Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29757 del 11/06/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 29757 Anno 2014
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: PEZZELLA VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DI MAGGIO ANTONIO N. IL 25/12/1961
avverso la sentenza n. 3425/2012 CORTE APPELLO di ROMA, del
24/09/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 11/06/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. VINCENZO PEZZELLA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per ‘tiSt 9 c.Z. t:t
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Data Udienza: 11/06/2014

RITENUTO IN FATTO
1.

La Corte di Appello di Roma, pronunciando nei confronti dell’odierno ri-

corrente, DI MAGGIO ANTONIO, con sentenza del 24.09.2012, confermava la
sentenza emessa dal Tribunale di Roma Sezione distaccata di Ostia il
23.11.2011, condannandolo al pagamento delle maggiori spese del grado.
Il Tribunale di Roma Sezione distaccata di Ostia, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato Di Maggio Antonio colpevole del reato previsto dall’art. 73
DPR 309/90, perché fermato in strada e perquisito veniva trovato in possesso

ritagli circolari di cellophane; estesa la perquisizione a casa sua, venivano trovati
29 involucri di cellophane termosaldato, contenenti cocaina per un totale complessivo di gr. 15,69, con un principio attivo di gr. 5,662 di sostanza dalla quale
potevano ricavarsi 38 dosi singole. Venivano, inoltre, rinvenuti 630 euro, ritagli
circolari e buste dalle quali detti ritagli erano stati ricavati, nastro adesivo per
pacchi e un taglierino con la lama intrisa di sostanza stupefacente.
Riconosciuta l’ipotesi attenuata (tale essendo all’epoca) di cui all’art. 73 V
comma DPR 309/90 e le circostanze attenuanti generiche, con la diminuente
speciale per il rito, il giudice di primo grado aveva condannato il Di Maggio alla
pena di anni 1 di redusione ed C 4.000,00 di multa oltre al pagamento delle spese processuali, con confisca e la distruzione della sostanza stupefacente, delle
buste e dei ritagli in cellophane, del taglierino e del nastro adesivo in sequestro,
nonché dissequestro in favore dell’imputato del danaro. Nulla disponeva
sull’agenda elettronica in sequestro. In Roma (Ostia) il 29.10.2011.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, con
l’ausilio del proprio difensore, l’imputato, deducendo l’unico motivo di seguito
enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto
dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
• Carenza ed illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod.

della somma, contante, di C 270,00, suddivisa in banconote di vario taglio e di

proc. pen.
Il ricorrente deduce che la Corte avrebbe omesso di valutare l’istanza assolutoria promossa sia in primo grado che in appello.
Sostiene di aver dichiarato, fin dall’interrogatorio di convalida, di essere assuntore di cocaina nella misura di 1-2 grammi al giorno e che il reddito familiare
era di circa 2.200-2.300 euro mensili.
Lo stesso imputato avrebbe richiesto il giudizio abbreviato condizionato
all’acquisizione dei documenti relativi agli esiti ematici dai quali emergeva la circostanza che fosse assuntore di cocaina, alla certificazione reddituale e l’esame

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della compagna dello stesso imputato che avrebbe riferito dell’effettivo abuso di
cocaina e dello stato reddituale.
Il Giudice di primo grado avrebbe ritenuto provata la responsabilità penale
dell’imputato omettendo di dare rilievo alla documentazione addotta dalla difesa.
Il ricorrente in sede di gravame ha riproposto la propria tesi evidenziando
che il giudizio di responsabilità non poteva condividersi sulla sola circostanza che
lo stupefacente rinvenuto era suddiviso in involucri termosaldati.
Rilevava ancora l’assenza di strumenti per la suddivisione e l’estraneità ad

Deduce, quindi, il ricorrente che il vaglio critico richiesto con il gravame non
vi sarebbe stato.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi sopra illustrati sono manifestamente infondati e pertanto il
proposto ricorso va dichiarato inammissibile.

2. Va premesso che non sussistono nel caso in esami problemi di determinazione della pena in relazione al nuovo testo dell’art. 732 V co. Dpr. 309/90
come sostituito dal decreto legge 20.3.2014 n. 36 conv. in I. 16.5.2014 n.
79secondo cui: “5. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo, che per i mezzi, le modalità o le
circostanze dell’azione owero per la qualità e quantità delle sostanze è di lieve
entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della
multa da euro 1032 a euro 10.329”.
Si tratta, infatti, senz’altro di norma più favorevole rispetto a quella previgente (che prevedeva una pena detentiva 1 a 5 anni e, prima della novella del
2013, da 1 a 6 anni), ma va evidenziato che nel caso in esame siamo in presen-

ambienti criminali operanti nel traffico degli stupefacenti.

za di droghe c.d. pesanti (cocaina) e che la pena base da cui il giudice è partito è
ricompresa nella “forbice” edittale anche della nuova norma.

