Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29945 del 10/12/2015


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 29945 Anno 2016
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: CASA FILIPPO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
FEDERICO VITO N. IL 19/04/1960
avverso l’ordinanza n. 32/2014 CORTE ASSISE APPELLO di
PALERMO, del 29/09/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FILIPPO CASA,
lette/sentite le conclusioni del PG Dott. O s cc
r12La.t.,2-PaPe–, CL
iegur)ro, cLec-ec,A

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tab,_ 04-1> 0442
cse-f–P

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 10/12/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza resa in data 29.9.2014, la Corte di Assise di Appello di Palermo,
deliberando in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza avanzata nell’interesse
di FEDERICO Vito, volta ad ottenere, in conformità alla sentenza della Corte Costituzionale n.
210 del 3.7.2013 (dep. 18.7.2013), l’applicazione della pena di trent’anni di reclusione in

del 9.11.2000, irrevocabile il 19.3.2003; dichiarava, inoltre, manifestamente infondata, in
motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-ter, co. 3, lett. b), L. n.
144/2000.
Dopo aver brevemente illustrato il tema posto dal ricorso, con particolare riguardo
alla interpretazione fornita dalla Suprema Corte rispetto alla decisione assunta dalla Corte
EDU nel noto caso SCOPPOLA c/Italia (sentenza del 17.9.2009), la Corte palermitava
osservava che la vicenda del FEDERICO si poneva decisamente al di fuori dei parametri
indicati dalla giurisprudenza nazionale (di legittimità e costituzionale), nonché da quella
sovra nazionale.
L’istante, infatti, non era mai stato ammesso al rito abbreviato, in quanto la richiesta
da lui avanzata nel giudizio di appello, ai sensi dell’art. 4-ter L. n. 144/2000, venne rigettata
essendo già in corso la discussione del processo (non sussisteva, quindi, la prescritta
condizione normativa che fosse stata riaperta l’istruttoria dibattimentale e questa fosse
ancora in corso di svolgimento).
Il giudice dell’esecuzione dichiarava, inoltre, la manifesta infondatezza della questione
di legittimità costituzionale dell’art. 4-ter citato, essendo del tutto ragionevole l’accesso
all’abbreviato soltanto per gli imputati per i quali si fosse resa necessaria una ulteriore
istruzione probatoria attraverso la rinnovazione parziale del dibattimento in appello, in
quanto solo costoro, con la scelta del rito speciale, avrebbero consentito alla giustizia una
più rapida definizione del processo.
Del resto, la Corte Costituzionale aveva individuato proprio nell’ammissione al rito
abbreviato ed alla conseguente rinuncia ai diritti di difesa tipici del giudizio ordinario la
ragione unica della prevista diminuzione o sostituzione della pena.
2. Ha proposto ricorso per cassazione FEDERICO Vito, per il tramite del difensore di
fiducia, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 6 e 7
CEDU, 117 Cost., 125 e 670 c.p.p..
Il difensore del ricorrente assume che la norma di cui all’art. 4-ter L. n. 144/2000,
nella parte in cui non ha esteso la riammissione in termini anche ai processi che pendevano
in grado di appello nei quali l’istruttoria fosse stata riaperta e già conclusa al momento
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sostituzione di quella dell’ergastolo, inflittagli dalla medesima Corte territoriale con sentenza

dell’entrata in vigore della legge, è viziata da incostituzionalità, ponendosi in contrasto con
l’art. 3 Cost., avendo sottoposto gli imputati nei suddetti processi ad un trattamento meno
favorevole rispetto a coloro che avevano commesso reati dello stesso tipo.
Altri profili di incostituzionalità potevano essere individuati avendo a riferimento l’art.
117 Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione EDU, dovendosi ritenere, la
disposizione, in contrasto tanto con il principio di retroattività della lex mitior quanto con il

