Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29554 del 17/06/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 29554 Anno 2015
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
su ricorso proposto da:
1.

FEDELE MICHELANGELO nato il 28/10/1945;

2.

ZAMBARDINO GIUSEPPINA, nata il 19/03/1957;

3.

FEDELE ILARIA nata il 15/07/1981;

4.

FEDELE ALESSIO nato il 23/03/1988;

avverso l’ordinanza del 18/12/2014 del Tribunale del Riesame di
Livorno;
Visti gli atti, l’ordinanza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago;
udito il Procuratore Generale in persona del dott. Sante Spinaci che ha
concluso per il rigetto;
udito il difensore avv.to Marco Talini che ha concluso per l’accoglimento
del ricorso
FATTO
1. Con ordinanza del 18/12/2014, il Tribunale del Riesame di
Livorno confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal
giudice per le indagini preliminari del tribunale della medesima città

1

Data Udienza: 17/06/2015

nella parte in cui aveva disposto il sequestro su una serie di immobili
riconducibili, per diritto di proprietà o sul rilievo di una fattuale
disponibilità a FEDELE Michelangelo – indagato per usura aggravata pur a fronte della loro formale intestazione ai congiunti Zambardino

2. Avverso la suddetta ordinanza, FEDELE Michelangelo,
ZAMBARDINO Giuseppina, FEDELE Alessio e FEDELE Ilaria, hanno
proposto un unico ricorso redatto a mezzo del comune difensore,
deducendo i seguenti motivi:
2.1. VIOLAZIONE DELL’ART. 178 LETT C) COD. PROC. PEN.: i ricorrenti
FEDELE Alessio e FEDELE Ilaria hanno eccepito la nullità dell’ordinanza,
in quanto, erroneamente, non era stato loro concesso di partecipare
all’udienza sul presupposto che essi avevano rinunciato alla richiesta di
riesame avverso un sequestro probatorio che era stato revocato. In
realtà, il tribunale non si era avveduto che essi avevano continuato a
coltivare l’interesse a partecipare all’udienza non avendo affatto
rinunciato al ricorso avverso il sequestro preventivo: «Allorchè Ilaria ed
Alessio Fedele sono comparsi in udienza, il Pubblico Ministero,
evidentemente equivocando sulla portata della loro rinuncia, ha
obiettato che essi non potevano parteciparvi in quanto rinunzianti alle
rispettive richieste di riesame. Il difensore nulla osservava sul punto ed
il tribunale, incorrendo nello stesso equivoco, non consentiva ai due
ricorrenti di partecipare all’udienza camerale».
2.2. VIOLAZIONE DELL’ART. 12 SEXIES D.L. 306/1992 sotto il profilo
della sproporzione: il ricorrente Fedele Michelangelo, ha premesso che il
tribunale, nell’ordinanza impugnata, aveva positivamente riconosciuto,
così come era stato dimostrato nell’istanza di riesame, che egli era
«effettivamente titolare di un ragguardevole patrimonio mobiliare ed
immobiliare»

legittimamente accumulato nel corso degli anni:

ciononostante, il tribunale aveva affermato che, ai fini della valutazione
della sproporzione, rispetto ai beni ulteriori e diversi sequestrati, il
suddetto patrimonio sarebbe irrilevante. Il ricorrente contesta la
conclusione alla quale è pervenuto il tribunale sostenendo che la norma

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Giuseppina (moglie), Fedele Alessio e Fedele Ilaria (figli).

intende colpire l’accumulazione che non trovi giustificazione nel reddito
e nelle disponibilità economiche legittime del soggetto, sicchè sarebbe
irragionevole ed incostituzionale

«laddove pretendesse di ignora re,

come pure vorrebbe il tribunale, il fatto che la persona proposta, prima
degli acquisti sottoposti a verifica, possieda, come nel caso di Fedele e

ed assolutamente sufficienti, anzi sovrabbondanti, rispetto alle
acquisizioni analizzate. Quindi la sproporzione non può essere
circoscritta al mero reddito dichiarato ai fini delle imposte, ma deve
essere verificata anche alla luce dell’attività economica del soggetto,
che è concetto, a nostro parere, sufficientemente ampio da
ricom prendere le disponibilità economiche che siano entrate nel
patrimonio in modo legittimo. Nel nostro caso, come si è visto,
Michelangelo Fedele e la moglie, negli anni precedenti a quelli oggetto di
disamina da parte della Guardia di Finanza, avevano legittimamente
accumulato un patrimonio consistente, anche in danaro contante (che
derivava dall’incasso dei titoli di stato che a più riprese erano stati loro
restituiti dall’A.G.), assolutamente capace di consentir loro di investire in
affari immobiliari somme ben maggiori di quelle che via via entravano
come fonti di reddito pro tempore
2.3. VIOLAZIONE DELL’ART. 12 SEXIES D.L. 306/1992 sotto il profilo
della necessità di verificare la congruità per annualità e non per singola
acquisizione: il ricorrente sostiene che il tribunale non avrebbe
rispettato il principio di diritto indicato dalle SSUU n° 920/2003,
Montella, secondo il quale la congruità dev’essere verificata
specificamente per ogni singolo acquisto. In ogni caso, ove fosse
corretto il criterio della valutazione su base annuale, l’ordinanza
dovrebbe comunque essere annullata sia perché avrebbe applicato,
relativamente all’anno 2008, il criterio più analitico del rapporto tra
disponibilità e singolo acquisto, sia perché, erroneamente, era stato
escluso che potessero essere imputate fra le entrate dell’anno
successivo le plusvalenze dell’anno preso in considerazione.

