Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 30271 del 20/05/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 30271 Anno 2014
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
– PANICUCCI MARIO, n. 2/06/1965 a LIVORNO

avverso la sentenza della Corte d’appello di FIRENZE in data 25/06/2013;
visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. F. Baldi, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata per intervenuta estinzione del reato per prescrizione;
udite, per il ricorrente, le conclusioni dell’Avv. L. Biagi, che ha chiesto
l’accoglimento del ricorso ed, in subordine, annullarsi senza rinvio la sentenza
impugnata per intervenuta estinzione del reato per prescrizione;

Data Udienza: 20/05/2014

RITENUTO IN FATTO

1. PANICUCCI MARIO ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte
d’appello di FIRENZE, emessa in data 25/06/2013, depositata in data 9/07/2013,
con cui è stata confermata la sentenza del tribunale di PISA del 26/10/2011, di
condanna del medesimo per il reato di omesso versamento delle ritenute

periodo dal giugno all’ottobre 2006 (art. 2, legge n. 638/1983).

2. Con il ricorso, proposto dal difensore fiduciario cassazionista, vengono dedotti
tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la
motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) e c) c.p.p.,
per la mancata corretta applicazione dell’art. 2, comma 1-bis, legge n. 638/83
anche in relazione agli artt. 192, 529 e 530, comma 2, c.p.p.
Si censura la sentenza per aver ritenuto responsabile il ricorrente fondando il
giudizio sostanzialmente alla prova presuntiva dell’avvenuta trasmissione
all’INPS dei modelli DM10 da parte dell’imputato; la sentenza, inoltre, non
appare condivisibile nella parte in cui sembra interpretare la natura della ritenuta
operata sulla retribuzione non già come somma di appartenenza del lavoratore,
ma come una somma svincolata da tale appartenenza e con finalità di impiego di
carattere pubblicistico, tale da renderla assimilabile quasi ad un’imposta che, in
ogni caso, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere

iure proprio;

diversamente, la normativa indicata impone non già il pagamento delle ritenute,
ma il pagamento delle ritenute che siano state operate sulle retribuzioni del
dipendente; inoltre, si osserva, la brevità del periodo dell’omissione, potrebbe far
presumere l’insussistenza del dolo, anche generico, facendo invece ritenere la
contestata omissione connesse ad insorte difficoltà economiche o a mera
dimenticanza; non potrebbe, conclusivamente, prescindersi dalla prova diretta
dell’avvenuta appropriazione delle somme, non desumibile dalla mera
compilazione dei modelli DM10, né la prova del dolo potrebbe desumersi dalla
reiterazione della condotta, peraltro contenuta temporalmente.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) ed e)
c.p.p., per la mancata pronuncia su un motivo di appello in violazione degli artt.
24, comma 2 e 111, commi 1, 2, 3 e 6 Cost. e 125, comma 3, c.p.p.
2

previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti per il

La Corte d’appello di Firenze non si sarebbe pronunciata sulla richiesta di
sospensione condizionale della pena e nemmeno sulla richiesta di conversione
della pena detentiva ex art. 53, legge n. 689/1981; si osserva, sul punto che se
la formula utilizzata nella motivazione (ovvero la “impossibilità di formulare nei
confronti dell’imputato una prognosi fausta di ravvedimento”) può essere, tutt’al
più, riferita alla mancata concessione del beneficio della sospensione
condizionale, non sarebbe certo idonea a giustificare la mancata conversione

2.3. Deduce, infine, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e)
c.p.p., per insufficiente e/o mancata motivazione riguardo all’entità della pena
irrogata.
A fronte di un arco temporale ristretto e di una omissione contributiva
quantitativamente modesta, la Corte territoriale avrebbe comminato una pena di
gran lunga superiore al minimo edittale, la quale apparirebbe sproporzionata al
fatto, non ritenendosi sufficiente per la difesa il mero riferimento alla
permanenza del debito del reo verso l’INPS esposto in sentenza; Quanto, poi,
all’applicazione della disciplina della continuazione, nelle sentenze sia di primo
che di secondo grado, non verrebbe espresso minimamente il criterio di
quantificazione della pena, non essendo stata indicata la pena base per la
violazione più grave né l’aumento di pena ex art. 81 c.p.; difetterebbe, quindi,
quel minimo di elementi per comprendere l’iter logico seguito dal giudice al fine
di censurare la giustificazione addotta sul punto, con conseguente vizio
motivazionale.

CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso dev’essere accolto nei limiti di cui si dirà oltre.