La decisione di rigetto non aveva tenuto conto, secondo il ricorrente, dell’intervenuta
declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 7 D.L. n. 341/2000, circostanza che connotava in
termini di novità la situazione giuridica nella quale era stata formulata la richiesta di
rideterminazione della pena e sollevata la eccezione di incostituzionalità dell’art. 4-ter L. n.
144/2000.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha
concluso per il rigetto del ricorso, previa declaratoria di manifesta infondatezza della
questione di legittimità costituzionale sollevata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso va dichiarato inammissibile, perché manifestamente infondato.
1.1. Ed invero, sui temi oggetto della presente decisione sono già intervenute in
modo approfondito due fondamentali decisioni delle Sezioni Unite di questa Corte, entrambe
pronunciate in data 19.04.2012, la n. 34233, in proc. Giannone (dep. il 7.9.2012) e la n.
34472, in proc. Ercolano (dep. il 10.9.2012), peraltro ribadite e completate dalla più recente
decisione n. 18821 del 24.10.2013, dep. 7.5.2014, Ercolano, Rv. 258649, emessa, ancora
dalle Sezioni Unite, dopo l’intervento della Corte costituzionale (investita proprio dal
Supremo consesso con la citata ordinanza n. 34472/2012) che ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo l’art. 7, comma 1, D.L. 24.11.2000, n. 341, convertito dalla L.
19.1.2001, n. 4, per contrasto con l’art. 117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 7
CEDU (sent. n. 210 del 2013).
Per quel che qui rileva, è sufficiente richiamare e ribadire i seguenti principi – che il
Collegio condivide e ribadisce – affermati con le menzionate pronunce, nel senso che:
– le decisioni della Corte EDU che evidenziano una situazione di oggettivo contrasto
della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU assumono rilevanza – con le
precisazioni che seguono – anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale è
intervenuta la pronuncia della predetta Corte (ordinanza Ercolano cit., Rv. n. 252933);

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diritto alla celebrazione di un equo processo.

- l’art. 442 c.p.p., disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di
condanna secondo il rito abbreviato, è norma di diritto sostanziale e, tenuto conto che la
stessa – con specifico riferimento ai reati punibili con la pena dell’ergastolo – ha subìto, nel
tempo, varie modifiche per interventi della Corte costituzionale e del legislatore, deve
soggiacere al principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, § 1, CEDU, così come
interpretato dalla Corte di Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa

retroattività o ultrattività della previsione meno severa;
– in conseguenza, la pena dell’ergastolo inflitta all’esito del giudizio abbreviato,
richiesto dall’interessato in base all’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, ma
conclusosi nel vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall’art. 7, comma 1,
D.L. n. 341 del 2000 e in concreto applicata, non può essere ulteriormente eseguita,
essendo stata quest’ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al
principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, § 1, CEDU, come interpretato dalla Corte
EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l’art. 117, comma primo Cost. (cfr. Sez
U del 24.10.2013, dep. il 7.5.2014, Ercolano, cit., con la quale si è affermato che il divieto di
dare esecuzione ad una sanzione penale contemplata da una norma dichiarata
incostituzionale dal Giudice delle leggi esprime un valore che prevale su quello della
intangibilità del giudicato e trova attuazione nell’art. 30, quarto comma, della legge 11
marzo 1953, n. 87);
– lo strumento processuale di eventuale adeguamento interno, al fine di garantire
concreta applicazione al principio della legalità della pena, anche nella sua valenza
convenzionale ex art. 7 della Carta dei Diritti dell’Uomo quale interpretato dalla Corte EDU,
va individuato nell’incidente di esecuzione ex art. 670 c.p.p., nell’ambito del quale superare se del caso – il giudicato (il valore della cui intangibilità viene considerato recessivo rispetto
a quello, fondato sull’art. 30, quarto comma della L. 11.3.1953, n. 30, che inerisce al
divieto di dare esecuzione ad una sanzione penale contemplata da una norma dichiarata
incostituzionale dal Giudice delle leggi: tale è il principio affermato nella recente Sez U, n.
18821/2014, cit.).
Ancora la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 235 del 2.7.2013 – con la quale ha
dichiarato manifestamente inammissibile, per irrilevanza, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4-ter del d.l. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito, con modificazioni, dalla
legge 5 giugno 2000, n. 144), sollevata dal Tribunale di Lecce, in veste di giudice
dell’esecuzione, con riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6
e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ha ribadito che alla suddetta sentenza 17.9.2009 della Corte EDU sul caso Scoppola c. Italia
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(principio già contenuto nell’art. 25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente,

si può fare riferimento soltanto nell’ipotesi relativa ad un caso che sia “identico a quello
deciso” e “non richieda la riapertura del processo”.
Con riguardo al tema dell’adeguamento concreto a tali principi nel diritto interno, la
citata sentenza n. 34233, Giannone, ha precisato che l’individuazione della pena sostitutiva
da applicare in sede di giudizio abbreviato per i reati punibili in astratto con l’ergastolo, con
o senza isolamento diurno, è subordinata al verificarsi di una “fattispecie complessa”

