Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29887 del 23/06/2016


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 29887 Anno 2016
Presidente: DAVIGO PIERCAMILLO
Relatore: SGADARI GIUSEPPE

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:
Casali Sandro Guglielmo, nato a Viadana il 02/01/1975,
avverso la sentenza del 04/11/2014 della Corte di Appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione della causa svolta dal consigliere Giuseppe Sgadari;
udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale
Roberto Aniello, che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio per
prescrizione;
udito il difensore, avv. Claudio Mazzoni, in sostituzione dell’avv. Cesare Barzoni,
che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso e chiedendone l’accoglimento;

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma
della sentenza del Tribunale di Mantova, condannava l’imputato per il reato di
truffa aggravata ex art. 61 n. 11 cod.pen., così diversamente qualificando il

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Data Udienza: 23/06/2016

reato originariamente contestato di appropriazione indebita e riduceva la pena
inflitta in primo grado, confermando le statuizioni civili.
La Corte riteneva provato che l’imputato, quale agente di una concessionaria di
auto, con artifici e raggiri consistiti nel far credere alla persona offesa Kruezi
Blerim che avrebbe saldato le sue pendenze con una società di finanziamento
attraverso la vendita di un veicolo di proprietà del medesimo, si appropriava
della somma di 7.000 euro, consegnata dal compratore nelle mani di tale

avrebbe curato la trattativa per la vendita dell’automobile.
2.Ricorre per cassazione il Casali, a mezzo del suo difensore, deducendo:
1) violazione di legge e nullità della sentenza impugnata e di quella di primo
grado per difetto di correlazione tra l’accusa contestata e la sentenza, dal
momento che il ricorrente sarebbe stato condannato per un fatto diverso da
quello indicato nel capo di imputazione, laddove non si faceva alcun riferimento
alla posizione dello Zanellini come soggetto che aveva materialmente intascato la
somma consegnatagli dal compratore dell’autovettura, così evidenziandosi che il
Casali non avrebbe partecipato a nessuna fase della vendita dell’autovettura e
non avrebbe ricevuto alcuna somma;
2)

vizio della motivazione avendo la Corte ritenuto la responsabilità del

ricorrente in assenza di prova che egli avesse intascato la somma consegnata
allo Zanellini in ragione di un preventivo accordo fraudolento tra i due ai danni
della persona offesa;
3) l’intervenuta prescrizione del reato, maturata il 13 gennaio del 2015, con
revoca delle statuizioni civili per non essere stato provato il danno.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è manifestamente infondato.
1.In ordine al primo motivo, la mancata correlazione tra l’accusa contestata ed il
fatto per il quale il ricorrente è stato condannato nei due gradi di giudizio
(diversamente qualificato nel secondo come truffa e non come appropriazione
indebita), già esclusa dalla Corte di Appello, non si rileva dalla lettura del capo di
imputazione.
Laddove la condotta dell’imputato, conformemente a quanto è poi risultato
dall’istruttoria dibattimentale, è stata tratteggiata con dovizia di particolari;
descrivendosi la qualità rivestita ed il tipo di rapporti che egli aveva intrattenuto
con la persona offesa – alla quale aveva inizialmente venduto l’autovettura come
agente di una concessionaria – l’evoluzione di tali rapporti quando la vittima si
era nuovamente recata da lui avendo difficoltà ad onorare le rate del
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Zanellini Stefano, persona indicata dall’imputato alla vittima come colei che

finanziamento; la proposta di vendita del mezzo al fine di estinguere il
finanziamento, l’appropriazione del ricavato di tale vendita senza mantenere
l’impegno preso.
Avverso questa contestazione, l’imputato ha avuto modo di difendersi appieno,
attraverso il suo difensore di fiducia, indipendentemente dal fatto che nel capo di
imputazione non fosse contemplata l’ulteriore circostanza che egli, non
partecipando alla fase finale della vicenda, non si fosse direttamente appropriato