4. Ritiene il Collegio manifestamente infondato il primo motivo di ricorso.
Ed invero, quanto alla prova della configurabilità dell’illecito, risulta, sotto il
profilo oggettivo, che il reato è stato ritenuto sussistente in base alla deposizione
del teste INPS nonché sulla base del contenuto del mod. DM10 redatto dallo
stesso imputato, attestante le trattenute operate sulle retribuzioni corrisposte ai
propri dipendenti e non versate all’INPS.

4.1. La fattispecie di reato è prevista dal d.l. 12.09.1983, n. 463, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11.11.1983, n. 638, e successive modificazioni e
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della pena ex lege n. 689/1981.

integrazioni. L’art. 2, comma 1, di detto decreto legge stabilisce che le ritenute
previdenziali e assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, comprese
quelle effettuate ai lavoratori pensionati ai sensi degli artt. 20, 21 e 22 della L. n.
153/1969, devono essere comunque versate e non possono essere portate a
conguaglio con le somme anticipate, nelle forme e nei termini di legge, dal
datore di lavoro ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali e assistenziali
e regolarmente denunciate alle gestioni stesse, tranne nei casi in cui dalla

(Circolare NPS n.121 del 20.04.1994).
E’ opportuno specificare inoltre che nel caso di presentazione di denuncia
contributiva mensile parzialmente insoluta – atteso che il debito del datore di
lavoro per contributi è pari alla differenza tra il saldo della denuncia mensile e
l’importo effettivamente versato – dovrà essere promossa l’azione penale
solamente quando l’importo versato risulti inferiore al complesso delle ritenute e
trattenute a carico del lavoratore (messaggio INPS n. 54143 del 16.2.1989).
L’ art. 2, comma 1-bis, del citato d.l. prevede che in caso di omissione del
versamento di ritenute previdenziali e assistenziali predette, operate in busta
paga ai dipendenti, compresi i lavoratori pensionati, il datore di lavoro è punito
con la reclusione fino a tre anni e una multa fino a lire due milioni (€ 1.032,00).
Mentre in passato era prevista una causa estintiva del reato nei casi in cui il
datore di lavoro provvedeva al versamento delle ritenute operate entro il termine
di sei mesi dalla scadenza dell’obbligo contributivo (ovvero non oltre l’apertura
del dibattimento penale, se fissato prima dello scadere dell’anzidetto termine), il
nuovo testo dell’art. 2, comma 1-bis, per effetto della modifica operata dall’art. 1
del decreto legislativo n. 211/1994, stabilisce che il datore di lavoro non è
punibile qualora provveda entro il termine di tre mesi dalla data di contestazione
o notifica dell’avvenuto accertamento della violazione a versare le somme
omesse. La denuncia di reato deve essere comunque presentata o trasmessa
senza ritardo all’autorità giudiziaria competente anche dopo il versamento delle
somme omesse – con allegata l’attestazione delle somme versate – ovvero
decorso inutilmente il termine previsto dei tre mesi (art. 2, comma 1-ter).
Durante il predetto termine di tre mesi il corso della prescrizione rimane sospeso
(art. 2, comma 1-quater).
Premesso quanto sopra, vero è che le Sezioni Unite di questa Corte hanno
affermato che il reato in esame non è configurabile in assenza del materiale
esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione, atteso
che il riferimento letterale alle “ritenute operate” sulla retribuzione deve essere
interpretato nel senso che non può essere operata una ritenuta senza il
4

denuncia contributiva risulti un saldo attivo a favore del datore di lavoro

pagamento della somma dovuta al creditore, ma è anche vero che lo stesso
Supremo Collegio ha inequivocabilmente chiarito che, per affermare la
responsabilità penale del datore di lavoro inadempiente, il giudice deve accertare
“utilizzando a tal fine la documentazione aziendale, nonché quella eventualmente
predisposta dal datore di lavoro ed inoltrata all’ente previdenziale (Mod. D.M.
10/89)”, se l’imputato avesse effettivamente retribuito i lavoratori che avevano
prestato la loro attività (Sez. U, n. 27641 del 28/05/2003 – dep. 23/06/2003,