accesso al rito speciale avanzata dall’interessato, elementi questi che, in quanto
inscindibilmente connessi tra loro, devono concorrere entrambi, affinché possa trovare
applicazione, in caso di condanna, la comminatoria punitiva prevista dalla legge al momento
della richiesta: è quest’ultima, infatti, che cristallizza, in rapporto al reato o ai reati per i
quali si procede, il trattamento sanzionatorio vigente al momento di essa.
1.1.1. Tutto ciò premesso e ritenuto, va, ancora una volta, affermata la concreta
inapplicabilità del principio discendente dalla sentenza della CEDU in data 17. 9.2009 (nel
caso Scoppola c. Italia) a tutte quelle situazioni che non siano sovrapponibili, nei loro
elementi essenziali aventi rilievo nello schema sopra illustrato, alla situazione valutata

integrata dalla commissione di reati per i quali sia prevista tale sanzione e dalla richiesta di

dall’anzidetta Corte sopranazionale. i tk\i
In particolare, facendo sempre riferimento a quanto è dato leggere nella citata
sentenza Giannone delle SS. UU., la conversione della pena dell’ergastolo in quella di anni
trenta è possibile, in sede esecutiva, solo ove il rito abbreviato sia stato chiesto e sia stato
ammesso tra il 2 gennaio ed il 24 novembre 2000, e cioè nella vigenza della L. n. 479 del
1999, art. 30, comma 1, lett. b, (che prevedeva che, in esito al rito speciale, all’ergastolo si
sostituisse la pena di anni trenta di reclusione), mentre la decisione definitiva sia stata
pronunciata dopo il 24.11.2000, con applicazione del più severo trattamento sanzionatorio
introdotto con l’art. 7 D.L. n. 341 del 2000 (che ripristinava l’ergastolo senza isolamento
diurno: norma giudicata dalla Corte costituzionale, nella citata decisione n. 210/2013, non di
“interpretazione autentica” dell’art. 442, comma 2, ult. periodo, c.p.p., come esplicitamente
enunciato dal legislatore, ma norma sostanzialmente innovativa, che andava a modificare in
malam partem il contenuto sanzionatorio della disposizione suddetta e non poteva, perciò,
avere efficacia retroattiva).
Tutti i casi diversi da quello appena delineato, siccome strutturalmente non
riconducibili a quello per cui è stato espresso il principio, non possono, dunque, trovare
soluzione positiva (vedi, tra le più recenti, Sez. 1, n. 6004 del 10/1/2014, Papalia, Rv.
250026; Sez. 1, n. 4008 del 10/1/2014, Ganci, Rv. 258272; Sez. 1, n. 23931 del
17/5/2013, Lombardi, Rv. 256257; Rv. 255388, 254524, 254212, 254096, 251857, 253093,
252211 e altre).
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1.2. E’ evidente, pertanto, in base alle risultanze già messe in rilievo nella superiore
esposizione in fatto, la non sovrapponibilità della situazione del FEDERICO, mai ammesso al
rito abbreviato, a quella dello SCOPPOLA, sicché del tutto correttamente il Giudice
dell’esecuzione ha rigettato la sua istanza.
2. Quanto alla questione di costituzionalità della norma prevista dall’art. 4-ter,
comma 3, lett. b), D.L. n. 82/2000, dedotta dal ricorrente, si osserva quanto segue.

conversione del D.L. 7 aprile 2000 n. 82 – recante modificazioni alla disciplina del giudizio
abbreviato e concernente specificamente i processi penali in corso per delitti puniti con la
pena dell’ergastolo per i quali il soggetto non aveva potuto prima avvalersi della più
favorevole disposizione del novellato art. 442, comma 2, c.p.p. – limitava la possibilità
dell’imputato di proporre la richiesta di giudizio abbreviato “prima della conclusione
dell’istruzione dibattimentale” alle sole fasi di merito, di primo grado, d’appello o di rinvio,
mentre un analogo meccanismo recuperatorio dell’attenuazione di pena non era previsto per
i processi ormai pervenuti alla fase del giudizio di cassazione.
La lettera b) dell’art. 4-ter, comma 3, prevedeva l’ammissione della richiesta di
accesso all’abbreviato nel giudizio di appello, qualora fosse stata disposta la rinnovazione
dell’istruzione ai sensi dell’art. 603 c.p.p., e la richiesta fosse stata presentata prima della
conclusione dell’istruzione stessa.
Il chiaro tenore della norma implica, diversamente da quanto sostenuto dal difensore
del ricorrente, che la nuova disciplina in tema di rito abbreviato non poteva avere ingresso
nei giudizi di appello in cui o non fosse stata ordinata la riapertura dell’istruttoria
dibattimentale oppure, qualora disposta ai sensi dell’art. 603 c.p.p., la stessa si fosse
esaurita, atteso che, in tale sede, non sarebbe stato possibile l’ipotetico “recupero” di facoltà
ormai naturalmente precluse, proprio perché al detto recupero non sarebbe conseguita
alcuna rinuncia al diritto alla prova nel contraddittorio di merito, essendo stato tale diritto,
per definizione, già integralmente esercitato.
Ciò sta, dunque, a significare che il legislatore, in presenza del mutato quadro
ordinamentale e delle profonde innovazioni che hanno contrassegnato l’intero scenario, sul
piano dei presupposti e delle cadenze, del rito alternativo che viene qui in discorso, ha
consentito in via transitoria la proposizione di richieste, ormai precluse, ancorandone
temporalmente l’ammissibilità ad uno stadio antecedente l’inizio dell’istruttoria
dibattimentale.
Tale scelta è del tutto ragionevole e si salda appieno con la funzione deflattiva che anche in regime transitorio – ha continuato a caratterizzare il giudizio abbreviato rispetto

