Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29934 del 13/01/2016


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 29934 Anno 2016
Presidente: VECCHIO MASSIMO
Relatore: CENTONZE ALESSANDRO

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
1) Zafarana Vincenzo, nato il 09/12/1986;

Avverso la sentenza n. 10745/2013 emessa il 14/03/2014 dalla Corte di
appello di Roma;

Udita la relazione svolta dal Consigliere dott. Alessandro Centonze;

Udito il Procuratore generale, in persona del dott. Ciro Angelillis, he ha
concluso per il rigetto del ricorso;

Udito per il ricorrente l’avv. Giuseppe Ranieri;

Data Udienza: 13/01/2016

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 07/05/2013 il Tribunale di Rieti condannava
Vincenzo Zafarana alla pena di anni due e mesi nove di reclusione, oltre alle
pene accessorie di legge, ritenendolo colpevole delle lesioni personali aggravate
cagionate a Carlo Orfei – così riqualificata l’ipotesi di tentato omicidio mediante
accoltellamento contestata al capo A) – nonché del porto e della detenzione del
coltello utilizzato per accoltellare la vittima contestati al capo B), commessi a

La pena irrogata all’imputato veniva così quantificata, ritenuta la
continuazione tra i reati contestati, previa formulazione di un giudizio di
equivalenza tra le attenuanti generiche e le circostanze aggravanti oggetto di
contestazione.

2. Con sentenza emessa il 14/03/2014 la Corte di appello di Roma, in
accoglimento dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero e dal
procuratore generale, riformava la sentenza appellata, riqualificando il reato
contestato al capo A) come tentato omicidio aggravato dai futili motivi e dalla
recidiva e condannando lo Zafarana alla pena di anni sette di reclusione per il
reato di cui allo stesso capo e alla pena di mesi uno di arresto e 100,00 euro di
ammenda per il reato di cui al capo B).
L’imputato, inoltre, veniva condannato alle pene accessorie di legge e al
pagamento delle ulteriori spese processuali.

3. Nella sentenza di primo grado si riteneva che l’accoltellamento di Carlo
Orfei, che aveva provocato il suo ricovero ospedaliero in conseguenza di una
ferita addominale da taglio penetrante, era stato provocato dall’imputato, nel
corso di un litigio occorso tra i due soggetti durante la festa del Carnevalone
liberato, che si svolgeva nel centro rietino di Poggio Mirteto il 26/02/2012. A tale
festa locale, lo Zafarana e l’Orfei si erano recati assieme, essendo legati da
rapporti di amicizia, unitamente ad altri tre amici, Alessio Beverino, Massimiliano
Aparo e Ludovica Caracciolo.
Giunti sul posto lo Zafarana e l’Orfei avevano iniziato a ballare in piazza,
davanti ad altoparlanti che diffondevano musica, fino a quando avevano iniziato
a spingersi, in conseguenza della calca che si era creata. A questo punto, era
nata una discussione tra i due soggetti che pretendevano reciprocamente spazio
per ballare, cui erano seguiti alcuni spintoni, fino a quando Massimiliano Aparo che era giunto a Poggio Mirteto in loro compagnia – non interveniva per dividere
i due amici.
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Poggio Mirteto il 26/02/2012.

Mentre cercava di dividere i due amici, l’Aparo notava che lo Zafarana aveva
eseguito un rapido movimento con la mano, all’altezza dell’addome dell’amico,
ritirando immediatamente il braccio. L’Orfei, a questo punto, aveva alzato la
maglietta, mostrando all’Aparo una ferita da cui fuoriusciva molto sangue; subito
dopo, l’Aparo tentava di rincorrere lo Zafarana che, nel frattempo, si era
allontanato dalla piazza.
Sulla base delle dichiarazioni rese dall’Aparo, si riteneva di collegare
l’accoltellamento all’azione repentina dello Zafarana, conseguente ai contrasti