E ciò è quanto avvenuto nel caso in esame, avendo i giudici tratto la prova
dell’omesso versamento delle ritenute dai modelli DM10 trasmessi dallo stesso
datore di lavoro all’Istituto previdenziale (oltre ad aver assunto la testimonianza
del dipendente dell’INPS). Quanto sopra è sufficiente al fine di configurare la
responsabilità penale del datore di lavoro sotto il profilo oggettivo, avendo
reiteratamente affermato questa Corte che l’onere incombente sul pubblico
ministero di dimostrare l’avvenuta corresponsione delle retribuzioni ai lavoratori
dipendenti è assolto con la produzione del modello DM 10, con la conseguenza
che grava sull’imputato il compito di provare, in difformità dalla situazione
rappresentata nelle denunce retributive inoltrate, l’assenza del materiale esborso
delle somme (v., da ultimo: Sez. 3, n. 7772 del 05/12/2013 – dep. 19/02/2014,
Di Gianvito, Rv. 258851), ciò in quanto gli appositi modelli attestanti le
retribuzioni corrisposte ai dipendenti e gli obblighi contributivi verso l’istituto
previdenziale (cosiddetti modelli DM 10), hanno natura ricognitiva della
situazione debitoria del datore di lavoro e la loro presentazione equivale
all’attestazione di aver corrisposto le retribuzioni in relazione alle quali è stato
omesso il versamento dei contributi (Sez. 3, n. 37145 del 10/04/2013 – dep.
10/09/2013, Deiana e altro, Rv. 256957).

4.2. Quanto, poi, al profilo soggettivo, l’impugnata sentenza precisa che la tesi
difensiva, già sostenuta davanti ai giudici d’appello, non convince, in quanto la
reiterazione della condotta criminosa (atteso che l’omissione si protrasse per
cinque mesi consecutivi) dimostra la pervicace volontà del ricorrente di omettere
il versamento delle ritenute e, dunque, la sussistenza del dolo generico
normativamente richiesto dalla norma incriminatrice.
Il Collegio condivide l’argomento svolto, soprattutto alla luce della struttura
dell’elemento soggettivo richiesto per la perseguibilità penale della condotta; ed
invero, è pacifico che il reato di cui all’art. 2 della legge 11 novembre 1983 n.
638 non richiede il dolo specifico bensì il dolo generico, esaurendosi con la
coscienza e volontà della omissione o della tardività del versamento delle
5

Silvestri M., Rv. 224609).

ritenute (Sez. 3, n. 33141 del 10/04/2002 – dep. 04/10/2002, Nobili S., Rv.
222252). Peraltro, si è anche chiarito che, poiché ai fini della punibilità
dell’agente è sufficiente il dolo generico, consistente nella volontarietà
dell’omissione, ne consegue che, accertata tale volontarietà, non è necessaria
una esplicita motivazione sull’esistenza del dolo (Sez. 3, n. 47340 del
15/11/2007 – dep. 20/12/2007, Arbuatti e altro, Rv. 238617, fattispecie nella
quale la volontarietà dell’omissione è stata desunta dal tardivo versamento dei

contributi omessi).
Ed allora, se per ritenere provato il dolo è sufficiente il mero tardivo versamento,
a maggior ragione, in assenza di elementi in senso contrario – come evidenziato
dalla Corte – il dolo generico omissivo è provato dal comportamento del datore
di lavoro il quale reiteratamente ometta, consapevole di esservi tenuto (tanto da
avere egli trasmesso i modelli DM10 all’Istituto previdenziale), di provvedere al
versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni
dei dipendenti.
Può, quindi, affermarsi il seguente principio di diritto:
«La prova del dolo generico, normativamente richiesto ai fini della punibilità del
reato di cui all’art. 2 della legge 11 novembre 1983 n. 638, può essere desunta
anche dal comportamento del datore di lavoro il quale reiteratamente ometta,
consapevole di esservi tenuto (per aver trasmesso i modelli DM10 all’Istituto
previdenziale), di provvedere al versamento delle ritenute previdenziali ed
assistenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti».
Solo per completezza, merita qui precisare che il riferimento alla crisi di liquidità
o alla difficoltà economica o alla mera dimenticanza, sostenute in ricorso, sono
prive di qualsiasi fondamento, trattandosi di mere ipotesi proposte dal ricorrente,
perdipiù sollevate per la prima volta davanti a questa Corte Suprema.

5. Fondato deve, invece, ritenersi il secondo motivo.
Ed invero, nessuna motivazione specifica si rinviene nella sentenza impugnata
con riferimento alla richiesta di sostituzione della pena detentiva nella
corrispondente pena pecuniaria ex art. 53, legge n. 689/1981; la richiesta era
stata espressamente avanzata nei motivi di appello, ma la Corte non ha fornito
alcuna giustificazione alla richiesta difensiva, essendo sufficiente la motivazione
solo a giustificare il mancato riconoscimento del beneficio della sospensione
condizionale della pena, come fatto palese dal riferimento alla impossibilità di
formulare una prognosi fausta di ravvedimento.
Pacifico è, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte che il giudice deve
motivare sulla omessa applicazione delle sanzioni sostitutive, qualora vi sia stata
6

;

una specifica richiesta della difesa dell’imputato e le stesse siano ammissibili
(Sez. 3, n. 2036 del 23/01/1996 – dep. 23/02/1996, Melis, Rv. 205392), sicchè
la circostanza di non aver fornito alcuna giustificazione in ordine alle ragioni del
diniego, si risolve nell’omessa pronuncia su un motivo di appello che rende nulla
in parte qua la sentenza impugnata.
Ed invero, una volta che sia stato devoluto il punto relativo al trattamento
sanzionatorio al giudice d’appello con riferimento al mancato riconoscimento

in caso di mancata applicazione, qualora di essa vi sia stata esplicita richiesta da
parte dell’imputato.

