Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 30017 del 20/05/2016


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 30017 Anno 2016
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: SCARCELLA ALESSIO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
– SCALISE FIORINO, n. 17/05/1954 ad Amato

avverso l’ordinanza del tribunale di CATANZARO in data 1/10/2015;
visti g li atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consi g liere Alessio Scarcella;
letta la re q uisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. G. Di Leo, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il
ricorso;

k

Data Udienza: 20/05/2016

RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza emessa in data 1/10/2015, depositata in pari data, il tribunale
di Catanzaro rigettava la richiesta presentata nell’interesse di SCALISE FIORINO
avente ad oggetto: a) la restituzione nel termine per l’impugnazione della
sentenza n. 241/14 emessa nell’ambito del procedimento n. 288/2010 r.g.n.r.
nonché la nullità del relativo decreto di citazione a giudizio per omessa notifica

nei confronti dello Scalise; b) l’estinzione del reato punito in sentenza per
intervenuta prescrizione; c) l’applicazione della disciplina del reato continuato in
relazione alla sentenza n. 364/14 emessa dal tribunale di Catanzaro nei confronti
dello Scalise, avente ad oggetto il medesimo fatto, e ciò anche in violazione del
principio del “ne bis in idem”; d) il computo del tempus custodiae presofferto; e)
il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena; f)
l’affidamento in prova al servizio sociale; g) la detenzione domiciliare.

2.

Ha

proposto

ricorso

SCALISE

FIORINO

a

mezzo

del

difensore fiduciario cassazionista, impugnando la ordinanza predetta con cui
deduce quattro motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per
la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) – e non b)
come erroneamente indicato in ricorso – cod. proc. pen., sotto il profilo della
violazione di legge in relazione all’art. 548 cod. proc. pen.
In sintesi la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto, sostiene il
ricorrente, il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto rimettere in termini per
l’impugnazione lo Scalise difettando in atti la prova sia della notifica del decreto
di citazione a giudizio quanto della comunicazione dell’avviso di deposito della
sentenza; in particolare, quanto a quest’ultimo aspetto, non vi sarebbe prova
che il ricorrente abbia avuto la notifica dell’estratto contumaciale, donde la
necessità di rimetterlo in termini; diversamente opinando, come invece inteso
dal giudice dell’esecuzione, si determinerebbe la violazione dell’art. 548 cod.
proc. pen.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) – e non b)
come erroneamente indicato in ricorso – cod. proc. pen., sotto il profilo della
violazione di legge in relazione all’art. 673, comma secondo, cod. proc. pen.
In sintesi la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto, sostiene il
ricorrente, il reato contestato allo Scalise ha natura contravvenzionale, sicchè si

2

i/t

sarebbe prescritto, avuto riguardo al

tempus commissi delicti,

in data

8/09/2014, dunque antecedentemente alla definitività della sentenza;
contrariamente a quanto argomentato dal giudice dell’esecuzione, l’art. 673,
comma secondo, cod. proc. pen. impone la revoca della sentenza per
sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione.

come erroneamente indicato in ricorso – cod. proc. pen., sotto il profilo della
violazione di legge in relazione al combinato disposto degli artt. 669 e 671 cod.
proc. pen.
In sintesi la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto, sostiene il
ricorrente, in sede di incidente di esecuzione era stata richiesta al g.e.
l’applicazione del vincolo della continuazione del “ne bis in idem” sostanziale e
processuale sul presupposto che in ordine agli stessi fatti nei confronti dello
Scalise erano state emesse due sentenze, la n. 241/2014 e la n. 364/2014 e
che, pertanto, in applicazione degli artt. 669 e 671 cod. proc. pen. il giudice
avrebbe dovuto provvedere all’applicazione della sanzione meno gravosa; il
giudice non avrebbe concesso il beneficio della sospensione condizionale pur
ricorrendo nel caso di specie la possibilità di riconoscere il concorso formale oltre
che la continuazione.