«Se

nell’anno 2006, tanto per fare un esempio, le fonti [rectius: entrate]
sono risultate pari ad C 368.389,16, mentre gli impieghi [rectius: uscite]

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Zambardino, danari dísinvestiti ed in contanti, legittimamente acquisiti

sono risultati pari ad C 283.704,49, ciò significa che si è risparmiato la
somma di C 84.684,67. Tale somma, pertanto, si è resa disponibile per
essere impiegata l’anno successivo, e, quindi, secondo il noto criterio
parametrale, deve essere addizionata alle fonti calcolate per l’anno
2007, pari ad C 290.904,12; quindi, per il 2007, si dovevano indicare

In questo modo, restando all’esempio, si doveva affermare che vi era
congruità anche per il successivo anno 2007, posto che gli impieghi, per
tale periodo, sono stati quantificati in C 365.656,68. Anche in questo
caso, cioè per l’anno 2007, si sarebbe dovuto rilevare un avanzo di circa
C 10.000,00 che andava aggiunto alle fonti dell’anno successivo»
(motivo sub 4).
2.4. VIOLAZIONE DELL’ART. 12 SEXIES D.L. 306/1992 sotto il profilo
della corretta individuazione dei beni da sottoporre a confisca: il
ricorrente ha premesso che, secondo il Tribunale, laddove vi sia
sproporzione, tutti i beni acquisiti nell’anno di riferimento, anche quelli
per i quali vi sarebbe piena congruità, debbano essere sequestrati. Il
ricorrente, ha obiettato che «la norma non prevede la confisca di tutti í
beni acquistati dal prevenuto se vi sia sproporzione tra il loro valore ed
il reddito ovvero l’attività economica del titolare. Prevede, invece,
appropriatamente, la confisca soltanto di quei beni che siano in valore
sproporzionato al reddito o all’attività economica. Pertanto, se il
proposto risulta incongruo di 100 si potranno sequestrare beni per il
valore di 100, ma non di 1.000, posto che í beni acquistati per il
residuo valore di 900 trovano giustificazione e coerenza con l’attività
economica ovvero col reddito della persona. La ratio dell’art. 12 sexies
del D.L. 306/1992, del resto, ove si voglia conservare a tale norma una
qualche parvenza di legittimità costituzionale, è quella di determinare
un’inversione dell’onere della prova, producendo una presunzione di
illecita acquisizione di tutti quei beni che non trovino riscontro nel
reddito o nell’attività economica, a prescindere dal dato temporale del
loro acquisto e dal loro collegamento con il reato contestato»: il che
troverebbe conferma nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità.

fonti per C 290.904,12 più C 84.684,67, per un totale di C 375.588,79.

3. Il Pubblico Ministero ricorrente ha depositato una memoria con
la quale ha contestato e confutato gli argomenti addotti dai ricorrenti.
DIRITTO

a)

non vi è alcuna contestazione sul

1. Innanzitutto, al fine di meglio delimitare l’oggetto del presente
L
ricorso, v osservato che:
fumus delicti, da parte

dell’unico indagato Fedele Michelangelo;
b)

non vi è alcuna contestazione sulla circostanza che i beni

sequestrati siano nella giuridica disponibilità dell’indagato Fedele
Michelangelo, e cioè anche i beni formalmente intestati ai propri
congiunti nonché ricorrenti. Sul punto, infatti, non una sola parola è
stata spesa dai terzi sequestrati (Zambardino, Fedele Alessio e Fedele
Ilaria) avverso la motivazione con la quale il Tribunale ha stabilito che i
beni sequestrati sono, in realtà, nell’esclusiva disponibilità dell’indagato
(pag. 7 ordinanza impugnata);
c) la suddetta conclusione, consente, quindi, di ritenere carenti di
legittimazione ed interesse, quantomeno i terzi sequestrati Fedele
Alessio e Fedele Ilaria, proprio perché, dovendosi considerare i beni
sequestrati nella disponibilità dell’indagato, solo costui ha interesse a
far valere le proprie ragioni in ordine ai presupposti sulla sequestrabilità
dei beni;
d) infine, la doglianza dedotta dai soli Fedele Alessio e Fedele
Ilaria, in ordine alla violazione dell’art. 178 lett. c) cod. proc. pen.
(supra § 2.1.), va ritenuta manifestamente infondata per le ragioni di
seguito indicate.
Dal verbale dell’udienza tenutasi il 18/12/2014, non risulta da
nessuna parte che il tribunale, come hanno sostenuto i ricorrenti, non
aveva loro concesso di partecipare all’udienza. Al contrario, ad un certo
punto, si trova scritto che «il difensore fa presente che questa mattina,
nel corso della discussione sono comparsi Fedele Alessio e Fedele Italia.
Il difensore intende far presente che il Pubblico Ministero ha osservato
che il riesame non interessava più le loro posizioni per le vicende che

