Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 29553 del 17/06/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 29553 Anno 2015
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA
su ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA presso il Tribunale di Livorno,
avverso l’ordinanza del 15/01/2015 pronunciata dal Tribunale del
Riesame di Livorno nei confronti di:
1.

FEDELE MICHELANGELO nato il 28/10/1945;

2.

ZAMBARDINO GIUSEPPINA nata il 19/03/1957;

Visti gli atti, l’ordinanza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere dott. Geppino Rago,
udito il Procuratore Generale in persona del dott. Sante Spinaci che ha
concluso per l’annullamento con rinvio;
FATTO
1. Con ordinanza del 15/01/2015, il Tribunale del Riesame di
Livorno, in accoglimento delle impugnazioni proposte da FEDELE
Michelangelo (indagato per il reato di usura) e da ZAMBARDINO
Giuseppina (terza non indagata), disponeva il dissequestro e la
restituzione agli aventi diritto delle somme giacenti sui conti correnti
bancari e postali, dei titoli tutti e del buono postale fruttifero dei quali il

Data Udienza: 17/06/2015

giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale aveva, con
decreto del 09/12/2014, ordinato il sequestro preventivo ex art. 12
sexies L. 356/1992.
Il Tribunale, innanzitutto, dopo avere illustrato il metodo seguito
dalla pubblica accusa per stabilire che la disponibilità finanziaria (denaro

dichiarati, ha criticato il suddetto metodo.
Questa la motivazione nei suoi testuali termini:

«Nel calcolo

proposto dagli inquirenti, i disavanzi di gestione di ogni anno sono
riportati a debito dell’anno successivo, contribuendo così alla
determinazione del suo risultato finanziario e, per ulteriore ricaduta, di
quelli seguenti, in una sorta di bilancio pluriennale. Il che, in concreto,
avviene nel passaggio dall’anno 2005 (in cui si rilevano investimenti
che eccedono di 139.259,15 euro le risorse disponibili) all’anno 2006,
dall’anno 2009 al 2010 e poi a tutti gli anni successivi, sino al 2012, nei
quali, nonostante il rilievo di avanzi annuali di gestione anche
consistenti, l’incongruità “su base progressiva” è fatta discendere dai
più corposi disavanzi registrati negli anni precedenti (soprattutto nel
2008 e nel 2009, nei quali si contano, rispetto agli investimenti
effettuati, deficit di risorse pari, rispettivamente, a 146.299,58 ed a
329.069,92 euro). Questa impostazione, censurata dalla difesa, è
fuorviante e non in linea con i principi di diritto sedimentati dalla
giurisprudenza di legittimità, chiara nel pretendere che la verifica del
requisito della sproporzione non sia condotta con riferimento a periodi
complessivi bensì ai momenti specifici in cui avvengono le acquisizioni
patrimoniali sospette. L’accorgimento contabile dell’addebito del
disavanzo di ciascun anno all’anno successivo sconta, sul piano della
ricostruzione obiettiva delle vicende patrimoniali, un errore di
prospettiva: quello di considerare lo scarto tra risorse ed investimenti
come misura di un debito contratto dall’indagato, da ammortizzare nel
tempo; ed evidentemente così non è, sol che si pensi che il sequestro
dei beni di valore eccedente la dimostrata capacità reddituale è
adottato sul presupposto che essi siano stati acquistati con finanze
addizionali ed occulte, e non attraverso qualsivoglia forma di

