, causa di disagio. Non risulta neppure nell’odierno gravame, l’allegazione di ragioni
più specifiche con il risultato che il motivo deve essere disatteso difettando di una critica
puntuale alla motivazione della Corte.
3.4. Il terzo motivo, con le sue censure squisitamente fattuali, è ai margini
dell’inammissibilità.
E’ principio giurisprudenziale acquisito da tempo (6402/97, Rv 207944, Dessimone) che l’indagine
di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto perché il
sindacato demandato alla Corte di legittimità è limitato – per espressa volontà del legislatore
a
riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione
impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di
merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni
processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva,
riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera
prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze
processua li.

7

Il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene solo alla coerenza
strutturale della decisione di cui si “saggia” la oggettiva “tenuta” sotto il profilo logico
argomentativo restando “preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei
fatti” (Sez. III 27.9.06 Rv 234155; ex multis, anche , Sez. VI, 8.5.09, n. 22445, Rv. 244181; Sez. VI, 8.5.09, n. 22445, Rv.
Ciò premesso, è innegabile che, nella specie, il percorso motivazionale della Corte
d’appello, nel ribadire la responsabilità del Florio, sia stato adeguato e scevro da vizi logici.
Come già si ricordava trattando del primo motivo, la deposizione del maresciallo Tarantino ha
“cucito” le varie parti di un vasta indagine che ha visto coinvolti soggetti come Arcuri Rosario o
Ascone Antonio implicati in traffici di importanti quantitativi di droga.
In particolare, si segnala in sentenza che Florio è risultato essere acquirente di Ascone
al quale si rivolgeva per procurarsi partite di droga che poi smerciava per proprio conto e si
ricorda che il carico di 15 kg di cocaina sequestrato nel novembre 2001 era destinato proprio a
Florio. La Corte, commenta poi il chiaro significato delle intercettazioni che si raccorda
perfettamente con le vicende dell’arresto di Mancuso mentre Florio faceva da staffetta su altra
autovettura che lo precedeva di poco. Le obiezioni difensive – sopra riassunte – sono,
all’evidenza squisitamente di merito ed in parte, si risolvono in mere asserzioni ed, in quanto
tali, non meritevoli di maggiore replica.

Nel respingere i ricorsi, segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle
spese processuali.

P.Q.M.
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali

Così deciso il 21 maggio 2014
Il Presidente

244181Sez.1, 27.9.07, Formis, Rv. 237863; Sez. 1111 1.07, Messina, Rv. 235716).

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