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/

stava illustrando (avvenuto dissequestro) ed essi sono usciti»: quindi,
per come risulta dal suddetta verbalizzazione, uscirono dall’aula
d’udienza per loro libera scelta, non perché invitati a farlo dal tribunale.
A tutto concedere, poi, non risulta neppure che il difensore abbia
sollevato e tempestivamente dedotto la pretesa nullità (di natura

2. Le doglianze di cui ai §§ 2.2. – 2.3. illustrate in parte
narrativa, e dedotte dal solo ricorrente Fedele Michelangelo, ruotano,
tutte, intorno al seguente argomento: il tribunale, al fine di stabilire se
gli acquisti dei beni immobili sequestrati fossero proporzionati al reddito
da lui percepito, erroneamente, non aveva tenuto conto del «poderoso
patrimonio» che egli aveva documentato di possedere legittimamente e
dal quale egli aveva attinto le risorse per acquistare gli immobili
sequestrati. In altri termini, «si era azzerata la situazione economico
patrimoniale di Fedele e Zambardino al 2005 (perché i precedenti
provvedimenti avevano valutato la congruità sino a tutto l’anno 2004)
considerando che egli e la moglie partivano esclusivamente da quel che
risultava versato sui loro conti correnti».
Il tribunale (pag. 10 ordinanza impugnata), ha interpretato il
concetto di “sproporzione” nei seguenti testuali termini: «[…] È infatti
evidente che il termine di raffronto della congruità delle acquisizioni, nel
sistema delineato dall’art. 12sexies, non è la dimensione del patrimonio
dell’indagato, ossia, in parole semplici, la sua complessiva ricchezza,
bensì la sua capacità di produrre reddito; il legislatore, facendo
riferimento ai redditi dichiarati ed alle attività economiche, privilegia
chiaramente l’aspetto dinamico, redditivo della ricchezza rispetto alla
consistenza statica del patrimonio, ponendo, nei termini chiariti, la
presunzione (iuris tantum) di illecita accumulazione quando gli acquisti
risultino sproporzionati al cospetto delle entrate lecitamente maturate
nel medesimo periodo. La ratio è chiara ed altrettanto chiaramente si
comprende che una diversa lettura renderebbe, di fatto, inapplicabile la
norma nei confronti di chi sia titolare di un patrimonio ingente, rispetto
al quale mai o quasi mai l’acquisizione e l’accumulo di altri beni

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intermedia), ex art. 182/2 cod. proc. pen.

potrebbe dirsi incongrua o sproporzionata; viceversa, la visione
normativa muove dal presupposto che anche il ricco — in questo caso,
anche Fedele Michelangelo — debba, in caso di condanna per uno dei
gravi reati cui si riconosce l’attitudine a determinare notevoli ritorni
patrimoniali, giustificare la provenienza del denaro o delle risorse

eccedenti la sua attuale capacità di reddito».

3. In via preliminare, va chiarito, in punto di diritto, il concetto di
“sproporzione” atteso che i ricorrenti su di esso hanno, in pratica,
incentrato, tutto il ricorso.
L’art. 12 sexies L. 356/1991 dispone che, in caso di condanna per
alcuni determinati reati (fra cui quelli di usura per il quale risulta
indagato il Fedele): «è sempre disposta la confisca del denaro, dei
beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la
provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica,
risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore
sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul
reddito, o alla propria attività economica».
La norma, quindi, ruota sui seguenti concetti:
a) l’oggetto della confisca: sono confiscabili denaro, beni o altre
utilità di cui il condannato risulti essere titolare o avere la disponibilità a
qualsiasi titolo;
b) presupposti della confisca sono: 1) la mancata giustificazione
della lecita provenienza dei suddetti beni; 2) i beni devono essere di
valore sproporzionato rispetto al reddito, dichiarato ai fini delle imposte
sul reddito, o all’attività economica.
La complessa problematica derivante dalla confisca in questione
(cd. allargata), ha trovato un suo punto di approdo nella sentenza delle
SSUU n° 920/2004 riv 226490, Montella, che ha fissato i seguenti
principi ai quali la successiva giurisprudenza di questa Corte si è
sempre adeguata:
1. l’accusa deve provare (alternativamente: Cass. 29926/2011), la
sproporzione o tra il valore dei beni ed i redditi dichiarati o tra il

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impiegate per acquistare nuovi beni, quando risultino significativamente

valore dei beni e l’attività economica svolta dall’indagatoimputato-condannato – salva, ovviamente, la possibilità per
costui, di allegare e/o provare fatti in contrario sulla lecita
provenienza dei redditi;
2.

la sproporzione dev’essere provata, dalla pubblica accusa, non in

ciascun bene di cui è disposta la confisca;
3.

non occorre la prova della pertinenzialità fra i beni confiscati ed i
reati

addebitati

all’indagato-imputato-condannato

(Cass.