2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) – e non b)
come erroneamente indicato in ricorso – cod. proc. pen., sotto il profilo della
violazione di legge in relazione all’art. 656 cod. proc. pen.
In sintesi la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto, sostiene il
ricorrente, il giudice dell’esecuzione ha ritenuto di non dover applicare il c.d.
principio della fungibilità della pena in quanto l’obbligo di presentazione alla p.g.
non sarebbe misura cautelare da valutare a fini della fungibilità della pena;
diversamente, si sostiene, detta misura cautelare rappresenta l’ultima fase c.d.
di attenuazione della misura della custodia cautelare precedentemente inflitta e
patita.

3. Con requisitoria scritta depositata presso la cancelleria di questa Corte in data
18/05/2016, il P.G. presso la S.C. ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3

2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. c) – e non b)

4. Il ricorso è manifestamente infondato.

5. Ed invero, quanto al primo motivo, osserva il collegio come il giudice
dell’esecuzione ha precisato da un lato che l’avviso di deposito con l’estratto
della sentenza in questione risulta essere stato ritualmente notificato al
ricorrente contumace mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento,

imputato il 22 settembre 2014; quanto al decreto di citazione a giudizio per
presunta omessa notifica all’imputato, risulta dagli atti che detto decreto è stato
ritualmente notificato mediante consegna a mani dell’imputato in data 20 ottobre
2011; premesso quanto sopra in fatto, il giudice dell’esecuzione in ogni caso
rileva, da un lato, che il giudice dell’esecuzione davanti al quale viene dedotta la
non esecutività del titolo, è chiamato a verificare la ritualità della notificazione
sotto il profilo formale, essendo gli accertamenti previsti dall’articolo 670 codice
procedura penale limitati solo al controllo dell’esistenza del titolo esecutivo, della
legittimità della sua emissione e dell’esecuzione della sua notificazione nel
rispetto delle disposizioni codicistiche, restando invece estranea agli effetti di tale
verifica l’effettiva conoscenza che del titolo esecutivo abbia avuto l’imputato, che
può rilevare solo ai fini dell’eventuale istanza di restituzione del termine per
impugnare, comunque soggetta a decadenza a seguito del decorso del termine di
30 giorni da quello in cui l’imputato ha avuto effettiva conoscenza; a ciò peraltro
il giudice dell’esecuzione aggiunge che, quand’anche avesse rilevato un difetto di
notifica, certamente il giudice dell’esecuzione non avrebbe potuto attribuire alle
nullità verificatesi nel corso del processo di cognizione, in epoca precedente a
quella del passaggio in giudicato della sentenza, alcun rilievo, potendosi dette
nullità farsi valere solo nell’ambito del processo di cognizione con i normali mezzi
di impugnazione previsti dalla legge, essendo altrimenti sanata e coperta dalla
formazione del giudicato.
Al cospetto di tali argomentazioni, del tutto corrette in diritto, il ricorrente si
limita a svolgere critiche puramente contestative mostrando di dissentire
fattualmente dagli esiti dell’accertamento svolto dal giudice dell’esecuzione
(“nonostante le argomentazioni del giudice dell’esecuzione penale”,

infatti, si

afferma, mancherebbe la prova della notifica del d.c. a giudizio e dell’avviso di
deposito dell’estratto contumaciale della sentenza n. 214/2014). Ne discende,
pertanto, l’inammissibilità del relativo motivo per aspecificità, riproponendo le
stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame (v., tra
le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv.
253849).
4

e che il relativo plico è stato ritirato presso l’ufficio postale dal medesimo

In ogni caso, si osserva, il motivo si appalesa del tutto destituito di fondamento,
anzitutto quanto alla presunta mancanza della notifica del decreto di citazione a
giudizio. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che le nullità
asseritamente incorse nel giudizio di cognizione non possono essere fatte valere
con l’incidente di esecuzione, che affida al giudice soltanto il controllo
sull’esistenza del titolo esecutivo e sulla legittimità della sua emissione (v., tra le

Parimenti manifestamente infondata è la censura relativa alla presunta omessa
notifica dell’estratto contumaciale della sentenza, avendo il g.e. dato atto
dell’intervenuta notifica dell’estratto ex art. 548 cod. proc. pen. in data
22/09/2014 a mani del medesimo con ritiro presso l’ufficio postale.