di ballare liberamente. Tale ricostruzione dei fatti veniva ulteriormente
avvalorata dall’allontanamento dell’imputato, immediatamente successivo
all’accoltellamento dell’amico, dal luogo dove entrambi si trovavano a ballare
prima del ferimento dell’Orfei.
In questa cornice processuale, il Tribunale di Rieti non riteneva corretto
l’inquadramento della condotta delittuosa contestata allo Zafarana al capo A)
della rubrica, ai sensi degli artt. 56, 61, n. 1, 99, 575 cod. pen., in conseguenza
del fatto che la regione corporea attinta dalla coltellata non coincideva con un
organo vitale e che l’idoneità dell’accoltellamento a provocare la morte della
vittima non poteva essere adeguatamente vagliata in assenza del corpo del
reato, anche alla luce delle ferite provocate all’Orfei che non potevano ritenersi
causate da un’azione di portata offensiva eccezionale.
Tali ragioni inducevano il giudice di primo grado a irrogare allo Zafarana la
pena richiamata in premessa.

4. Come si è detto, la sentenza di appello riformava il giudizio di
responsabilità nei confronti dello Zafarana in senso peggiorativo, in accoglimento
degli appelli proposti dal pubblico ministero e dal procuratore generale, ritenendo
corretta l’originaria qualificazione del reato contestato al capo A) come tentato
omicidio aggravato dai futili motivi e dalla recidiva semplice.
La riqualificazione dell’ipotesi contestata allo Zafarana al capo A) veniva
fondata su una rivalutazione del compendio probatorio, tenuto conto degli
argomenti utilizzati dal giudice di primo grado, riguardanti la parte corporea
attinta dalla coltellata e le modalità dell’azione offensiva eseguita dall’imputato.
Sotto il primo profilo, la Corte territoriale evidenziava che il fendente inferto
all’Orfei aveva colpito un’area corporea nella quale, al contrario di quanto
erroneamente dedotto dai giudici di primo grado, si trovavano numerosi organi
vitali – tra i quali l’aorta addominale, le vene iliache e le vene parietali – che,
laddove recisi, avrebbero portato al dissanguamento rapido della vittima e al suo
decesso. Tale giudizio veniva formulato anche sulla base delle considerazioni
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che erano intercorsi con l’Orfei, dovuti alla confusione che impediva ai due amici

espresse dai medici del pronto soccorso che avevano assistito l’Orfei al momento
del suo ricovero – i dottori Giorgio Ravà e Claudia Frusta – i quali, nel corso della
loro deposizione, avevano riferito che, seppure l’intestino non può essere
ritenuto un organo vitale, il suo perforamento è certamente idoneo a mettere in
pericolo di vita il paziente, determinando una peritonite da perforazione e uno
choc emorragico, peraltro verificatosi nel caso in esame per effetto della perdita
di 1,5 litri di sangue, che aveva posto in pericolo di vita la persona offesa.
Sotto il secondo profilo, la Corte territoriale evidenziava che la vittima, in

perforazione dell’intestino tenue e la rescissione di un vaso sanguigno intestinale
– che aveva determinato le perdite ematiche sopra richiamate – in conseguenza
delle quali l’Orfei veniva sottoposto a un intervento chirurgico d’urgenza. Ne
conseguiva che, nel caso di specie, il decesso dell’Orfei non si verificava solo per
la tempestività dei soccorsi ospedalieri prestati alla vittima, che determinava un
positivo decorso della ferita provocata dall’accoltellamento dell’imputato.
In questa cornice, si evidenziava ulteriormente che, anche sotto il profilo
psicologico, era indubbio che l’imputato intendeva uccidere l’Orfei, atteso che
aveva manifestato apertamente tale volontà, sferrando contro l’addome della
vittima una coltellata, inferta con un’arma da taglio che penetrava con facilità,
per circa dieci centimetri, nella cavità intestinale della persona offesa, la quale
non si accorgeva nemmeno di essere stato accoltellato. Queste ultime
circostanze dovevano ritenersi sintomatiche dell’idoneità offensiva dell’arma
utilizzata, che doveva essere ulteriormente correlata alla violenza e alla velocità
con cui il fendete era stato sferrato all’Orfei.
In ogni caso, applicando al caso in esame il criterio ermeneutico della
prognosi postuma, ne discendeva che il fendente inferto dall’imputato alla
vittima – tenuto conto della lunghezza della lama e della larghezza della ferita
addominale provocata – presentava caratteristiche di offensività tali da farlo
ritenere certamente idoneo a provocare la morte della persona offesa.
Tale compendio probatorio imponeva la riforma della sentenza di primo
grado e la conseguente condanna dello Zafarana, previa riformulazione
dell’ipotesi delittuosa contestata al capo A), ai sensi degli artt. 56, 61, n. 1, 99,
575 cod. pen., alla pena di cui in premessa.