5452/2010): di conseguenza, essendo la condanna e la
presenza della somma dei beni di valore sproporzionato realtà
attuali, la confiscabilità dei singoli beni, derivante da una
situazione di pericolosità presente, non è certo esclusa per il
fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o
successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore
superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna.
Peraltro questo principio è stato temperato dalla successiva
giurisprudenza che ha ritenuto che « In tema di sequestro
preventivo ai sensi dell’art. 12 sexies D.L. n. 306 del 1992,
convertito in legge n. 356 del 1992, la presunzione di illegittima
acquisizione da parte dell’imputato deve essere circoscritta in un
ambito di ragionevolezza temporale, dovendosi dar conto che i
beni non siano “ictu oculi” estranei al reato perché acquistati in
un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla sua
commissione»: Cass. 35707/2013 Rv. 256882; Cass.
41100/2014 Rv. 260529;
4.

si tratta di una misura di sicurezza atipica con funzione anche
dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia
introdotta dalla legge 32 maggio 1965, n. 575.
In ordine al concetto di sproporzione, le SSUU, hanno

testualmente scritto: «Il legislatore impiega il termine sproporzione e
ciò rimanda non a qualsiasi difformità tra guadagni e capitalizzazione,
ma ad un incongruo squilibrio tra questi, da valutarsi secondo le comuni

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relazione all’intero patrimonio ma al momento dell’acquisto di

regole di esperienza. La sproporzione così intesa viene testualmente
riferita, non al patrimonio come complesso unitario, ma alla somma dei
singoli beni, con la conseguenza che i termini di raffronto dello
squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori
economici in gioco, non vanno fissati nel reddito dichiarato o nelle

reddito e nelle attività nei momenti dei singoli acquisti, rispetto al
valore dei beni volta a volta acquisiti. La giustificazione credibile attiene
alla positiva liceità della provenienza e non si risolve nella prova
negativa della non provenienza dal reato per cui si è stati condannati. E
così, per esempio, per gli acquisti che hanno un titolo negoziale occorre
un’esauriente spiegazione in termini economici (e non semplicemente
giuridico-formali) di una derivazione del bene da attività consentite
dall’ordinamento, che sarà valutata secondo il principio del libero
convincimento. 8. La conclusione raggiunta è conforme ad una
fondamentale scelta di politica criminale del legislatore, operata con
l’individuare delitti particolarmente allarmanti, idonei a creare una
accumulazione economica, a sua volta possibile strumento di ulteriori
delitti, e quindi col trarne una presunzione, iuris tantum, di origine
illecita del patrimonio “sproporzionato” a disposizione del condannato
per tali delitti […] il giudice non è autorizzato ad espropriare un
patrimonio quando comunque sia di ingente valore, ma deve invece
accertarne la sproporzione rispetto ai redditi ed alle attività economiche
del condannato e ciò, come s’è visto, attraverso una ricostruzione
storica della situazione esistente al momento dei singoli acquisti».
Come si è detto questa interpretazione, in specie per quanto
riguarda il concetto di sproporzione fra reddito e valore dei beni
acquistati, non è stata mai messa in discussione:

ex plurimis: Cass.

721/2006 Rv. 235607; Cass. 10756/2009 Rv. 242896; Cass.
5452/2010 Rv. 246083; Cass. 47567/2013 Rv. 258030
Si è, infatti, ritenuto che il raffronto tra il valore dei beni e i redditi
dichiarati o derivanti da attività economica, dev’essere operato al netto
dell’imposta (e delle eventuali spese per le esigenze di vita: Cass.
3851/1998 Rv. 212908; Cass. 5452/2010 cit, in motivazione)

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attività al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel

costituendo

la

differenza,

le

somme

nella

disponibilità

dell’indagato/imputato.
Sempre con riguardo alla composizione del reddito di cui si deve
tener conto, da ultimo la giurisprudenza si è attestata nel ritenere che
«In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, la

accumulate da un soggetto condannato per il reato di cui all’art. 12sexies della legge n. 356 del 1992 deve escludersi in presenza di fonti
lecite e proporzionate di produzione, sia che esse siano costituite dal
reddito dichiarato ai fini fiscali sia che provengano dall’attività
economica svolta, benché non evidenziate, in tutto o in parte, nella
dichiarazione dei redditi, con la conseguenza che è onere
dell’interessato dimostrare che i beni sequestrati sono stati acquistati
con il provento di attività economiche non denunciate al fisco»: Cass.
49498/2014 Rv. 261046; SSUU 33451/2014 Rv. 260247 secondo la
quale «nell’art. 12 sexies, infatti, a differenza di quanto è previsto nella
L. n. 505 del 1965, citato art. 2 ter, la presunzione di illecita
provenienza dei beni del condannato viene ancorata letteralmente ed
esplicitamente al combinato disposto della sproporzione rispetto
all’attività economica svolta e dell’assenza di giustificazione, ma non
anche, in alternativa, alla esistenza di sufficienti indizi della loro
provenienza da qualsiasi attività illecita. In altri termini, se è vero che
per entrambe le misure ablatorie è previsto che i beni da confiscare si
trovino nella disponibilità diretta o indiretta del soggetto e che siano di
valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività
economica esercitata, è altresì vero che il requisito alternativo della
provenienza illecita del bene (qualificabile come frutto o reimpiego di
proventi illeciti) è specificamente previsto solo per la confisca di
prevenzione».
La sproporzione, quindi, come emerge dal dato testuale normativo
e dalla stessa univoca giurisprudenza di legittimità, va calcolata avendo
come punto di riferimento per il primo parametro, “il reddito” netto (o
l’attività economica) ossia la sua capacità reddituale.