3. Va confutato il motivo di gravame secondo cui la sentenza della Corte
territoriale avrebbe motivato omettendo di dare rilievo processuale alla documentazione addotta dalla difesa a sostegno della richiesta di assoluzione.
In maniera logica e congrua, e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità, i giudici romani danno conto del quadro probatorio emerso nel corso
del giudizio (in particolar modo con ritrovamento nella disponibilità del Di Maggio
dello stesso cellophane utilizzato per il confezionamento delle singole dosi, in
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quantità inferiori a quella che l’imputato ha dichiarato di consumare giorittalmente) che ha consentito di pttvenire all’affermazione di penale responsabilità
del Di Maggio, sul presupposto che lo stupefacente rinvenuto fosse destinato,
almeno in parte, alla vendita.
La Corte territoriale dà anche atto di come non modifichino tale assunto
né il mancato rinvenimento di sostanza da taglio, poiché la stessa poteva essere
stata utilizzata tutta, né l’assenza di legami tra il Di Maggio e “gli ambienti di
spessore delinquenziale ben potendo lo stesso limitarsi ad uno spaccio occasio-

In ordine alle proposte doglíanze va peraltro ricordato che siamo di fronte ad
una doppia conforme affermazione di responsabilità e come il giudice di secondo
grado, nell’effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si
regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle
questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima
giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici,
non specificamente e criticamente censurate.
In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo
grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un
risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento
per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di
primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze
dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l’univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte Sez. 2 n. 34891 del
16.05.2013, Vecchia, rv. 256096; conf. sez. III, n. 13926 del 1.12.2011, dep.
12.4. 2012, Valerlo, rv. 252615: sez. II, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2.
1994, Albergamo ed altri, rv. 197250).
Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e
a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo
invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in
modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver
tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata
(cfr. sez. 6, n. 49970 del 19.10.2012, Muià ed altri rv.254107).
La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini,
se il giudice d’appello, come nel caso che ci occupa, abbia confutato gli argo4

nale nella propria cerchia di amici.

menti che costituiscono l’ossatura” dello schema difensivo dell’imputato, e non
una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera,
richiamare alcuni passaggi dell’iter argomentativo della decisione di primo grado,
quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez.
6, n. 1307 del 26.9.2002, dep. 14.1.2003, Delvai, rv. 223061).
E’ stato anche sottolineato di recente da questa Corte che in tema di ricorso
in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime

che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non
siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di dedsività, non possono
dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della
motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati
dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni
elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza
logica dell’impianto argomentativo della motivazione (sez. 2, n. 9242
dell’8.2.2013, Reggio, rv. 254988).

4. Va aggiunto che quelli che in ricorso vengono rubricati come vizi motiva-

zionali appaiono in realtà censure di fatto.
Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della
motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la
oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le
varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del
6.6.2006).
Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per
essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu °culi, dovendo il sindacato di legittimità al
riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le
minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del
convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999,
Spina, rv. 214794).
Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606
c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene

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incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione,

né alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è
circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti
che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della
motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013,
Badagliacca e altri, rv. 255542).
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della deci-

Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di
andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E
ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc.
pen. come modificato dalla I. 20.2.2006 n. 46. Il giudice di legittimità non può
procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del
contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via
esclusiva al giudice del merito.
Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una
versione alternativa del fatto (il possesso dello stupefacente, pur in grande quantità, per uso esclusivamente personale), senza indicare specificamente quale sia
il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità
e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.
Il vizio della manifesta illogidtà della motivazione deve essere evincibile dal
testo del provvedimento impugnato. Com’è stato rilevato nella citata sentenza
21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica “rispetto a sé stessa”,
cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un
ennesimo giudice del fatto.
Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della motivazione anche attraverso gli “atti del processo” costituisce invero il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto “travisamento della
prova” che è quel vizio in forza del quale il giudice di legittimità, fungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove),
prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all’interno
della decisione.

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sione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.

In altri termini, vi sarà stato “travisamento della prova” qualora il giudice di
merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad
esempio, un documento o un testimone che in realtà non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse
dell’imputato). Oppure dovrà essere valutato se c’erano altri elementi di prova
inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma -occorrerà ancora tibadino- non spetta comunque a questa Corte Suprema “rivalutare” il modo con

ché attraverso la verifica del travisamento della prova.
Per esserci stato “travisamento della prova” occorre che sia stata inserita nel
processo un’informazione rilevante che invece non esiste nel processo oppure si
sia omesso di valutare una prova decisiva ai fini della pronunzia.
In tal caso, però, al fine di consentire di verificare la correttezza della motivazione, va indicato specificamente nel ricorso per Cassazione quale sia l’atto
che contiene la prova travisata o omessa.
Il mezzo di prova che si assume travisato od omesso deve inoltre avere carattere di decisività. Diversamente, infatti, si chiederebbe al giudice di legittimità
una rivalutazione complessiva delle prove che, come più volte detto, sconfinerebbe nel merito.

5. Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano
manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza
della Corte d’Appello di Roma alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.
Il ricorrente non contesta il travisamento di una specifica prova, ma sollecita
a questa Corte una diversa lettura dei dati processuali non consentito in questa
sede di legittimità.

cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giac-

I motivi dedotti, dunque, non paiono idonei a scalfire l’impianto motivazionale della sentenza impugnata, in cui la Corte territoriale affronta con argomentazioni esaustive e logicamente plausibili le questioni propostele.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen,
non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della
sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo

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ì

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso in Roma 1 111 giugno 2014
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Il Presidente

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