5. Avverso tale sentenza l’imputato, a mezzo del suo difensore, ricorreva
per cassazione, deducendo tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso, rilevante rispetto a entrambe le decisioni di
merito, si deducevano violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione
all’inesistenza della difesa processuale dello Zafarana, dovuta al fatto che il suo
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conseguenza dell’accoltellamento patito per mano dello Zafarana, aveva subito la

difensore di fiducia – l’avv. Rosa Federici – era stata radiata dall’Ordine degli
avvocati di Foggia, con la conseguenza che il patrocinio prestato all’imputato
doveva ritenersi inesistente.
Questa patologia processuale non poteva nemmeno ritenersi sanata dalla
nomina di un difensore d’ufficio da parte del Tribunale di Rieti, tenuto conto del
fatto che tale nomina interveniva nel giudizio di primo grado solo all’udienza del
15/01/2013, dopo la conclusione delle indagini preliminari e l’apertura del
dibattimento, disposta la quale l’avv. Federici non aveva ancora articolato alcuna

Con il secondo motivo di ricorso si deduceva la mancata assunzione di una
prova decisiva, consistente nell’acquisizione delle registrazioni effettuate dal
sistema di videosorveglíanza attivato dalla D.I.G.O.S. della Questura di Rieti, con
cui era stata filmata, per ragioni di sicurezza, l’intera manifestazione del
Carnevalone liberato di Poggio Mirteto.
Tale prova, secondo il ricorrente, non era stata acquisita dal pubblico
ministero nel corso delle indagini preliminari, nonostante la decisività di tale
mezzo istruttorio, peraltro ribadita dai funzionari della D.I.G.O.S. esaminati nel
corso dell’istruttoria dibattimentale. La mancata acquisizione di tale prova
decisiva aveva comportato che il giudizio di responsabilità dell’imputato veniva
formulato unicamente sulla base delle dichiarazioni rese dal teste Aparo, la cui
genericità non consentiva di superare le censure processuali segnalate dalla
difesa del ricorrente, in ordine alla dinamica dell’accoltellarnento dell’Orfei.
Con il terzo motivo di ricorso, infine, si deducevano violazione di legge e
vizio di motivazione, in relazione all’inquadramento dell’ipotesi delittuosa
contestata allo Zafarana al capo A) della rubrica, a seguito della riqualificazione
operata dalla Corte territoriale, che non teneva conto delle emergenze
processuali correttamente valutate dal giudice di primo grado che, difatti, aveva
ricondotto il comportamento dell’imputato al reato di cui agli artt. 582 e 583 cod.
pen.
Si censurava, in tale ambito, la ricostruzione dell’elemento soggettivo del
tentato omicidio aggravato ascritto al ricorrente, atteso che le evidenze
processuali non consentivano di ipotizzare alcuna volontà omicida nel
comportamento dello Zafarana, atteso che la dinamica della coltellata inferta alla
vittima – senza mirare a un preciso obiettivo vitale – e l’unicità del fendente non
consentivano di ricondurre la condotta dell’imputato all’ipotesi di reato
contestata, dovendosi escludere