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presunzione di illegittima provenienza di risorse patrimoniali

3.1. A questo punto, è opportuno una breve digressione in ordine
ai concetti di “reddito” e “patrimonio”.
Il reddito può essere definito come la ricchezza netta (derivante
da lavoro e/o da capitale), creata da un determinato soggetto in un
determinato periodo di tempo che, nell’art. 12 sexies cit., coincide con

dinamica del reddito perché legata al concetto di “flusso” ossia ad una
grandezza variabile in un determinato periodo di tempo dipendente da
diversi fattori economici.
Del tutto diverso, è, invece, il concetto di “patrimonio” netto: con
tale lemma, in ambito economico, s’intende la ricchezza costituita dal
valore complessivo dei beni, mobili o immobili, che un soggetto
possiede in un determinato momento, al netto, appunto, delle passività
che su di esso gravano: il suddetto concetto, in quanto è legato ad un
preciso istante temporale, implica, quindi, una nozione statica (non a
caso il patrimonio è denominato anche come uno stock di beni) che si
contrappone a quella dinamica del reddito che presuppone, invece, la
creazione di ricchezza (cd. “flusso”) nell’arco di un determinato periodo
di tempo.
Quindi, il patrimonio, può essere formato oltre che da beni non
strettamente derivanti dall’attività del soggetto (ad es. beni provenienti
da un’eredità; da una vincita) anche e soprattutto dalle plusvalenze
derivanti dal reddito e che risultano a fine del periodo considerato e
che, ove non consumate, si capitalizzano entrando a far parte del
patrimonio.
E’ ovvio, quindi, che qualsiasi soggetto, acquista beni o con le
plusvalenze del reddito annuale (consumandolo, quindi, in tutto o in
parte), o con quelle degli anni precedenti che, in quanto capitalizzate,
sono entrate a far parte del proprio patrimonio.
Ora, quando l’art. 12 sexies cit., indica il “reddito dichiarato ai fini
delle imposte” come il parametro al quale occorre fare riferimento per
accertare se il bene acquistato dall’indagato/imputato/condannato, sia
congruo, non intende riferirsi al reddito percepito nell’anno in cui quel
singolo bene è stato acquistato, ma intende riferirsi, alla capacità

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il periodo di imposta annuale: la legge, quindi, ha accolto una nozione

reddituale, ossia alla capacità di quel soggetto di percepire un reddito
tale che gli consenta di acquistare quel determinato bene.
Se così non fosse, dovrebbe giungersi alla paradossale ed
illegittima conclusione secondo la quale ogni qualvolta un soggetto
acquista un bene il cui valore eccede la capacità reddituale dell’anno in

automaticamente ritenuto incongruo senza possibilità di prova
contraria. Invece, non si dubita che l’indagato possa allegare e
dimostrare di avere acquistato quel bene non solo con il reddito
dell’anno di acquisto ma anche con le plusvalenze derivate dai redditi
degli anni precedenti o, comunque, con proventi legittimamente
posseduti (ad es. una vincita di gioco; un’eredità ricevuta).
In altri termini, l’indagato può allegare o dimostrare la legittimità
dell’acquisto facendo leva sulla sua capacità di effettuare acquisti
attingendo al patrimonio legittimamente accumulato: fra la capacità
reddituale (ossia la capacità di produrre, mediamente, una determinata
ricchezza per ogni anno d’imposta) ed il patrimonio vi è, infatti, una
relazione biunivoca in quanto il patrimonio (salvo beni acquisiti
legittimamente con risorse non provenienti dal reddito: ad es. eredità;
vincite) costituisce, normalmente, la fotografia statica della ricchezza
che un soggetto è riuscito ad accumulare, legittimamente, nel corso
degli anni grazie alla sua attività e, quindi, grazie alla sua capacità di
produrre reddito.

3.2. Questa precisazione, consente di introdurre un argomento
fondamentale ai fini della corretta comprensione della problematica in
esame: la distribuzione dell’onere probatorio.
Come si è già detto, le SSUU Mantella, proprio nell’ottica di una
interpretazione costituzionalmente orientata, hanno scritto, a chiare
lettere, che «il giudice non è autorizzato ad espropriare un patrimonio
quando comunque sia di ingente valore, ma deve invece accertarne la
sproporzione rispetto ai redditi ed alle attività economiche del
condannato e ciò, come s’è visto, attraverso una ricostruzione storica
della situazione esistente al momento dei singoli acquisti»: dunque, la

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corso (ad es. un immobile), l’acquisto dovrebbe essere

circostanza che l’indagine patrimoniale debba essere effettuata per
singolo bene, costituisce un’agevolazione per la difesa che, in tal modo,
può allegare e documentare la legittima provenienza del denaro servito
per acquistare quel determinato bene, cosa che sarebbe impossibile ove
si pretendesse dall’indagato di dimostrare la legittima acquisizione