6. Analogamente, quanto al secondo motivo, il giudice dell’esecuzione rileva
come quand’anche per qualsiasi causa un reato estinto per sopravvenuta
prescrizione non sia dichiarato tale ma dia luogo ad una pronuncia divenuta
definitiva per difetto di impugnazione perché questa sia dichiarata inammissibile,
la statuizione stessa è intangibile in virtù del giudicato formatosi su di essa.
Trattasi di argomentazione del tutto corretta in diritto, in quanto è pacifico nella
giurisprudenza di questa Corte che il giudice dell’esecuzione può revocare la
sentenza di condanna, ormai in giudicato, solo nel caso di

“aboliti° criminis”

previsto dall’art. 673, comma primo, cod. proc. pen. (abrogazione o
dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice). Fuori di
tale ipotesi, nel caso in cui non sia stata fatta valere una causa estintiva con gli
ordinari mezzi di impugnazione contro la sentenza, l’unico rimedio avverso il
giudicato di condanna può, eventualmente, essere costituito dal mezzo
straordinario della revisione, ricorrendone le condizioni di legge (v., tra le tante:
Sez. 3, n. 1995 del 29/09/1993 – dep. 26/11/1993, P.M. in proc. Fiori°, Rv.
196455).

7. Con riferimento al terzo motivo, il giudice dell’esecuzione osserva come con
l’istanza il ricorrente aveva richiesto l’applicazione della disciplina del reato
continuato con la sentenza di condanna n. 364 del 2014, emessa in data 2 aprile
2014 nei suoi confronti dal tribunale di Catanzaro, con cui veniva dichiarato
colpevole del reato di cui all’art. 44, lett. B) d.p.r. n. 380 del 2001, sostenendo
esservi violazione del principio del ne bis in idem; il giudice dell’esecuzione
osserva come tale ultima sentenza riesamina la medesima fattispecie oggetto
della sentenza della cui esecutività si discute, sotto il profilo di una diversa
disposizione di legge, escludendo la possibilità di invocare il predetto principio,
5

tante: Sez. 1, n. 8776 del 28/01/2008 – dep. 27/02/2008, Lasco, Rv. 239509).

affinché possa darsi luogo all’applicazione del reato continuato occorrendo una
pluralità di provvedimenti di condanna divenuti irrevocabili; sul punto osserva
giudice dell’esecuzione come la sentenza di condanna n. 364 del 2014 non risulti
essere ancora divenuta irrevocabile, essendo stato prodotto in giudizio soltanto il
dispositivo della pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione
da parte della Corte d’appello; ne discenderebbe per tale ragione la mancata

Anche sotto tale profilo ritiene il Collegio si tratti di considerazioni del tutto
corrette in diritto, posto che, per pacifica giurisprudenza di questa Corte, ai fini
della preclusione connessa al principio “ne bis in idem”, l’identità del fatto
sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione
del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso
causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (v., per
tutte: Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 – dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati
ed altro, Rv. 231799). Orbene, nel caso di specie, la decisione invocata dal
ricorrente (costituita dalla sentenza n. 364/2014), al di là della prova o meno
della sua irrevocabilità, come precisato dal giudice dell’esecuzione riesaminava la
medesima fattispecie oggetto della sentenza della cui esecutività si discute, sotto
il profilo di una diversa disposizione di legge (ossia la violazione dell’art. 44, lett.
b), d.P.R. n. 380 del 2001), laddove la sentenza n. 241/14 aveva dichiarato lo
Scalise colpevole del reato di cui all’art. 181, d. Igs. n. 42 del 2004: non v’è
dubbio, quindi, che la “sfasatura” delle imputazioni non dipendeva da una
differente qualificazione giuridica del titolo di imputazione della responsabilità,
ma dall’individuazione di fattispecie ontologicamente autonome per una diversità
delle rispettive componenti strutturali, donde l’inapplicabilità del disposto dell’art.
649 cod. proc. pen.