Vanimus necandi

indispensabile per la

configurazione dello stesso reato. Si riprendevano, in tal modo, le deduzioni
processuali espresse dal giudice di primo grado, secondo cui la coltellata era
stata inferta dall’imputato in una zona non letale del corpo, con modalità
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difesa processuale.

talmente repentine che non era possibile ipotizzare alcun intento omicida
nell’azione posta in essere in danno della persona offesa.
Queste ragioni processuali imponevano l’annullamento della sentenza
impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.

di merito, deve rilevarsi che è incontroverso che il ricorrente risultava assistito
fino all’udienza del 15/01/2013 dall’avv. Rosa Federici e che tale difensore di
fiducia era stato radiato dall’Ordine degli avvocati di Foggia, con la conseguenza
che il patrocinio difensivo prestato all’imputato doveva ritenersi illegittimo. Sulla
vicenda processuale che aveva determinato l’arresto dell’avv. Federici, dal quale
era derivata la sua radiazione non occorre soffermarsi, pur dovendosi dare atto
che, su di essa, ci si soffermava analiticamente nel ricorso in esame.
Nel caso di specie, lo Zafarana, durante tutte le indagini preliminari e fino a
uno stadio del processo di primo grado successivo alla dichiarazione di apertura
del dibattimento, era assistito da un difensore che, per le ragioni che si sono
esplicitate, risultava sprovvisto dei requisiti di iscrizione all’albo degli avvocati
indispensabile per esercitare regolarmente il suo mandato difensivo.
In ipotesi di questo genere, secondo quanto precisato dalla giurisprudenza di
legittimità, ci si trova di fronte a una nullità generale a regime intermedio,
rilevante ai sensi degli artt. 178 e 179 cod. proc. pen., assimilabile a quelle in cui
l’imputato risulta assistito da un avvocato cancellato dall’albo professionale che
non compare il dibattimento, che devono essere parificate a quella di mancato
avviso del difensore e non alla diversa ipotesi, che darebbe luogo a nullità
assoluta, di assenza del difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la sua
presenza. Sul punto, si ritiene utile richiamare la giurisprudenza di legittimità,
secondo cui: «Integra una nullità a regime intermedio, ad una lettura correlata
degli artt. 178, lett. c) e 179 cod. proc. pen., la nomina quale difensore d’ufficio,
effettuata nel decreto di citazione a giudizio, di un avvocato cancellato dall’Albo
professionale che non sia comparso nel dibattimento, atteso che tale ipotesi va
parificata a quella di mancato avviso e non alla diversa ipotesi, che darebbe
luogo a nullità assoluta, di assenza del difensore nei casi in cui ne è obbligatoria
la presenza» (cfr. Sez. 3, n. 5990 del 13/12/2001, Agostiniano, Rv. 221108).
Ne discende che tale patologia, pur sussistente, doveva essere eccepita,
secondo le previsioni degli artt. 178 e 179 cod. proc. pen., prima del
compimento dell’atto ovvero, se tutto questo non fosse stato concretamente
6

Quanto al primo motivo di ricorso, articolato in relazione a entrambi i giudizi

possibile, immediatamente dopo, dovendo identificarsi tale momento nel primo
atto del procedimento penale nel quale era possibile proporre una tale eccezione
processuale.
Ci si trova, dunque, di fronte a una nullità generale a regime intermedio che imponeva alla difesa dell’imputato di dedurre tempestivamente tale
patologia processuale, ai sensi del combinato disposto artt. 178, lett. c), 179,
comma 1, 182 cod. proc. pen. – riconducibile alla figura generale dell’assistenza
e della rappresentanza in giudizio dell’imputato, rispetto alle quali solo l’assenza

di una nullità assoluta. Ne consegue che l’intempestività dell’eccezione, dedotta
dalla difesa dello Zafarana dopo la deliberazione della sentenza di appello, con il
ricorso per cassazione, non comporta il verificarsi di alcuna nullità, atteso che
l’imputato era stato assistito in dibattimento da un difensore d’ufficio, nominato
all’udienza del 15/01/2013 (cfr. Sez. 3, n. 41603 del 19/03/2015, Greco, Rv.
265089).
Tali ragioni impongono di ritenere infondata la doglianza difensiva
esaminata.

