Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29895 del 21/05/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 29895 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: MENGONI ENRICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Longhi Enrico, nato in Cile il 1°/3/1956

avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Brescia in data
14/4/2014;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Sante Spinaci, che ha chiesto dichiarare inammissibile il
ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza dell’8/10/2013, il Tribunale di Brescia dichiarava Enrico
Longhi colpevole del reato di cui all’art. 10-ter, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, e lo
condannava alla pena di sei mesi di reclusione; allo stesso – nella qualità di
legale rappresentante della “Nuova Smim s.r.l.” – era ascritto il mancato
versamento dell’i.v.a. per l’anno di imposta 2005, per l’ammontare di
133.439,00 euro.

Data Udienza: 21/05/2015

2. Con sentenza del 14/4/2014, la Corte di appello di Brescia, in parziale
riforma, riconosceva il vincolo della continuazione tra il reato in oggetto e quello
di cui al decreto penale di condanna emesso il 23/12/2011 dal Giudice per le
indagini preliminari presso il Tribunale di Brescia, e rideterminava la pena di
complessivi 4.620,00 euro di multa (3.420,00 euro di cui al decreto
penale+1.200,00 euro di cui al reato in esame).
3. Propone ricorso per cassazione il Longhi, a mezzo del proprio difensore,
deducendo – con unico motivo – l’erronea applicazione della legge penale,

del reato. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna pur difettando
ogni prova in ordine al dolo del delitto, che avrebbe dovuto interessare sia la
condotta che la soglia di punibilità, specie a seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 80 del 2014. Al riguardo, il Longhi avrebbe ammesso la propria
responsabilità, negando però ogni intento illecito e riferendo l’omissione soltanto
alle difficoltà finanziarie che avevano afflitto la società.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è manifestamente infondato.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di
legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della
decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo,
restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e
valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella,
n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa
Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art.
606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di
spessore tale da risultare percepibile ictu ocu/i; ciò in quanto l’indagine di
legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto,
dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa
volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione
alle acquisizioni processuali (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv.
226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla
ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato
alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono
insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo

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nonché la carenza e l’illogicità della motivazione quanto all’elemento soggettivo

hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o
di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine
giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e
altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv,
251760).
Se questa, dunque, è l’ottica ermeneutica che deve orientare il giudizio della
Corte di legittimità, le censure che il ricorrente muove alla sentenza impugnata
risultano inammissibili; ed invero, dietro l’apparenza di un errore di diritto o di

medesime risultanze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito (con specifico
riguardo all’elemento soggettivo del reato), sollecitandone una valutazione più
favorevole.
Il che, come riportato, non è consentito.
A ciò si aggiunga che la Corte di appello ha confermato il giudizio di
responsabilità in forza di una motivazione logica, congrua e priva di
contraddizioni, sorretta da adeguato percorso argomentativo. In particolare, con
riguardo all’elemento soggettivo del reato, la sentenza ha aderito al costante
indirizzo di questa Corte – affermato con riguardo al delitto di cui all’art.

10-bis,

d. Igs. n. 74 del 2000, ma applicabile anche alla fattispecie in oggetto, attesa la
perfetta assimilabilità delle due ipotesi – secondo cui l’imputato può invocare la
assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione
della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di
allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della
crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di
fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in
concreto (Sez. 3, n. 20266 dell’8/4/2014, Zanchi, Rv. 259190). Occorre, cioè, la
prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse
necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni
tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli
per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza
di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il
debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e
ad egli non imputabili (Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, Mercutello, Rv. 258055);
prova ancor più rigorosa allorquando si consideri che l’i.v.a. è costituita da una
somma che l’interessato ha comunque ricevuto, e che avrebbe dovuto
accantonare in vista della scadenza del debito erariale.
Circostanza in fatto, non dedotta nel presente ricorso e, peraltro, neppure
ravvisabile nell’atto di appello.

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un difetto motivazionale, il Longhi di fatto invoca una diversa lettura delle

Il gravame, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della
sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a
norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché
quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende,

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2015

Il Consigliere estensore

Il Presidente

equitativamente fissata in euro 1.000,00.

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