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2.1. La norma transitoria di cui all’art. 4-ter, comma 3, L. 5 giugno 2000 n. 144 di

all’ordinario epilogo dibattimentale e in sé giustifica la speciale diminuzione di pena in ipotesi
di condanna.
Da tali premesse derivano due evidenti corollari.
Per un verso, infatti, risolvendosi la diminuente di pena in un trattamento premiale
accessorio che scaturisce dalla scelta, ormai unilaterale, di un rito che si configura a
struttura probatoria eventuale e contratta, è evidente che un siffatto trattamento

accede, senza pertanto assumere – come pure il ricorrente pretenderebbe – l’autonomia
tipica di una disciplina di natura sostanziale.
Sotto altro profilo, correlandosi il regime transitorio alla opzione per un modello
ontologicamente alternativo alla istruzione dibattimentale, è del tutto evidente che la sede
del giudizio di appello in cui o non è stata mai disposta o, se disposta, si è esaurita
l’istruttoria dibattimentale, si presenterebbe del tutto eccentrica rispetto ad un ipotetico
“recupero” di facoltà ormai naturalmente precluse, proprio perché ad esso non
conseguirebbe alcuna rinuncia al diritto alla prova nel contraddittorio di merito, essendo
stato tale diritto per definizione già integralmente esercitato. Considerazioni analoghe
valgono, a maggior ragione, per il giudizio di legittimità.
Accedendo a un ragionamento come quello prospettato dalla difesa, si
determinerebbe, oltretutto, un incoerente “privilegio” riconosciuto in via esclusiva proprio nei
confronti di quanti versassero nelle condizioni dell’odierno ricorrente, giacché solo per esso,
e senza alcuna giustificazione, si dovrebbe applicare una diminuente di pena totalmente
disancorata da qualsiasi riconducibilità al rito speciale ed alle “limitazioni” probatorie che da
esso conseguono (vedi Sez. 1, n. 43527 del 24.9.2013, Morabito).
In numerose pronunce questa Corte ha, del resto, sempre affermato la coerenza
costituzionale di siffatta disciplina transitoria, rilevando che “la disciplina processuale del rito
abbreviato è certamente caratterizzata da innegabili riflessi di natura sostanziale, visto
l’effetto premiale, sul piano sanzionatorio, per l’imputato, il che induce istintivamente a
pensare a situazioni che, pur simili nella loro struttura sostanziale, finiscono per soggiacere a
regole processuali diverse, in dipendenza di eventi meramente casuali. In realtà, però, il
riverbero che l’operatività di un istituto processuale può avere su di una situazione
sostanziale non è idoneo ad annullare o a svilire la connotazione tipicamente processuale
dello stesso istituto, nella specie il giudizio abbreviato. Non va sottaciuto che l’effetto
sostanziale della riduzione di pena che a tale giudizio consegue è in stretto ed ineludibile
rapporto di dipendenza con una precisa scelta processuale, praticabile solo nel rispetto delle
modalità e dei tempi fissati, con rigida scansione, nel codice di rito. Se, quindi, si è di fronte
a norme processuali, le stesse non possono che essere soggette al principio “tempus regit
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sanzionatorio vive e trae la propria ragione d’essere esclusivamente nell’alveo del rito cui

actum”, senza che ciò significhi lesione alcuna dei principi costituzionali e, segnatamente, del
principio di uguaglianza dettato dall’art. 3 Cost. Né è legittimo fare leva sulla norma dell’art.
2, comma 3, c.p. in materia di successione di leggi penali nel tempo, per sostenere le
retroattività della sopravvenuta più favorevole normativa in materia di giudizio abbreviato, e
ciò per la semplice ragione che tale normativa non integra il concetto di “legge”, dovendosi
per tale intendere solo quella il cui contenuto incide direttamente sul precetto o sulla