Quando pertanto le SSUU, sostengono che

«[..] il termine

sproporzione rimanda non a qualsiasi difformità tra guadagni e
capitalizzazione, ma ad un incongruo squilibrio tra questi, da valutarsi
secondo le comuni regole di esperienza» afferma, in sostanza, che la
sproporzione è un concetto che implica un incongruo squilibrio tra
guadagni (desumibili dal reddito dichiarato ai fini delle imposte) e
patrimonio (ossia la “capitalizzazione”), proprio perché il capitale
(rectius:

il patrimonio) dev’essere congruo rispetto all’attività

lecitamente esercitata dal soggetto e cioè alla sua capacità reddituale:
solo quando il patrimonio è gravemente squilibrato (“sproporzionato”)
rispetto alla capacità reddituale, e, quindi, l’acquisto del bene
sottoposto a sequestro non trova giustificazione, il bene può essere
sequestrato.
Non è, pertanto, corretto, al fine di stabilire il criterio della
sproporzione, porre a raffronto il valore del bene acquistato in un
determinato periodo con il solo reddito prodotto dall’indagato in quello
stesso anno di imposta, impedendogli quindi, di dimostrare di avere
attinto il denaro dal proprio patrimonio legittimamente accumulato:
l’art. 12 sexies cit. non richiede affatto che l’acquisto sia proporzionato
al reddito percepito nell’anno di acquisto: molto più semplicemente e
più in generale, parla di “reddito dichiarato ai fini delle imposte sul
reddito” e, quindi, anche i redditi degli anni precedenti che, ove non
consumati, si sono capitalizzati contribuendo a formare il patrimonio.
In altri termini, ciò che la legge intende colpire è l’illecita
accumulazione patrimoniale (in terminis Cass. 11049/2001 Rv. 226052)
ossia l’acquisto di beni al di fuori della propria lecita capacità reddituale
nel momento dell’acquisto, capacità che va commisurata alla legittima

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dell’intero suo patrimonio.

capacità di spesa (risparmi; disinvestimenti; debiti legittimamente
contratti) che il soggetto ha in quel determinato momento.
Ciò è quanto si desume, peraltro, dalla stessa sentenza delle
SSUU Montella: nella fattispecie, si trattava di un’evidente sproporzione
del complesso dei beni di cui l’indagato disponeva e del loro valore (lire

attività economiche svolte (attività di manovale e, in modo non
continuativo, di procacciatore di affari per le quali risulta un guadagno
di 176.833.000 lire negli anni 1995-2000) nei momenti degli acquisti. A
fronte di tale dato, l’indagato aveva sostenuto che, nel dicembre 1994
(quindi, ben prima dell’acquisto dei beni sequestrati), disponeva di un
monte di titoli per circa 5 miliardi di lire. Al che le SSUU replicarono che
l’indagato «non solo non ha dato indicazione, secondo quanto si è
finora osservato, di circostanze idonee a fornire una giustificazione
credibile della sproporzione tra i suoi beni e i suoi guadagni leciti, ma
anzi, attraverso l’ammissione e la mancata giustificazione di
disponibilità per 5 miliardi di lire, ha aggravato lo squilibrio rilevato
all’atto del sequestro»: il che è come dire che l’indagato ben avrebbe
potuto dimostrare la legittima provenienza del denaro anche al di fuori
dello stretto ambito temporale del reddito dichiarato nell’anno di
acquisto degli immobili, allegazione e prova, però, fallita, proprio
perché anche quella cospicua somma (facente parte del suo patrimonio
da tempo antecedente all’acquisto dei beni sequestrati) non trovava
alcuna giustificazione nella sua capacità reddituale.
Ed ancora, il suddetto principio trova un puntuale riscontro nelle
singole fattispecie che si leggono nelle varie sentenze che si sono
occupate della problematica del concetto di “sproporzione”; e così, ma
solo a titolo esemplificativo e non certo esaustivo: Cass. 47567/2013
Rv. 258030; Cass. 5452/2010 la quale annullò l’ordinanza impugnata
perché il Tribunale del riesame

«non aveva neppure preso in

considerazione, anche solo per confutarle, le allegazioni prodotte dalla
difesa tendenti a dimostrare la provenienza lecita di alcuni beni e
l’epoca degli acquisti», ossia allegazioni che non avevano nulla a che
vedere con la prova derivante dal reddito prodotto nell’anno di acquisto

14

3.946.403.915 per gli anni 1995 – 2000) con i redditi dichiarati e le

dei singoli beni; Cass. 11049/2001 cit. che, espressamente, scrive che,
al fine di provare la legittima provenienza dei beni confiscati occorre
dar conto della «provenienza dei mezzi impiegati per l’acquisizione dei
beni medesimi sproporzionati rispetto alle proprie possibilità
economiche, occorrendo fornire un’esauriente spiegazione che dimostri
quindi,

possibilità economica e disponibilità finanziaria che sono concetti non
legati al singolo reddito percepito nell’anno d’acquisto del bene
confiscato; Cass. 25728/2008 riv. 240471 che, nel precisare che, «per
testuale previsione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, è soggetto
a confisca o sequestro quando “non può giustificare la provenienza”
delle disponibilità economiche non confacenti alle sue condizioni»
respinse il ricorso perché non era stato assolto «l’onere di produrre la
documentazione bancaria (nella sua piena disponibilità) a sostegno
della tesi difensiva dell’autofinanziamento mediante pagamenti differiti
ai fornitori»: quindi, un fatto che nulla ha a che vedere con il reddito
percepito nell’anno di acquisto del bene confiscato.
In conclusione, e riassumendo sulla distribuzione dell’onere
probatorio:
a)

incombe all’accusa la prova della sproporzione del bene

rispetto alla capacità reddituale (lecita) del soggetto nel momento in cui
quel determinato bene entrò nel patrimonio dell’indagato;
b) una volta provata la mancanza di proporzione, in ragione del
titolo del reato, scatta una presunzione

