Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29833 del 13/03/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 29833 Anno 2015
Presidente: NAPPI ANIELLO
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
D’Angelo Maria Teresa, nata a Patti il 14.7.1960, e da D’Angelo
Antonino, nato a San Fratello il 5.5.1963, avverso la sentenza
pronunciata dalla corte di appello di Messina il 28.11.2007;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. Mario Fraticelli, che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso, per carenza di interesse;
udito per la costituita parte civile, l’avv. Maria Francesca Fera, del
Foro di Roma, in sostituzione del difensore di fiducia, avv. Alvaro
Riolo, che si è associata alla richiesta del p.g., depositando
conclusioni scritte e nota spese.

Data Udienza: 13/03/2015

FATTO E DIRITTO

Messina in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di
Patti, sezione distaccata di S. Agata Militello, aveva condannato
D’Angelo Maria Teresa e D’Angelo Antonino alla pena ritenuta di
giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato in ordine
al delitto di cui agli artt. 110, 392, c.p., commesso in danno di
Celsa Teresa e Bordonaro Giovanni, concedendo ad entrambi gli
imputati il beneficio della sospensione condizionale della pena
inflitta, qualificava diversamente il fatto, ex artt. 110 e 610, c.p.,
rideterminando in senso più favorevole ai rei le statuizioni sulla
pena, in quanto, ferme restando l’entità della sanzione inflitta
(mesi due di reclusione) e la sospensione condizionale della pena,
agli stessi veniva concesso anche il beneficio della non menzione
della sentenza di condanna previsto dall’art. 175, c.p.,
confermando nel resto la sentenza impugnata.
2.

Avverso la sentenza di secondo grado, di cui chiedono

l’annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione
entrambi gli imputati, a mezzo del loro difensore, avv. Francesco
Cacciola, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, in
quanto la corte territoriale ha omesso di considerare che la
condotta posta in essere dagli imputati integra la diversa
fattispecie delittuosa di cui all’art. 392, c.p.: questi ultimi, infatti,
nell’apporre all’ingresso della piccola strada di loro proprietà un
lucchetto, che conduce al retro dell’abitazione dei signori Celsa e
Bordonaro, hanno esercitato, senza fare ricorso al giudice, il

2

1. Con sentenza pronunciata il 28.11.2007 la corte di appello di

proprio diritto su quella strada contro le persone offese, che non
avevano il diritto di transitarvi.
3. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
4.

Ed invero, costituisce principio generale in tema di

interesse, come espressamente previsto dall’art. 568, co. 4,
c.p.p..
L’interesse all’impugnazione, rappresenta, dunque, una condizione
necessaria per l’esercizio del relativo diritto, come si evince anche
dalla sanzione processuale prevista dall’ordinamento nel caso in
cui l’impugnazione sia proposta da chi non ha interesse,
rappresentata dalla inammissibilità dell’impugnazione medesima,
ai sensi dell’art. 591, co. 1, lett. a), c.p.p.
Tale interesse sussiste solo nei casi in cui il soggetto legittimato a
proporre impugnazione, sia essa parte privato o parte pubblica,
possa ottenere, in caso di accoglimento del gravame, una qualche
concreta utilità ovvero una situazione pratica più vantaggiosa di
quella realizzata dal provvedimento impugnato.
Deve, pertanto, escludersi l’interesse ad impugnare nel caso in cui
il soggetto legittimato agisca al fine di ottenere una diversa
qualificazione giuridica del fatto oggetto della decisione
impugnata, attraverso un gravame il cui accoglimento sia inidoneo
a produrre un risultato concretamente più vantaggioso per il
soggetto stesso rispetto a quanto statuito nel provvedimento
impugnato (cfr., in questo senso, Cass., sez. V, 28.11.2013, n.
7468, rv. 258984; Cass., sez. V, 21.12.2010, n. 7064, rv.
249947; Cass., sez. V, 14.12.2011, n. 12139, rv. 252164; Cass.,
sez. VI, 11.12.2008, N. 48488, RV. 242429).