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su conti correnti e dossier titoli) era sproporzionata rispetto ai redditi

indebitamento (che, anzi, rappresenterebbe una giustificazione
oggettiva della provenienza delle risorse). Si tratta, insomma, di spese
sostenute con mezzi di cui l’indagato disponeva, e che non possono
avere alcuna incidenza nella “partita doppia” relativa all’anno a venire.
In una prospettiva più ampia, poi, è intuitivo che la tecnica del riporto

cronologiche dell’accertamento, sino ad illustrare, a valle, valutazioni di
sintesi riferibili a troni temporali pluriennali, che poco o nulla dicono in
ordine alla capacità di spesa al momento dei singoli investimenti, in
aperto contrasto con i criteri parametralí tracciati dalle SS.UU. della
Cassazione nella sentenza 17 dicembre 2004, n. 990. Ma non meno
artificioso èl’accredito delle plusvalenze degli anni 2006, 2010 e 2011
alle fonti disponibili per gli anni rispettivamente seguenti, che la stessa
pubblica accusa non manca di riconoscere, in chiave compensativa, a
favore del Fedele. L’operazione è fallace tanto quanto lo è considerare
risparmiate nella loro interezza, e quindi disponibili per l’anno a venire,
le risorse non impiegate nelle forme tipiche di investimento considerate
ai fini dell’accertamento patrimoniale (immobili e titoli), ma che, in
concreto, ben potrebbero essere state utilizzate per spese di carattere
corrente o straordinario, queste ultime niente affatto implausibili per
chi, come Fedele, disponga di un vastissimo patrimonio immobiliare.
D’altra parte, la documentazione disponibile, ivi inclusa quella prodotta
dai ricorrenti, non consente di ricostruire la sorte delle eccedenze di
gestione e tantomeno di constatarne il risparmio attraverso depositi in
conto corrente o altre modalità tracciabilí di accumulo, e ciò nel
contesto di un’amministrazione familiare dichiaratamente incline all’uso
massívo del contante. Con i correttivi di cui si è detto, gli elementi
raccolti nel corso dell’indagine ed illustrati nell’impugnato decreto di
sequestro preventivo possono ritenersi dimostrativi di una significativa
sperequazione tra redditi ed investimenti negli anni 2005, 2007, 2008 e
2009, mentre non evidenziano situazioni sintomatiche di illecite
aggregazioni patrimoniali in relazione agli acquisti effettuati dal nucleo
familiare dell’indagato negli anni 2006, 2010, 2011 e 2012. La
conclusione non muta alla luce delle ulteriori voci accertate di spesa che

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tralatizio delle minusvalenze annuali finisca con il dilatare le coordinate

il pubblico ministero, a seguito di successive indagini, ha dedotto nella
propria memoria del 14.1.2015; si tratta di esborsi per manutenzione
del patrimonio edilizio (totali euro 62.260,00 negli otto anni considerati,
di cui 41.520 solo nel 2009) e per onorari notarili (totali euro 79.605
tra il 2005 ed il 2013, di cui 35.000 nel 2009) che certo aggravano in

spostano, negli altri anni, il senso del bilancio».

2. Avverso la suddetta ordinanza, ha proposto ricorso per
cassazione il Pubblico Ministero deducendo i seguenti motivi:
2.1.

VIOLAZIONE DEL CONCETTO DI SPROPORZIONE:

il ricorrente sostiene

che il Tribunale ha errato nel non tenere conto nella sproporzione
accertata (intesa come differenza fra fonti ed impieghi) anche
dell’indebitamento complessivo rilevato negli anni precedenti. Il
ricorrente, dopo avere illustrato il metodo seguito, e, dopo avere dato
atto che per le annualità 2006, 2010, 2011 e 2012, era stato rilevato
un saldo positivo, censura l’ordinanza nei seguenti testuali termini:
«appare imprescindibile tenere conto anche delle passività conseguita
nell’anno precedente. Infatti, pur in presenza di una disponibilità di
redditi ottenuta in quell’anno, tale da giustificare in termini numerici gli
impieghi effettuati per quella stessa annualità, occorre considerare che
tale disponibilità non può essere ritenuta sufficiente, in quanto tale
somma non è in grado di coprire nemmeno il forte “indebitamento”
creatosi nell’esercizio precedente. In sostanza il ragionamento è questo
“come faccio ad investire in immobili quando ancora non riesco a
coprire una passività che si è venuta a determinare in passato ?”. Ad
esempio, la disponibilità accumulata nel 2006 per 84 mila euro circa va
a coprire una parte de/I’ “indebitamento” accumulato nel 2005, quando
è stata riscontrata un’incongruità precisa su base annua di Fedele
Michelangelo di quasi 140.000 euro. Ciò significa che, per il 2006, pur
in presenza di un saldo positivo, e quindi di una congruità su base
annua, risulto incongruo su base progressiva per oltre 54 mila euro
(risultato scaturito dalla differenza, tra l’incongruità accertata nel 2005
e il saldo positivo del 2006) […] La sproporzione, quindi, si configura