(iurís tantum)

di illecita

accumulazione patrimoniale, che può essere superata, dall’interessato
sulla base di specifiche e verificate allegazioni dalle quali si possa
desumere la legittima provenienza del bene sequestrato in quanto
acquistato con proventi proporzionati alla capacità reddituale lecita e,
quindi, anche attingendo al patrimonio legittimamente accumulato.
Alla stregua di quanto si è illustrato, si può pertanto, enunciare il
seguente principio di diritto: «il concetto di “sproporzione di cui all’art.
12 sexies D.L. 306/1992 in quanto implica un incongruo squilibrio tra
guadagni (desumibili dal reddito dichiarato ai fini delle imposte) e
patrimonio, consente all’interessato di allegare e/o provare, sulla base

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la loro derivazione da legittime disponibilità finanziarie»:

di specifiche e verificate allegazioni, la legittima provenienza del bene
sequestrato in quanto acquistato con proventi proporzionati alla propria
capacità reddituale lecita e, quindi, anche attingendo al patrimonio
legittimamente accumulato»

modalità di distribuzione dell’onere probatorio, non resta che verificare
se il tribunale si sia attenuto ai suddetti principi.
Sul punto, va osservato che il tribunale, in punto di fatto, ha
preso in considerazione le argomentazioni del Fedele (che, appunto,
sosteneva ed allegava che egli aveva acquistato i beni sequestrati con
leciti proventi: cfr pag. 11-12), ma l’ha disattesa adducendo la
seguente testuale motivazione (pag. 13 ordinanza impugnata): «[…] Le
risposte di Fedele e degli altri ricorrenti sono, al momento,
insoddisfacenti. Essi principalmente allegano — si è detto — la
disponibilità di ingenti somme in denaro contante ed offrono la prova
del precedente loro investimento in titoli di Stato. Di anomale e
assolutamente rilevanti movimentazioni di contante, inoltre, rende
edotti la stessa informativa della G.d.F. di Livorno del 10.10.2014,
recepita peraltro anche dal decreto di sequestro preventivo, dove si
dice di versamenti di denaro tra il 2005 ed il 2013 per oltre 806 mila
euro e di coevi prelevamenti per oltre 825 mila euro. È tutta imputabile
al Fedele la scelta di sottrarre una parte consistente delle proprie
possidenze alla tracciabilità, conservando (forse in casa, in casseforti o
chissà dove) quantitativi assolutamente anomali di contanti e sempre ai
contanti ricorrendo per transazioni ordinarie e straordinarie (allega, il
Fedele, persino di un pagamento di 80.000,00 euro in cartamoneta alla
Barclay’s Bank, nell’ambito di una transazione immobiliare; l’indagine
patrimoniale ha accertato, in occasione degli acquisti di immobili di cui
si discute, il frequente ricorso a pagamenti in contanti o mediante
assegni circolari emessi dietro versamento di contanti allo sportello
bancario), in spregio alle normative antiriciclaggio di cui al D.Lgs.
231/2007 (si pensi alla soglia di utilizzo del denaro contante, che sino
al 29.4.2008 era stabilita in 12.500,00 euro e progressivamente è stata

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4. Chiarito, in punto di diritto, il concetto di “sproporzione” e la

ridotta, sino ai 1.000,00 euro del 6.12.2011), e ciò nel contesto di una
gestione patrimoniale costantemente orientata all’elusione o evasione
fiscale (sono gli stessi ricorrenti, paludandosi di una malintesa etica del
lavoro e del risparmio, a riferire di vendite immobiliari a prezzo più alto
di quello dichiarato; di condoni tombali; di esportazione di valuta a San

d’attualissimo riscontro, reca con sé la conseguenza di un caos assoluto
nella analisi della consistenza, delle origini, delle dinamiche del
patrimonio dell’indagato. Questo è oggi il punto: è pressoché
impossibile, perché così ha voluto Michelangelo Fedele attraverso
comportamenti reiterati negli anni, ricostruire con esattezza l’entità e
gli impieghi delle notevoli liquidità di cui ha disposto e, probabilmente,
tuttora dispone; e certo non lo si è fatto nello spazio ristretto del
giudizio di riesame, dove ci si è limitati ad allegare la risalente
disponibilità di capitali liquidi derivanti dalla realizzazione di titoli di
Stato che (Fedele) aveva disin vestito non appena gli erano stati
restituiti dall’AG., essenzialmente onde evitare che, versandoli
nuovamente su conti e depositi bancari, avesse a subire ulteriori azioni
ablative da parte della Procura (sic), senza (poter) dimostrare che a
quei preesistenti capitali, e non ad altre fonti di guadagno illecito, si è
fatto ricorso quando si è trattato di finalizzare investimenti per importi
eccedenti le ordinarie capacità di spesa. Il che, evidentemente, non
basta a dare la giustificazione della provenienza dei mezzi economici
utilizzati».
Il tribunale, poi, a pag. 14 par. sub c) prosegue, osservando
sempre nel merito che «non dirime il giudizio in senso favorevole ai
ricorrenti 11 riferimento “ad altri fonti non prese in considerazione nel
decreto impugnato”», spiegandone, ampiamente le ragioni.
Quindi, il Tribunale, alla fin fine, al di là di quello che abbia
sostenuto, in punto di stretto diritto, in ordine all’interpretazione
dell’art. 12

sexies cit., è

giunto alla conclusione che il Fedele,

nonostante le sue ingenti ricchezze, non era riuscito a dimostrare che i
beni acquistati lo fossero stati con leciti proventi derivanti dalla sua

