Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 30490 del 12/06/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 30490 Anno 2014
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: DELL’UTRI MARCO

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Licatini Salvatore n. il 15.2.1938
avverso l’ordinanza n. 111/2012 pronunciata dalla Corte d’appello di
Palermo il 17.4.2013;
sentita nella camera di consiglio del 12.6.2014 la relazione fatta dal
Cons. dott. Marco Dell’Utri,
lette le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del dott. L.
Riello, che ha richiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

Data Udienza: 12/06/2014

Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza in data 17.4.2013, la corte d’appello di Palermo ha rigettato l’istanza avanzata da Salvatore Licatini diretta alla
riparazione dell’asserita ingiusta detenzione dallo stesso subita in relazione alla prospettata commissione, da parte dello stesso, del reato
di usura continuata dalla cui imputazione l’istante era stato definitivamente assolto nel merito.
A sostegno della decisione assunta, la corte territoriale ha rilevato la sussistenza, nella specie, della condizione ostativa alla riparazione rappresentata dall’avere l’istante dato (o concorso a dare) causa
alla detenzione per dolo o colpa grave, avendo il Licatini imprudentemente intrattenuto rapporti di prestito a interessi con più soggetti
senza autorizzazione, ed essendosi altresì successivamente avvalso, in
sede d’interrogatorio, della facoltà di non rispondere alle richieste di
chiarimenti dell’autorità giudiziaria, in tal modo confermando, per
propria colpa grave, il significativo quadro indiziario delineatosi nei
propri confronti.
Avverso il provvedimento della corte d’appello di Palermo,
a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione il
Licatini, censurando l’ordinanza impugnata per vizio di motivazione
e violazione di legge in relazione agli artt. 314 e 315 c.P-P..
In particolare, si duole il ricorrente che la corte territoriale abbia ritenuto causalmente rilevante e gravemente colpevole il complessivo comportamento del Licatini nel provocare l’adozione del
provvedimento restrittivo dallo stesso sofferto, in assenza di alcun
concreto elemento probatorio di riscontro in tal senso utilizzabile.
Ha depositato memoria il procuratore generale presso la corte
di cassazione, concludendo, in accoglimento del ricorso, per
l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.
2. –

Considerato in diritto
3. – Il ricorso è fondato.
Secondo il costante insegnamento di questa corte di legittimità, in coerenza al dettato normativo di cui all’art. 314 c.p.p., costituisce causa ostativa al conseguimento della riparazione per l’ingiusta
detenzione subita, l’adozione, da parte dell’istante, di un comportamento (connotato dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa gra-

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ve) oggettivamente e concretamente idoneo a dar causa (o a concorrervi) all’adozione della misura cautelare in concreto eseguita nei relativi confronti.
Va pertanto escluso il ricorso di una causa ostativa al conseguimento dell’equa riparazione nel caso in cui il comportamento (pur
doloso o colposo) contestato all’agente, non abbia concretamente rivestito alcuna influenza causale nell’adozione della misura cautelare
restrittiva dallo stesso sofferta, avuto riguardo alle specifiche ragioni
poste a fondamento della relativa emissione.
Nel caso di specie, la corte territoriale, dopo aver evidenziato
come il ricorrente fosse stato sottoposto a misura cautelare restrittiva
in quanto indiziato del delitto di usura continuata in danno di più
soggetti, nel descrivere i profili della condotta del Licatini asseritamente ostativa al riconoscimento della riparazione dallo stesso invocata, ha valorizzato la circostanza costituita dall’avere il Licatini erogato prestiti a interesse nei confronti di svariate persone senza autorizzazione, essendosi altresì avvalso, in sede d’interrogatorio, della
facoltà di non rispondere alle richieste di chiarimenti dell’autorità
giudiziaria.
In tale guisa compendiata, la motivazione dell’ordinanza impugnata non si sottrae alla censura avanzata dal ricorrente incline a
evidenziarne gli evidenti profili d’infondatezza e di contraddittorietà,
avendo la corte territoriale trascurato di considerare, da un lato, la
(non contraddetta) liceità delle relazioni patrimoniali intercorse tra il
Licatini e gli svariati soggetti con lui entrati in rapporto, per come
emerse a seguito del giudizio di merito (ch’ebbe a ritenere del tutto
inattendibili le dichiarazioni accusatorie delle asserite persone offese), e, dall’altro, l’assoluta irrilevanza del rilevato difetto di autorizzazione all’erogazione di prestiti, non essendo in alcun modo risultata
l’eventuale esecuzione di tale attività, da parte del ricorrente, in forme dotate di tale continuatività e ricorrenza da esprimerne un’eventuale (e sostanziale) natura professionale, come tale soggetta ad autorizzazione amministrativa.
Sotto altro profilo, dev’essere sottratta alcuna valenza causale
(o concausale), rispetto all’adozione del provvedimento restrittivo
sofferto dal Licatini, alla circostanza dell’essersi quest’ultimo avvalso
della facoltà di non rispondere in sede d’interrogatorio dinanzi all’autorità giudiziaria, avendo in tal modo il ricorrente legittimamente