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modo non trascurabile lo scompenso registrato nell’anno 2009 ma non

come fattispecie semplice e limitata sul piano temporale, come sancito
dalla nota sentenza Monte/la della Corte di Cassazione a Sezioni Unite
(n. 920/2004), nel senso che si concretizza in un raffronto tra due soli
elementi (il valore del bene, da un lato, il reddito o l’attività
economica, dall’altro) riferibile a un certo periodo (l’epoca della

acquisizione del bene) e circoscritta a verificare la legittimità degli
investimenti. Ne consegue che una corretta procedura di calcolo della
sproporzione non può estrinsecarsi attraverso un mero confronto
aritmetico fra patrimonio complessivo accumulato e reddito
complessivo prodotto, bensì rilevando, con riferimento ad un
determinato periodo temporale, lo scompenso esistente tra incrementi
patrimoniali più reddito consumato, da una parte, e reddito
legittimamente prodotto, dall’altra parte. Tuttavia, la
contestualizzazione della prova della sproporzione, oltre a tenere conto
delle circostanze esistenti al momento dell’acquisto, non può non
tenere conto (per quel periodo temporale) di una situazione di
“indebitamento” che l’indagato si porta dietro dal passato […]La
sproporzione va rilevata con riferimento ai diversi periodi temporali
annuali tenendo conto degli acquisti effettuati in quel periodo. Tuttavia,
per ogni periodo temporale, occorre avere riguardo anche ai debiti
accumulati dall’indagato, soprattutto se essi sono riferiti ad annualità
immediatamente precedenti che possono avere un impatto immediato
sugli esercizi successivi. Ciò significa che, in presenza in un anno di un
saldo positivo derivante dal raffronto tra fonti e impieghi, questo saldo
va considerato come somma utilizzata innanzitutto per coprire
l’indebitamento creatosi. Operando in tal modo è evidente che, qualora
il saldo positivo ottenuto non sia in grado di coprire l’intero
indebitamento passato, si viene a creare un’incongruità su base
progressiva, come nel caso accertato dalla Guardia di Finanza e fatto
proprio dal GIP nei suoi provvedimenti caute/ari […)».
2.2.

VIOLAZIONE DEL CONCETTO DI DISPONIBILITÀ E DI DENARO:

il

ricorrente, dopo avere premesso, in punto di fatto, che il Fedele, negli
anni,

aveva

effettuato

operazioni

finanziarie

anomale

e

sovradimensionate rispetto alla sua capacità reddituale, osserva che

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«In altri termini, l’indagato ha, ancora oggi, la presenza sui conti
correnti di provviste che derivano da versamenti eseguiti in quegli anni
in cui la incongruità è stata rilevata dallo stesso Tribunale del Riesame
con la precedente ordinanza, e la cui giustificazione non è stata data
dalla difesa sulla quale gravava l’inversione dell’onera della prova. La