l’applicazione alla materia processuale della regola generale della irretroattività di ogni
legge, stabilità dell’art. 11, comma 1, delle disposizioni sulla legge in generale” (Sez. 6,
Sentenza n. 10621 del 4/7/2000, Calafato ed altri, Rv. 217098; ma anche, Sez. 5, n. 33718
del 13.6.2001, Barreca e altri; Sez. 1, n. 468 del 18.12.2000, Orofino ed altri; Sez. I,
8.11.2000, Cannella ed altri; Sez. I, 7.7.2000, Crisafulli; Sez. I, 26.6.2000, Sangiorgi; Sez.
VI, 20.6.2000, Occhipinti; Sez. II, 13.6.2000, Genco ed altri; Sez. 1, n. 8857 del 13.6.2000,
Mercurio; Sez. I, 5.6.2000, Flasani).
2.2. Va, infine, ricordato che, con la recente decisione n. 235 del 2.7.2013, la Corte
costituzionale, investita di un caso assimilabile a quello oggetto di ricorso, ha dichiarato
manifestamente inammissibile – per irrilevanza – la questione di legittimità costituzionale

sanzione. Conclusivamente, il principio cui soggiace la normativa in esame altro non è che

dell’art. 4-ter del D.L. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito, con modificazioni, dalla legge 5 ) fr\
./
giugno 2000, n. 144), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., quest’ultimo in
relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, dal Tribunale di Lecce, in veste di giudice dell’esecuzione.
Ha affermato la Corte costituzionale che il Giudice a quo non era chiamato a fare
applicazione della norma censurata, perché colui che aveva proposto l’incidente dì
esecuzione – benché, come il FEDERICO, assumesse di avere diritto alla sostituzione di
detta pena con quella di trenta anni di reclusione sulla base dei principi affermati dalla
Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nella più volte citata sentenza
17.9.2009, Scoppola contro Italia – in realtà non versava affatto in una situazione identica o
similare a quella presa in esame dalla richiamata sentenza della Corte di Strasburgo.
Nel richiamare la propria precedente sentenza n. 210 del 2013, il Giudice delle Leggi
ha, a tal proposito, ribadito che alla suddetta sentenza della Corte europea si può fare
riferimento soltanto nell’ipotesi relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e “non
richieda la riapertura del processo”, essendo questa l’unica ipotesi nella quale può
giustificarsi “un incidente di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di
esecuzione nei confronti di una norma applicata nel giudizio di cognizione”.
Tale situazione non ricorreva nel caso sottoposto all’attenzione del Giudice a quo per
varie ragioni:
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1) l’imputato, come il FEDERICO, non era mai stato ammesso al giudizio abbreviato
(diversamente dalla situazione avuta di mira dalla sentenza Scoppola);
2) la norma censurata non aveva natura sostanziale, ma processuale (vedi: Corte
europea 27 aprile 2010, Morabito contro Italia).
Da ciò conseguiva che il Tribunale rimettente non aveva alcun titolo per procedere
alla ipotizzata sostituzione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno con la pena

esecuzione, la legittimità costituzionale di una norma che, quale quella sottoposta a
scrutinio, atteneva al processo di cognizione.
La sollevata questione di costituzionalità dell’art. 4-ter L. n. 144/2000 deve, quindi,
ritenersi manifestamente infondata, nonché irrilevante, non potendosi, in ogni caso,
attribuire alla sentenze della Consulta che dichiarassero illegittime norme processuali
efficacia retroattiva su rapporti nei quali si siano formate, in tutto o in parte, statuizioni
irrevocabili e, come tali, insuscettibili di subire l’influenza del giudicato costituzionale (in
termini, Sez. 1, Sentenza n. 5305 del 25/9/1997, Buiarelli, Rv. 208629; Sez. U, Sentenza n.
44895 del 17/7/2014, Pinna, Rv. 260925).

3. In definitiva, il ricorso, manifestamente infondato, e dimentico di principi affermati
anche dalle sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte, deve essere dichiarato
inammissibile ex artt. 591 e 606, comma 3, c.p.p..
Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del
disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 (mille)
in favore della Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente
infondato (v. sentenza Corte Cost. n. 186/2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di C 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

detentiva temporanea, né, tanto meno, per porre in discussione, in sede di incidente di

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