2. Parimenti infondato deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, con il
quale si deduceva la mancata assunzione di un mezzo istruttorio decisivo ai fini
della decisione, consistente nell’acquisizione delle registrazioni audiovisive
effettuate dalla D.I.G.O.S. della Questura di Rieti durante lo svolgimento del
Carnevalone liberato di Poggio Mirteto. Tali riprese audiovisive, laddove
acquisite, avrebbero consentito di accertare la dinamica dell’accoltellarnento
dell’Orfei, la quale era stata ricostruita nei sottostanti giudizi di merito
esclusivamente sulla base delle dichiarazioni rese dal teste Massimiliano Aparo,
la cui attendibilità era minata dalla loro genericità.
Secondo la ricostruzione difensiva, tale prova decisiva non era stata
acquisita dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari, né ne era
stata sollecitata l’acquisizione nell’ulteriore prosecuzione del giudizio, ai sensi
dell’art. 603 cod. proc. pen., nonostante la decisività di tale mezzo istruttorio,
peraltro ribadita dai funzionari della D.I.G.O.S. – invero genericamente
richiamati nel ricorso in esame e senza alcun riferimento a passaggi testimoniali
utili – che erano stati esaminati nel dibattimento celebrato davanti al Tribunale di
Rieti.
Deve, in proposito, rilevarsi che tale censura difensiva non tiene conto della
giurisprudenza di legittimità consolidata in materia di applicazione dell’art. 603
cod. proc. pen., secondo cui: «Nel giudizio d’appello, la rinnovazione
dell’istruttoria dibattimentale, prevista dall’art. 603, comma primo, cod. proc.
7

del difensore, nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza, comporta il verificarsi

pen., è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale
ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato
degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale accertamento è rimesso alla
valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se
correttamente motivata» (cfr. Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv.
262620).
Né è possibile ipotizzare alcuna violazione residuale della previsione dell’art.
603, comma 2, cod. proc. pen. non trovandocisi di fronte a prove nuove o

rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello, solo nel caso di
prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado, la mancata
assunzione del mezzo istruttorio richiesto può costituire violazione dell’art. 606,
comma 1, lett. d), cod. proc. pen.; mentre, negli altri casi previsti, il vizio
deducibile in sede di legittimità è solo quello attinente alla motivazione previsto
dalla lettera e) del medesimo art. 606 (cfr. Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006,
Bartalini, Rv. 235654).
In questa cornice, non è possibile ipotizzare alcuna elusione dei principi
riconducibili all’orientamento giurisprudenziale richiamato, atteso che tale
censura processuale veniva proposta dalla difesa dell’imputato soltanto con il
ricorso per cassazione, con la conseguenza che la rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale veniva richiesta nel giudizio di legittimità senza essere stata
preventivamente proposta, con le modalità previste dall’art. 603 cod. proc. pen.,
nel giudizio di appello.
Queste ragioni impongono di ritenere infondata la doglianza difensiva
esaminata.

3. Parimenti infondato deve ritenersi il terzo motivo di ricorso, riguardante
l’erroneo inquadramento dell’ipotesi delittuosa contestata allo Zafarana al capo
A), ai sensi degli artt. 56, 61, n. 1, 99, 575 cod. pen., a seguito della
riqualificazione operata dalla Corte territoriale, che ripristinava l’originaria
contestazione, in accoglimento dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero
e dal procuratore generale.
Secondo la difesa del ricorrente, l’erroneità dell’inquadramento dell’ipotesi
delittuosa contestata al capo A) quale tentato omicidio aggravato dai futili motivi
e dalla recidiva, conseguiva all’inidoneità degli atti posti in essere dall’imputato a
provocare la morte dell’Orfei, che andava ulteriormente correlata alla verifica
processuale sull’univocità di tali atti aggressivi, non essendo stata raggiunta la
prova della volontà omicida del ricorrente nei sottostanti giudizi di merito.