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esercitato un proprio diritto positivamente riconosciuto, e avendo la
corte territoriale del tutto trascurato di indicare specificamente le circostanze eventualmente note al ricorrente da quest’ultimo volontariamente taciute al fine di chiarire la propria posizione.
Al riguardo, è appena il caso di richiamare il principio statuito
da questa corte di legittimità, ai sensi del quale, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini dell’accertamento della condizione
ostativa della colpa grave, financo il silenzio tenuto dall’indagato (o
imputato) non è sindacabile, a meno che sia possibile affermare che
lo stesso fosse concretamente in grado di fornire una logica spiegazione al fine di eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti nel
corso delle indagini (Cass., Sez. 4, n. 47047/2008, Rv. 242759).
Sul punto, conviene evidenziare, nel solco del costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, come l’esercizio delle
prerogative processuali di difesa dell’indagato (consistenti nel mantenimento di un passivo atteggiamento di silenzio, nello stesso mendacio, nella falsa negazione di fatti allo stesso ascritti o nella mancata
indicazione di alibi, etc.), in tanto valgono a costituire elementi di valutazione dell’eventuale colpa grave del ricorrente (nella prospettiva
della negazione dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione subita), in
quanto gli stessi trovino riscontro nel ricorso di diverse e ulteriori circostanze di fatto che, congiuntamente valutate ai primi (per la significativa pregnanza del quadro complessivo prospettato), valgano a
giustificare l’attribuzione, alla colpevole responsabilità dell’indagato,
dell’apparente conferma conferita al quadro indiziario già per altro
verso acquisito in relazione alla prevedibile commissione del reato allo stesso ascritto.
In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, infatti, ai fini
dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa della
colpa grave dell’interessato, non può attribuirsi rilievo ex se al silenzio serbato nel corso dell’interrogatorio, tenuto conto dell’insindacabile diritto al silenzio attribuito alla persona sottoposta alle indagini e
all’imputato; al riguardo, il mancato esercizio di una facoltà difensiva
da parte dell’interessato, risolvendosi nell’omessa allegazione di fatti
risolutivamente favorevoli a lui noti, pur non potendo essere da solo
posto a fondamento del giudizio di sussistenza della colpa grave, può
valere a far ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo causalmente efficiente nel permanere dell’indebita detenzione là dove

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concorrano altri idonei elementi di colpa (cfr. Cass., Sez. 4, n.
26686/2008, Rv. 240940; Cass., Sez. 4, n. 14439/2006, Rv.
234026): elementi integrativi, nella specie, del tutto mancanti.
Sulla base di tali premesse, avendo la corte territoriale omesso
di articolare, in termini coerenti e logicamente argomentati, il tema
relativo al rapporto di influenza causale tra il comportamento asseritamente colpevole ascritto all’istante e la concreta adozione della misura restrittiva dallo stesso sofferta, dev’essere disposto l’annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio alla corte d’appello
di Palermo per nuovo esame.

Per questi motivi
la Corte Suprema di Cassazione, annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Palermo per nuovo esame.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12.6.2014.

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