attraverso lo Zanellini.
Una circostanza da ritenersi marginale rispetto all’impalcatura accusatoria nel
suo insieme e non lesiva delle prerogative difensive, alla cui tutela sono
finalizzate le norme che in ricorso si assume essere state violate.
Questa Corte ha affermato (ed il Collegio condivide l’assunto) che si ha
mancata correlazione tra fatto contestato e sentenza – o nullità della sentenza
per difetto di contestazione – quando vi sia stata una immutazione tale da
determinare uno “stravolgimento” dell’imputazione originaria: quando il fatto
ritenuto in sentenza si trovi cioè, rispetto a quello contestato, in rapporto di
ontologica eterogeneità o incompatibilità, nel senso che viene a realizzarsi una
vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali
dell’addebito nei confronti dell’imputato posto in tal modo di fronte ad un fatto
“nuovo”, rispetto al quale non ha alcuna possibilità di effettiva difesa. La
modifica dell’imputazione di cui all’art. 516 cod. proc. pen. presuppone, invece,
un fatto in relazione al quale le emergenze dibattimentali rendano necessaria
soltanto una puntualizzazione della ricostruzione degli elementi essenziali del
reato o dei suoi riferimenti spazio-temporali. La nozione di fatto “diverso”,
adottata nella citata norma, deve essere intesa in senso materiale e
naturalistico, con riferimento non solo al fatto storico che, pur integrando una
diversa imputazione, resti invariato, ma anche al fatto che abbia connotati
materiali parzialmente difformi da quelli descritti nel decreto che dispone il
giudizio; mentre la locuzione “fatto nuovo non enunciato nel decreto che
dispone il giudizio”, di cui al successivo art. 518, concerne un accadimento del
tutto difforme ed autonomo, per le modalità essenziali dell’azione o per
l’evento, rispetto a quello originariamente contestato.
Non è sufficiente, quindi, un qualsiasi mutamento dei caratteri intrinseci ed
estrinseci del reato, come quelli attinenti alla esecuzione del reato (Cass. Sez.
1^ sent. 9958 del 27.10.1997 dep. 5.11.1997 rv 208935; Cass. Sez. 2 sent. n.
3325 del 5.4.1991 dep. 23.3.1992 rv 190759).
2.Quanto al secondo motivo, le sentenze di primo e secondo grado – il cui
contenuto accusatorio comune si fonde – hanno valorizzato, con motivazione
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della somma compendio di truffa ma l’avesse ricevuta in un secondo tempo

immune da difetti logico-giuridici rilevabili in questa sede, diversi elementi
univocamente idonei a provare la responsabilità del ricorrente, quali il fatto che
egli si fosse impegnato con la persona offesa a procacciare un compratore per
la vendita dell’automobile, promettendo altresì che avrebbe estinto il
finanziamento; che egli ciò non fece in un secondo tempo, rendendosi
irreperibile e non offrendo mai, neanche in giudizio, alcuna ricostruzione
alternativa ed alcuna spiegazione alla vittima; che il Casali aveva

accordo al titolare della concessionaria; che aveva proposto lo Zanellini come
persona che avrebbe accompagnato la persona offesa a concludere l’affare con
il terzo compratore e che proprio lo Zanellini aveva avuto i contatti con costui;
che aveva adottato in altra occasione precedente identica condotta truffaldina.
Di fronte a tali elementi di univoco segno, il ricorrente muove censure di merito
e di illogicità della motivazione che non si conformano agli insegnamenti della
giurisprudenza di legittimità.
Dovendosi sottolineare che nel momento del controllo di legittimità, la Corte di
cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente
la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la
giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente. (Cass. Sez.

5^ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745, Cass., Sez. 2^
sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).
Inoltre, secondo le Sezioni Unite di questa Corte «L’indagine di legittimità sul
discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il
sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa
volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di
verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è
avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile,
deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”,
dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di
macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e
considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non
espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione
adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del
convincimento.». (Cass. Sez. Un. sent. n. 24 del 24.11.1999 dep. 16.12.1999

rv 214794).
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espressamente invitato la persona offesa a non riferire alcunché del loro

3. Del tutto generico si rivela, infine, il motivo di ricorso volto a censurare la
quantificazione del risarcimento del danno alla parte civile, non precisandosi
alcunchè in proposito pur a fronte della specifica indicazione di un compendio
delittuoso pari ad euro 7.000 siccome provato in giudizio.
4. Quanto alla eccezione di prescrizione, è lo stesso ricorrente ad indicare che
essa è maturata il 13.1.2015.
Per il che, essendo intervenuta successivamente alla emissione della sentenza

anche sull’eccezione in esame, atteso che, secondo costante giurisprudenza
della Corte di cassazione, l’inammissibilità del ricorso per cassazione
conseguente alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di
un valido rapporto di impugnazione e preclude la possibilità di rilevare e
dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., ivi
compreso l’eventuale decorso del termine di prescrizione nelle more del
procedimento di legittimità (sez.2, n.28848 del 08/05/2013, Ciaffoni; sez.4, n.
18641 del 20/01/2004, Tricorni; Sez.U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca).
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro rnillecinquecento/00
alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso
ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1500,00 alla Cassa delle Ammende.
Così deliberato in Roma, udienza pubblica del 23.06.2016.
Il Consigliere estensore
Giuseppe Sgadari
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Il Presidente
Piercamillo Davigo

di secondo grado, l’inammissibilità degli altri motivi riverbera i suoi effetti

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