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sopravvenute, a proposito delle quali, deve evidenziarsi che, in tema di

Deve, in proposito, rilevarsi che il presupposto su cui il ricorrente fonda il
suo assunto difensivo, secondo cui l’imputato si era limitato a colpire con un
unico fendente la vittima in una zona non vitale del corpo allo scopo di ferirlo e
senza alcun intento omicidiario, risulta smentito dalla sequenza dell’azione
delittuosa, caratterizzata dalla vicinanza tra il ricorrente e la persona offesa,
dalla gravità della ferita riportata dall’Orfei a seguito dell’accoltellamento e dalla
causale dell’azione aggressiva, che aveva origine negli spintonamenti reciproci
tra i due amici.

analiticamente e con un percorso motivazionale immune da censure,
evidenziando che l’azione delittuosa dell’imputato era certamente idonea a
causare la morte dell’Orfei, avendo provocato la penetrazione dell’arma da taglio
nella cavità intestinale della vittima per una profondità di dieci centimetri, cui
conseguivano perdite ematiche significative, quantificate in 1,5 litri di sangue,
dalle quali non derivava il decesso della persona offesa solo in conseguenza della
tempestività dell’intervento chirurgico d’urgenza effettuato dopo il suo ricovero
ospedaliero. Nella sentenza impugnata, in particolare, a pagina 13, venivano
richiamate le dichiarazioni rese dal dott. Rava e dalla dott.ssa Frusta all’udienza
del 15/01/2013, i quali riferivano che, al momento del ricovero, le condizioni
cliniche della vittima erano tali da doverla ritenere in una situazione “a rischio di
vita”, conseguente al fatto che la coltellata inferta dallo Zafarana aveva
determinato la perforazione dell’intestino tenue e la rescissione di un vaso
sanguigno della parete intestinale, provocando le ingenti perdite ematiche che si
sono richiamate e imponendo un intervento chirurgico finalizzato alla resezione
dell’intestino.
Sul punto, vale la pena di richiamare ulteriormente il passaggio
motivazionale esplicitato nelle pagine 13 e 14 del provvedimento impugnato, nel
quale la Corte territoriale evidenziava come costituisse un elemento probatorio
incontroverso quello secondo cui il ricorrente avesse accoltellato l’Orfei non già in
preda a un momentaneo accesso d’ira, ma all’esito di una sequenza criminosa
progressiva, correttamente ricostruita. In questo passaggio della sentenza, in
particolare, si faceva riferimento all’atteggiamento dell’imputato, il quale da un
iniziale alterco caratterizzato da semplici spintoni reciproci era passato, in una
progressione di violenza del tutto sproporzionata, all’aggressione armata
dell’amico, colpito repentinamente all’addome con un’arma da taglio della
lunghezza di dieci centimetri, effettuata la quale lo Zafarana si dava alla fuga allo
scopo di sottrarsi all’inseguimento dell’Aparo.
Sulla scorta di tale ricostruzione della dinamica dell’aggressione armata del
ricorrente, che deve essere correlata alle circostanze di tempo e di luogo nelle
9

Su questi profili valutativi, la sentenza di appello si soffermava

quali maturava la sua decisione di uccidere l’Orfei, la Corte territoriale formulava
un giudizio congruo sull’idoneità degli atti posti in essere dall’imputato a
provocare la morte dell’amico, nel valutare la quale è utile richiamare la
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui: «L’idoneità degli atti, richiesta per
la configurabilità del reato tentato, deve essere valutata con giudizio “ex ante”,
tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione,
in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una
situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto» (cfr. Sez.