3

impugnazioni che per proporre impugnazione è necessario avervi

Può, dunque, affermarsi che l’interesse alla proposizione della
impugnazione previsto dall’art. 568, co. 4, c.p.p., deve essere
concreto e rilevante, nel senso innanzi indicato, non potendosi
individuare nella pretesa di una formale applicazione della legge,

della qualificazione giuridica del fatto senza poter ottenere un
risultato utile per il soggetto legittimato a proporla, non è
rappresentativa di un interesse giuridicamente rilevante e va, per
tale ragione, dichiarata inammissibile, ai sensi dell’art. 591, co. 1,
lett. a), c.p.p.
Orbene il ricorso proposto dagli imputati appartiene proprio alla
categoria delle impugnazioni proposte da soggetti legittimati, ma
privi di un interesse concreto ad impugnare, in quanto la sentenza
della corte territoriale, pur mutando la qualificazione giuridica del
fatto da un reato meno grave (esercizio arbitrario delle proprie
ragioni) ad uno più grave (violenza privata), non ha arrecato
alcun concreto pregiudizio agli imputati; anzi, sotto il profilo delle
statuizioni attinenti alla pena, ha inciso favorevolmente sulla loro
posizione, in quanto, invariata l’entità della sanzione detentiva
inflitta in primo grado, al beneficio della sospensione della pena si
è aggiunto quello della non menzione della condanna ai sensi
■..

dell’art. 175, c.p.
Evidente, dunque, alla luce dei principi innanzi indicati il difetto di
un interesse concreto ad ottenere una formale applicazione della
legge penale, attraverso il mutamento della qualificazione
giuridica del fatto, che nessun risultato utile produrrebbe per gli
imputati, che, sul punto, peraltro, non hanno fornito nessuna
indicazione sul vantaggio concreto che potrebbero conseguire in
caso di accoglimento del gravame.

4

con la conseguenza che l’impugnazione che tenda al mutamento

Siffatta conclusione prescinde dalla valutazione sulla questione di
diritto prospettata, che non appare infondata.
In relazione ad una fattispecie concreta assimilabile a quella
oggetto della decisione della corte territoriale, in cui l’imputato

costituente l’unico accesso al garage della persona offesa, per
impedire a quest’ultima, che non aveva alcun diritto al riguardo, di
transitarvi, infatti questa stessa sezione ha affermato il
condivisibile principio, secondo cui il reato di esercizio arbitrario
delle proprie ragioni si differenzia da quello di violenza privata che ugualmente contiene l’elemento della violenza o della
minaccia alla persona – non nella materialità del fatto che può
essere identica in entrambe le fattispecie, bensì nell’elemento
intenzionale, in quanto nel reato di cui all’art. 392 cod. pen.
l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con
la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa
giuridicamente, pur non richiedendosi che si tratti di pretesa
fondata. Occorre, per altro verso, ai fini dell’integrazione del reato
di cui all’art. 392 cod. pen., accertare che la condotta rivesta i
connotati dell’arbitrarietà, la quale non sussiste qualora la
violenza sulle cose sia esercitata al fine di difendere il diritto di
possesso in presenza di un atto di turbativa nel godimento della
“res”, sempre che l’azione reattiva avvenga nell’immediatezza di
quella lesiva del diritto, non si tratti di compossesso e sia
impossibile il ricorso immediato al giudice, sussistendo la
necessità impellente di ripristinare il possesso perduto o il pacifico
esercizio del diritto di godimento del bene (cfr. Cass., sez. V,
16.5.2014, n. 23923, rv. 260584)

5

aveva parcheggiato i propri veicoli nel cortile di sua proprietà

5. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso di cui in
premessa va, dunque, dichiarato inammissibile, con condanna dei
ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., in solido, al pagamento
delle spese del procedimento ed, in favore della cassa delle

euro, tenuto conto dei profili di colpa relativi alla evidente
inammissibilità dell’impugnazione (cfr. Corte Costituzionale, n.
186 del 13.6.2000), nonché al rimborso delle spese rifuse dalle
parti civili liquidate in complessivi euro 1800,00 per onorari.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro
1000,00 in favore della cassa delle ammende, nonché al rimborso
delle spese rifuse dalle parti civili liquidate in complessivi euro
1800,00 per onorari.
Così deciso in Roma il 13.3.2015.

ammende, di una somma che si ritiene equo fissare in 1000,00

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