concetti di disponibilità e di denaro: si tratta di concetti molto estesi,
che devono essere interpretati alla luce della fungibilità del denaro
stesso [..] La norma di legge richiede che debba sussistere innanzitutto
il requisito della disponibilità e, su questo punto, il Tribunale del
Riesame lo ha riconosciuto; tuttavia, con riferimento al denaro contante
il Tribunale erroneamente non ha effettuato una valutazione della
disposizione normativa che ne valuti anche la sua fungibilità. Così
operando e, soprattutto così interpretando la disposizione di legge, non
verrebbe effettuata, come afferma il Tribunale del Riesame “una
valutazione sintetica e sommaria”, ma piuttosto verrebbe data
applicazione pratica ai concetti di disponibilità e di denaro, richiamati
dalla norma citata, con possibilità quindi di mantenere il sequestro
preventivo del denaro giacente sui conti».
DIRITTO
1. In via preliminare, va chiarito, in punto di diritto, il concetto di
“sproporzione” (e le modalità di calcolo) atteso che il ricorrente su di
esso ha, in pratica, incentrato, tutto il ricorso.
L’art. 12 sexies L. 356/1991 dispone che, in caso di condanna per
alcuni determinati reati (fra cui quelli di usura per il quale risulta
indagato il Fedele): «è sempre disposta la confisca del denaro, dei
beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la
provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica,
risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore
sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul
reddito, o alla propria attività economica».
La norma, quindi, ruota sui seguenti concetti:

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norma ex art. 12 sexies della legge n. 356/1992 fa riferimento ai

a) l’oggetto della confisca: sono confiscabili denaro, beni o altre
utilità di cui il condannato risulti essere titolare o avere la disponibilità a
qualsiasi titolo;
b) presupposti della confisca sono: 1) la mancata giustificazione
della lecita provenienza dei suddetti beni; 2) i beni devono essere di

sul reddito, o all’attività economica.
La complessa problematica derivante dalla confisca in questione
(cd. allargata), ha trovato un suo punto di approdo nella sentenza delle
SSUU n° 920/2004 riv 226490, Montella, che ha fissato i seguenti
principi ai quali la successiva giurisprudenza di questa Corte si è
sempre adeguata:
1.

l’accusa deve provare (alternativamente: Cass. 29926/2011), la
sproporzione o tra il valore dei beni ed i redditi dichiarati o tra il
valore dei beni e l’attività economica svolta dall’indagatoimputato-condannato – salva, ovviamente, la possibilità per
costui, di allegare e/o provare fatti in contrario sulla lecita
provenienza dei redditi;

2.

la sproporzione dev’essere provata, dalla pubblica accusa, non in
relazione all’intero patrimonio ma al momento dell’acquisto di
ciascun bene di cui è disposta la confisca;

3.

non occorre la prova della pertinenzialità fra i beni confiscati ed i
reati

addebitati

all’indagato-imputato-condannato

(Cass.

5452/2010): di conseguenza, essendo la condanna e la
presenza della somma dei beni di valore sproporzionato realtà
attuali, la confiscabilità dei singoli beni, derivante da una
situazione di pericolosità presente, non è certo esclusa per il
fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o
successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore
superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna.
Peraltro questo principio è stato temperato dalla successiva
giurisprudenza che ha ritenuto che « In tema di sequestro
preventivo ai sensi dell’art. 12 sexies D.L. n. 306 del 1992,
convertito in legge n. 356 del 1992, la presunzione di illegittima

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valore sproporzionato rispetto al reddito, dichiarato ai fini delle imposte

acquisizione da parte dell’imputato deve essere circoscritta in un
ambito di ragionevolezza temporale, dovendosi dar conto che i
beni non siano “ictu oculi” estranei al reato perché acquistati in
un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla sua
commissione»: Cass. 35707/2013 Rv. 256882; Cass.