6.

All’accoglimento di tale motivo, segue, peraltro, la declaratoria di

annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza con riferimento alle omissioni
contestate sino al 16 agosto 2006 (dunque, fino all’omesso versamento relativo
al mese di luglio 2006), in quanto alla data del 16 maggio 2014 è maturata per
intero la prescrizione massima prevista dalla legge (anni 7 e mesi 6, aumentati
di ulteriori mesi 3 per la sospensione ex art. 2, comma 1-quater, legge n.
638/1983).
L’impugnata sentenza dev’essere, pertanto, annullata senza rinvio con
trasmissione atti ad altra Sezione della Corte d’appello di Firenze per la
rideterminazione della pena, che si atterrà anche a quanto sopra indicato quanto
alla convertibilità della rideterminanda pena ex art. 53, legge n. 689/1981.

7. Quanto, infine, al terzo ed ultimo motivo, la Corte ritiene che lo stesso sia
manifestamente infondato.
Ed infatti, è sufficiente in questa sede richiamare la motivazione del primo
giudice (che, attesa la natura di doppia conforme, si salda con la motivazione di
quella d’appello) per valutarne, seppure nella sinteticità dell’apparato
motivazionale, l’adeguatezza in ordine alla parametrazione del trattamento
sanzionatorio al criterio della “congruità”. Sul punto, in particolare, si osserva
che la pena indicata (mesi 3 di reclusione ed € 300,00 di multa), è stata
determinata in misura fissa, senza specificare la pena base prevista né
determinando il quantum a titolo di aumento per la continuazione; pur tuttavia,
ritiene il Collegio che l’uso di espressioni sintetiche quali “alla luce dei criteri ex
art. 133 cod. pen.” o “pena congrua” (come nel caso in esame) è giustificato
quando viene irrogata una pena molto vicina al minimo edittale, non essendo, in
tale caso, necessaria una analitica enunciazione dei criteri (Sez. 3, n. 11513 del
19/10/1995 – dep. 28/11/1995, Merra, Rv. 203011). A ciò, del resto, si aggiunga
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della sanzione sostitutiva, il giudice deve fornire idonea ed adeguata motivazione

che il ricorrente, in sede di motivi di appello, non risulta aver dedotto
specificamente davanti al giudice di secondo grado il vizio motivazionale (atteso
che l’omessa indicazione dei criteri di determinazione della pena, anche nel caso
di reato continuato, non dà luogo ad una nullità ma ad una lacuna di
motivazione: Sez. 2, n. 5606 del 10/01/2007 – dep. 08/02/2007, Conversa e
altro, Rv. 236181), sicchè non può dolersene per la prima volta davanti al
giudice di legittimità, non potendo ritenersi viziata la motivazione della sentenza

dall’appellante, attesa la natura limitatamente devolutiva di detto giudizio.
Ed infatti, anche nel nuovo codice di procedura penale l’appello ha carattere di
mezzo di impugnazione limitatamente devolutivo (art. 597, comma primo, cod.
proc. pen.); pertanto il potere discrezionale dato al giudice di appello di
superare, entro certi limiti, lo spazio della cognizione devolutogli, non risolve
l’onere della parte di proporre le richieste e i motivi specificamente, ne’ rende
ammissibile il ricorso per Cassazione sulla base di motivi e richieste non dedotte
in appello, sempre che non si tratti di violazione di legge implicanti nullità
rilevabili di ufficio, circostanza esclusa nel caso in esame (Sez. 1, n. 4031 del
25/02/1991 – dep. 12/04/1991, Pace ed altri, Rv. 187950).

8. Il ricorso dev’essere, dunque, parzialmente accolto, con annullamento senza
rinvio dell’impugnata sentenza per le ragioni di cui sopra.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché i reati commessi fino al
16/08/2006 sono estinti per prescrizione, con rinvio ad altra Sezione della Corte
d’appello di Firenze per la determinazione della pena.
Così deciso in Roma, il 20 maggio 2014

Il Consiglier

st.

Il Presidente

del giudice di appello che non si sia pronunciato su un punto non dedotto

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