Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29920 del 09/07/2015


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 29920 Anno 2015
Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: PICCIALLI PATRIZIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CELLA SALVATORE N. IL 21/04/1973
avverso la sentenza n. 252/2015 TRIB. LIBERTA’ di NAPOLI, del
03/03/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI;
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Data Udienza: 09/07/2015

Ritenuto in fatto

CELLA Salvatore ricorre avverso l’ordinanza di cui in epigrafe con cui il Tribunale
respingeva l’ appello dal medesimo proposto avverso l’ordinanza con la quale il Gip aveva
negato che vi fossero i presupposti per la retrodatazione [articolo 297, comma 3, c.p.p.]
dell’ordinanza cautelare adottata nei suoi confronti, rispetto ad altra che in passato lo
aveva attinto, così negando la invocata declaratoria di inefficacia della misura sub iudice

Il Tribunale nel rigettare l’appello escludeva che ricorressero i presupposti di applicabilità
dell’istituto. In particolare, per quanto qui interessa, negava che ricorresse il
presupposto dell’anteriorità” dei fatti oggetto della seconda ordinanza, sul rilievo che,
sebbene alcuni degli episodi contestati fossero risalenti all’epoca della prima ordinanza,
nella seconda ordinanza oggetto di contestazione era anche l’ipotesi associativa

ex

articolo 74 del dpr n. 309, contestata come permanente anche nell’attualità. Inoltre,
sempre il Tribunale negava che sussistesse una connessione qualificata, vuoi come
connessione teleologica, vuoi come connessione qualificata sub specie

di continuazione,

anche in ragione dei principi operanti in materia di reato associativo e reati-fine, in forza
dei quali tra il primo e gli altri è necessario dover positivamente dimostrare, per poter
ravvisare la continuazione, che questi ultimi fossero stati già programmati in tutti i
particolari sin dall’inizio della condotta partecipazione; ciò che nella specie era stato
motivatamente escluso.

Le doglianze del ricorrente riguardano proprio tali ragioni di diniego della retrodatazione.

Si sostiene infatti

l’erroneità e l’illogicità/contraddittorietà della motivazione

dell’ordinanza laddove questa ha affermato l’insussistenza dell’anteriorità dei fatti sub
iudice

avendo riguardo alla fattispecie associativa ritenuta tuttora permanente. Si

sostiene che il Tribunale avrebbe dovuto verificare la sussistenza di elementi dai quali
dedurre il “mantenimento dello stato antigiuridico”.

Si sostiene ancora l’erroneità e l’illogicità/contraddittorietà della motivazione con
riferimento alla ravvisata esclusione della connessione qualificata tra i reati, vuoi con
riferimento a taluni episodi di reato contestati come violazioni dell’articolo 73 del dpr n.
309 del 1990, vuoi con riferimento ai rapporti tra l’associazione criminosa oggetto di
contestazione nella seconda ordinanza e “il reato contestato all’indagato nel primo
provvedimento cautelare”.

per decorso dei termini.

Considerato in diritto

Il ricorso è manifestamente infondato, a fronte di una ordinanza satisfattivamente e
correttamente motivata, nei cui confronti si articolano doglianze di merito, improponibili
in questa sede.

Con argomentazione assorbente, vale ricordare che, ai fini dell’applicazione dell’articolo
297, comma 3, c.p.p., la valutazione della anteriore desumibilità delle fonti indiziarie

ordinanza cautelare è una questione di fatto che, per sua intrinseca natura, non può
essere rivisitata o rielaborata in sede di legittimità. In proposito, lo scrutinio della Corte di
cassazione è infatti limitato alla disamina della logicità e coerenza descrittiva degli eventi
processuali e delle emergenze probatorie enunciati nel provvedimento impugnato e nella
connessa congruenza e non contraddittorietà delle valutazioni ricavatene sul piano della
logica giuridica dal giudice di merito (cfr. Sezione VI, 28 febbraio 2007, Montinaro).

Né, per vero, può affermarsi la genericità dell’ordinanza, allorquando si è soffermata sul
reato permanente oggetto di contestazione nella seconda ordinanza, per inferirne
l’insussistenza dei presupposti suddetti, sul rilievo che trattavasi di reato contestato come
permanente, evidenziando, in fatto, non illogicamente, che nessun elemento autorizzava
a ritenere che il prevenuto avesse cessato di far parte dell’associazione all’atto
dell’emissione del primo titolo custodiale. Ciò del resto in ossequio al principio secondo
cui in tema di valutazione della permanenza del vincolo derivante dalla partecipazione ad
una associazione criminosa, l’arresto o l’esercizio dell’azione penale nei confronti di un
affiliato non costituisce causa automatica di cessazione del vincolo associativo, dovendosi
accertare caso per caso se le vicende processuali dell’imputato abbiano determinato la
risoluzione del legame associativo (cfr., ex pluribus , Sezione II, 13 novembre 2013, PG e
Panzega, rv. 258789).

E’ per converso generica proprio la tesi del ricorrente, che tra l’altro vorrebbe che fosse
questa Corte ad apprezzare tempi e modi di consumazione della fattispecie sub iudice,
esercitando compiti non propri del giudizio di legittimità.

Lo stesso deve dirsi con riguardo all’altro argomento proposto.

A ben vedere, il Tribunale ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui, perché
rispetto al reato associativo, tipico reato permanente, e i reati fine possa ravvisarsi il
vincolo della continuazione occorre che il completo progetto delittuoso, compresi i reati
fine, sia stato già concepito sin dall’atto iniziale della permanenza, non bastando che lo

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poste a fondamento dell’ordinanza cautelare successiva dagli atti inerenti la prima

avvenga durante il suo svolgimento: da ciò derivando che per i reati associativi tale
disegno integrale deve sussistere sin dal momento dell’adesione al gruppo criminale,
potendosi ravvisare la continuazione solo rispetto ai reati fine che si accerti essere stati
deliberati, nelle loro linee essenziali, sin dal momento di tale adesione. Ciò lo si desume
dal fatto che il reato permanente è da considerare già perfetto e consumato sin con il
primo realizzarsi dei suoi elementi costitutivi, con la conseguenza che i reati ideati dopo
tale realizzarsi sono il frutto di altro, diverso disegno criminoso e perciò non possono

E ciò ha fatto esaminando, in fatto, i reati in contestazione, con argomenti qui non
rinnovabili, a fronte, tra l’altro, di doglianza assertiva circa il vincolo della continuazione,
che dimentica i limiti del giudizio di legittimità, dove, all’evidenza, non può essere la
Corte, che non conosce in dettaglio le fattispecie incriminate, a ravvisare o, per converso,
ad escludere l’identità del disegno criminoso.

Da ciò deriva che non è certamente questa Corte a poter apprezzare le doglianze del
ricorrente che sono, peraltro, del tutto generiche, sì da farne discendere una censura in
questa sede.

Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Cost., sent. 713 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del ricorrente medesimo al pagamento
delle spese processuali e di una somma, che congruamente si determina in mille euro, in
favore della cassa delle ammende.

P. Q. M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al direttore
dell’istituto penitenziario competente perché provveda a quanto stabilito dall’art. 94,
comma 1 ter disp. att. del c.p.p.
Così deciso in data 9 luglio 2015

Il Consigliere estensore

Il Presid nte

essere posti in continuazione (Sezione VI, 19 febbraio 2010, Pulci ed altri).

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