8. Non miglior sorte merita il quarto ed ultimo motivo, in relazione al quale il
giudice dell’esecuzione motiva precisando come l’assenza di un periodo di
detenzione presofferto osta l’applicazione della invocata fungibilità di cui
all’articolo 657 codice procedura penale, ciò in quanto non può considerarsi tale
la sottoposizione alla misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia
giudiziaria.
Anche sotto tale ultimo profilo, la soluzione del giudice dell’esecuzione si
appalesa corretta in diritto a fronte della manifesta infondatezza del relativo
motivo di ricorso, che non tiene conto del chiaro disposto dell’art. 657, cod. proc.
pen. che limita la c.d. fungibilità al solo periodo di custodia cautelare, da
intendersi limitato esclusivamente alla custodia in carcere, agli arresti domiciliari
6

concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.

ed alla custodia cautelare in luogo di cura, con esclusione, dunque, delle misure
cautelari non detentive.
Si noti, a tal proposito, come questa stessa Corte ha dichiarato manifestamente
infondata, in relazione agli artt. 13 e 16 Cost., la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 282 e 283 (recte: art. 657) cod. proc. pen., nella parte
in cui non equiparano le misure coercitive dell’obbligo di presentazione alla

carcere ai fini della fungibilità sulla sanzione sostitutiva da espiare, in quanto, da
un lato, si deve escludere che il legislatore abbia considerato la sottoposizione
dell’indagato o imputato alle misure coercitive sopra indicate così limitativa della
libertà del soggetto e così afflittiva da poterla far ritenere equivalente allo stato
di custodia cautelare in carcere e, dall’altro, non risulta violata la garanzia del
provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, posto che è il magistrato di
sorveglianza a disporre circa le modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva
della pena (Sez. 1, n. 3372 del 05/06/1995 – dep. 15/09/1995, Mariani, Rv.
202407); analogamente è stata dichiarata manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 657 cod. proc. pen. nella parte in
cui non consente al pubblico ministero, ai fini della determinazione della pena da
eseguire, di tenere conto del periodo in cui l’imputato è stato sottoposto
all’obbligo di dimora ed all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, per
contrasto con gli artt.3, 13, secondo comma, e 27, primo comma, della
Costituzione. La possibilità, infatti che in seguito alle sentenze della Corte Cost.
n.343/87 e 282/89 è data al magistrato di sorveglianza di tenere conto, ai fini
della determinazione della residua pena nei casi di revoca dell’affidamento in
prova e della liberazione condizionale, della durata delle limitazioni patite dal
condannato nel periodo di prova o di libertà condizionale, trova la sua ragione
nella particolare funzione svolta dal magistrato di sorveglianza, chiamato alla
valutazione della persona e del suo comportamento ai fini del giudizio
prognostico in ordine alla pericolosità ed alla possibilità di reinserimento nel
tessuto sociale, nonché nelle finalità delle misure alternative alla detenzione,
volte alla rieducazione del reo, ben diverse sia dalla funzione attribuita al
pubblico ministero, chiamato in sede di esecuzione ad un mero esercizio di
calcolo matematico che prescinde da valutazioni di tipo diverso, sia dalle finalità
proprie delle anzidette misure cautelari (Sez. 6, n. 1171 del 23/03/1995 – dep.
27/05/1995, Dhaoudi, Rv. 201445). Da ultimo, infine, è stata nuovamente
dichiarata manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 657 cod. proc. pen., nella parte in
cui non prevede la cornputabilità, ai fini della determinazione della pena da
7

polizia giudiziaria e del divieto ed obbligo di dimora alla custodia cautelare in

eseguire, dei periodi di assoggettamento a misura coercitiva diversa dalla
custodia cautelare (nella specie, obbligo di presentazione all’autorità di polizia
giudiziaria), attesa la non evidente omologabilità delle situazioni di
sottoposizione alla custodia cautelare e a una diversa e men grave misura
coercitiva (Sez. 1, n. 5376 del 30/09/1997 – dep. 16/12/1997, Balbo, Rv.

9. Il ricorso deve, conclusivamente, essere dichiarato inammissibile. Segue, a
norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento e, non emergendo ragioni di esonero, al pagamento a
favore della Cassa delle ammende, a titolo di sanzione pecuniaria, di somma che
si stima equo fissare, in euro 1500,00 (mille/500).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali e della somma di C 1.500,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 20 maggio 2016

209128).

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