4. si tratta di una misura di sicurezza atipica con funzione anche
dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia
introdotta dalla legge 32 maggio 1965, n. 575.
In ordine al concetto di sproporzione, le SSUU, hanno
testualmente scritto: «Il legislatore impiega il termine sproporzione e
ciò rimanda non a qualsiasi difformità tra guadagni e capitalizzazione,
ma ad un incongruo squilibrio tra questi, da valutarsi secondo le comuni
regole di esperienza. La sproporzione così intesa viene testualmente
riferita, non al patrimonio come complesso unitario, ma alla somma dei
singoli beni, con la conseguenza che i termini di raffronto dello
squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori
economici in gioco, non vanno fissati nel reddito dichiarato o nelle
attività al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel
reddito e nelle attività nei momenti dei singoli acquisti, rispetto al
valore dei beni volta a volta acquisiti. La giustificazione credibile attiene
alla positiva liceità della provenienza e non si risolve nella prova
negativa della non provenienza dal reato per cui si è stati condannati. E
così, per esempio, per gli acquisti che hanno un titolo negoziale occorre
un’esauriente spiegazione in termini economici (e non semplicemente
giuridico-formali) di una derivazione del bene da attività consentite
dall’ordinamento, che sarà valutata secondo il principio del libero
convincimento. 8. La conclusione raggiunta è conforme ad una
fondamentale scelta di politica criminale del legislatore, operata con
l’individuare delitti particolarmente allarmanti, idonei a creare una
accumulazione economica, a sua volta possibile strumento di ulteriori
delitti, e quindi col trarne una presunzione, iuris tantum, di origine
illecita del patrimonio “sproporzionato” a disposizione del condannato

8

41100/2014 Rv. 260529;

per tali delitti […] il giudice non è autorizzato ad espropriare un
patrimonio quando comunque sia di ingente valore, ma deve invece
accertarne la sproporzione rispetto ai redditi ed alle attività economiche
del condannato e ciò, come s’è visto, attraverso una ricostruzione
storica della situazione esistente al momento dei singoli acquisti».

riguarda il concetto di sproporzione fra reddito e valore dei beni
acquistati, non è stata mai messa in discussione:

ex plurimis: Cass.

721/2006 Rv. 235607; Cass. 10756/2009 Rv. 242896; Cass.
5452/2010 Rv. 246083; Cass. 47567/2013 Rv. 258030
Si è, infatti, ritenuto che il raffronto tra il valore dei beni e i redditi
dichiarati o derivanti da attività economica, dev’essere operato al netto
dell’imposta (e delle eventuali spese per le esigenze di vita: Cass.
3851/1998 Rv. 212908; Cass. 5452/2010 cit, in motivazione)
costituendo la differenza, le somme nella disponibilità
dell’indagato/imputato.
Sempre con riguardo alla composizione del reddito di cui si deve
tener conto, da ultimo la giurisprudenza si è attestata nel ritenere che
«In tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, la
presunzione di illegittima provenienza di risorse patrimoniali
accumulate da un soggetto condannato per il reato di cui all’art. 12sexies della legge n. 356 del 1992 deve escludersi in presenza di fonti
lecite e proporzionate di produzione, sia che esse siano costituite dal
reddito dichiarato ai fini fiscali sia che provengano dall’attività
economica svolta, benché non evidenziate, in tutto o in parte, nella
dichiarazione dei redditi, con la conseguenza che è onere
dell’interessato dimostrare che i beni sequestrati sono stati acquistati
con il provento di attività economiche non denunciate al fisco»: Cass.
49498/2014 Rv. 261046; SSUU 33451/2014 Rv. 260247 secondo la
quale «nell’art. 12 sexies, infatti, a differenza di quanto è previsto nella
L. n. 505 del 1965, citato art. 2 ter, la presunzione di illecita
provenienza dei beni del condannato viene ancorata letteralmente ed
esplicitamente al combinato disposto della sproporzione rispetto
all’attività economica svolta e dell’assenza di giustificazione, ma non

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Come si è detto questa interpretazione, in specie per quanto

anche, in alternativa, alla esistenza di sufficienti indizi della loro
provenienza da qualsiasi attività illecita. In altri termini, se è vero che
per entrambe le misure ablatorie è previsto che i beni da confiscare si
trovino nella disponibilità diretta o indiretta del soggetto e che siano di
valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività

provenienza illecita del bene (qualificabile come frutto o reimpiego di
proventi illeciti) è specificamente previsto solo per la confisca di
prevenzione».
La sproporzione, quindi, come emerge dal dato testuale normativo
e dalla stessa univoca giurisprudenza di legittimità, va calcolata avendo
come punto di riferimento per il primo parametro, “il reddito” netto (o
l’attività economica) ossia la sua capacità reddituale.