17

Marino); questa scelta, che si direbbe d’altri tempi se non fosse

(lecita) capacità reddituale così come ricostruita dalla pubblica accusa:
dal che derivava anche la “sproporzione” rispetto al proprio reddito.
La suddetta motivazione non si presta ad alcuna censura, tanto
più ove si consideri che la motivazione, con il ricorso per cassazione,
può essere censurata solo sotto il profilo della motivazione omessa o

Non solo, ma l’aspetto davvero singolare, è che il ricorrente non
ha ritenuto di spendere una sola parola avverso la suddetta
motivazione essendosi limitato a ritrascrivere i motivi di censura
avverso il decreto di sequestro del g.i.p., dedotti davanti al tribunale
(pag. 3 ss del ricorso), non avvedendosi che il tribunale, in realtà,
aveva risposto e, che, quindi, in questa sede, le doglianze avrebbero
dovuto essere proposte avverso quella motivazione e non riproducendo
la censura dedotta davanti al tribunale.
Tanto basta per ritenere inammissibile il ricorso in quanto, in
presenza della c.d. doppia motivazione (ossia una motivazione
composta da due o più argomenti di fatto e/o giuridici ognuno dei quali,
essendo autonomo dagli altri, giustifica e sorregge da solo la
decisione), il ricorrente, in aderenza al principio della specificità (art.
581 c.p.p.), deve censurare la motivazione in tutti quei profili di fatto e
di diritto che presentano una loro autonomia e non limitarsi a censurare
solo alcuni dei motivi addotti dal giudice. Infatti, quand’anche si
ritenesse la fondatezza della doglianza proposta solo relativamente ai
profili della motivazione censurata, resta il fatto che l’accoglimento
della censura non sarebbe idonea a travolgere i diversi profili addotti
nella motivazione dal giudice a sostegno della propria decisione, i quali,
corretti o sbagliati che siano, non essendo stati sottoposti ad alcuna
censura, devono ritenersi passati in giudicato.
Per completezza, va osservato che i motivi sub 2-3-4 (riassunti ai
§§ 2.2. – 2.3. illustrati in parte narrativa) attengono tutti, per un verso
o per un altro, alla problematica di diritto di cui si è ampiamente dato
conto al precedente § 3.

18

apparente.

5. Resta, infine, da esaminare l’ultima censura (supra § 2.4. in
parte narrativa, corrispondente al motivo sub 5 del ricorso) con la quale
il ricorrente, dopo avere sostenuto che «se il proposto risulta incongruo
di 100 si potranno sequestrare beni per il valore di 100, ma non di
1.000, posto che í beni acquistati per il residuo valore di 900 trovano

della persona», ha concluso che «quindi, se nell’anno 2005 si assume
che vi sia stata un’incongruità di C 139.250,00 si sarebbero potuti
sequestrare ben aventi analogo valore, ma non beni ulteriori, perché
per questi ultimi si deve ritenere sussistente piena giustificazione».
La censura, è del tutto generica e comunque infondata in diritto.
Come si è detto supra a proposito della distribuzione dell’onere
probatorio, all’accusa spetta dimostrare la sproporzione fra redditi e
singoli acquisti.
Una volta che l’accusa abbia fornito la suddetta prova, è
l’interessato che ha l’onere di allegare e provare che il bene o i beni che
sono stati sequestrati egli li ha acquistati con proventi leciti della sua
lecita attività e che, quindi, sono appunto proporzionati alla sua lecita
capacità di guadagno: il che significa che dev’essere provato che, a
determinate entrate (nella specie immobili), in quel periodo, sono
corrisposte uscite corrispondenti al valore dei beni entrati: in altri
termini, l’allegazione deve consentire di “tracciare” il movimento in
entrata ed in uscita.
E, quindi, per rimanere al caso di specie, il ricorrente avrebbe
dovuto allegare e dimostrare che i beni acquistati nel 2005 erano stati
acquistati con i leciti proventi della propria lecita attività, sicchè ad una
determinata entrata (immobili) era corrisposta una determinata e
documentata uscita (prezzo degli immobili): ma così non è, stando alla
motivazione, davvero tranciante, con la quale il tribunale ha scritto che,
almeno allo stato degli atti, è impossibile ricostruire il flusso delle
entrate e delle uscite, rendendo, pertanto, insuperata la prova della
sproporzione fornita dalla pubblica accusa.

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giustificazione e coerenza con l’attività economica ovvero col reddito

6. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
RIGETTA

CONDANNA
i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Roma 17/06/2015

(Dott. A onu E.posito)
IL CONSIGLIERE S .
(Dott. G. Rago

il ricorso e

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