In questa cornice processuale, la difesa del ricorrente censurava
ulteriormente la sentenza impugnata sotto il profilo dell’assenza di prova
dell’univocità degli atti che si concretizzavano nell’ipotesi delittuosa contestata al
capo A), rispetto alla quale era stato formulato un giudizio che non teneva conto
delle evidenze probatorie riguardanti le modalità dell’aggressione dello Zafarana.
Deve, in proposito, rilevarsi che l’univocità degli atti costituisce il
presupposto indispensabile per ritenere una condotta delittuosa riconducibile
all’alveo applicativo dell’art. 56 cod. pen. Tutto questo risponde all’esigenza di
ricostruire la volontà del soggetto attivo del reato rispetto all’aggressione del
bene giuridico protetto della norma, conformemente a quanto statuito da questa
Corte, secondo cui: «In tema di tentativo, il requisito dell’univocità degli atti va
accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica
della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta
della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di
mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla
individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in
pericolo» (cfr. Sez. 4, n. 7702 del 29/01/2007, Alasia, Rv. 236110).
Ne discende che il requisito dell’univocità degli atti deve essere accertato
sulla base delle connotazioni concrete della condotta criminosa, nel senso che gli
atti posti in essere devono possedere, tenuto conto del contesto in cui sono
inseriti, l’attitudine a rendere manifesto il proposito criminoso perseguito,
desumibile sia dagli atti esecutivi che da quelli preparatori (cfr. Sez. 2, n. 46776
del 20/11/2012, D’Angelo, Rv. 254106).
In questo contesto, non può non rilevarsi che la dinamica
dell’accoltellarnento dell’Orfei e le gravi ferite riportate dalla vittima devono
ritenersi dimostrative del fatto che l’aggressione armata dell’imputato
conseguisse a una volontà omicida univocamente orientata, consentendo di
affermare che il ricorrente avesse voluto accoltellare la persona offesa,
nonostante i rapporti di amicizia che lo legavano a lui e noncurante del rischio di
causarne la morte. Si consideri, in particolare, il passaggio della sentenza
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1, n. 27918 del 04/03/2010, Resa, Rv. 248305).

impugnata, esplicitato a pagina 15, in cui la Corte territoriale affermava: «Come
pure ritiene questa Corte, sotto il profilo “psicologico”, che se è vero che il dolo
“eventuale” è incompatibile con il “tentativo”, con la sua azione, per come
ampiamente e minuziosamente delineata, l’imputato aveva agito in effetti, e per
come ampiamente dimostrato, con dolo “alternativo”, voleva infatti, provocare
con l’arma utilizzata (da punta e da taglio), di quelle dimensioni e capacità
offensive (certamente micidiali: cm. 10 di lama e cm. 2 di larghezza), in
relazione alla parte del corpo della vittima attinta (l’intestino, come il collo o il

persona offesa, ovvero il suo grave ferimento».
In definitiva, la condotta posta in essere dallo Zafarana e la tipologia di
arma da taglio impiegata per colpire l’Orfei risultano pienamente compatibili con
la causazione sia della morte che del ferimento della vittima, imponendo di
ritenere che l’imputato aveva sferrato un colpo mortale all’indirizzo dell’amico,
che non ne aveva provocato il decesso per una mera accidentalità, indipendente
dalla sua volontà omicida, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale nel
passaggio motivazionale che si è richiamato.
Ne discende che, anche sotto tale ulteriore profilo valutativo, il ricorso deve
essere rigettato.

4. Per queste ragioni, il ricorso proposto nell’interesse di Vincenzo Zafarana
deve essere rigettato, con la sua condanna al pagamento delle spese
processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 13 gennaio 2016.

torace e notoriamente ricco di vasi sanguigni di rilevanza vitale), la morte della

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