1.1. A questo punto, è opportuno una breve digressione in ordine
ai concetti di “reddito” e “patrimonio”.
Il reddito può essere definito come la ricchezza netta (derivante
da lavoro e/o da capitale), creata da un determinato soggetto in un
determinato periodo di tempo che, nell’art. 12 sexies cit., coincide con
il periodo di imposta annuale: la legge, quindi, ha accolto una nozione
dinamica del reddito perché legata al concetto di “flusso” ossia ad una
grandezza variabile in un determinato periodo di tempo dipendente da
diversi fattori economici.
Del tutto diverso, è, invece, il concetto di “patrimonio” netto: con
tale lemma, in ambito economico, s’intende la ricchezza costituita dal
valore complessivo dei beni, mobili o immobili, che un soggetto
possiede in un determinato momento, al netto, appunto, delle passività
che su di esso gravano: il suddetto concetto, in quanto è legato ad un
preciso istante temporale, implica, quindi, una nozione statica (non a
caso il patrimonio è denominato anche come uno stock di beni) che si
contrappone a quella dinamica del reddito che presuppone, invece, la
creazione di ricchezza (cd. “flusso”) nell’arco di un determinato periodo
di tempo.

lo

/

economica esercitata, è altresì vero che il requisito alternativo della

Quindi, il patrimonio, può essere formato oltre che da beni non
strettamente derivanti dall’attività del soggetto (ad es. beni provenienti
da un’eredità; da una vincita) anche e soprattutto dalle plusvalenze
derivanti dal reddito e che risultano a fine del periodo considerato e
che, ove non consumate, si capitalizzano entrando a far parte del

E’ ovvio, quindi, che qualsiasi soggetto, acquista beni o con le
plusvalenze del reddito annuale (consumandolo, quindi, in tutto o in
parte), o con quelle degli anni precedenti che, in quanto capitalizzate,
sono entrate a far parte del proprio patrimonio.
Ora, quando l’art. 12 sexies cit., indica il “reddito dichiarato ai fini
delle imposte” come il parametro al quale occorre fare riferimento per
accertare se il bene acquistato dall’indagato/imputato/condannato, sia
congruo, non intende riferirsi al reddito percepito nell’anno in cui quel
singolo bene è stato acquistato, ma intende riferirsi, alla capacità
reddituale, ossia alla capacità di quel soggetto di percepire un reddito
tale che gli consenta di acquistare quel determinato bene.
Se così non fosse, dovrebbe giungersi alla paradossale ed
illegittima conclusione secondo la quale ogni qualvolta un soggetto
acquista un bene il cui valore eccede la capacità reddituale dell’anno in
corso (ad es. un immobile), l’acquisto dovrebbe essere
automaticamente ritenuto incongruo senza possibilità di prova
contraria. Invece, non si dubita che l’indagato possa allegare e
dimostrare di avere acquistato quel bene non solo con il reddito
dell’anno di acquisto ma anche con le plusvalenze derivate dai redditi
degli anni precedenti o, comunque, con proventi legittimamente
posseduti (ad es. una vincita di gioco; un’eredità ricevuta).
In altri termini, l’indagato può allegare o dimostrare la legittimità
dell’acquisto facendo leva sulla sua capacità di effettuare acquisti
attingendo al patrimonio legittimamente accumulato: fra la capacità
reddituale (ossia la capacità di produrre, mediamente, una determinata
ricchezza per ogni anno d’imposta) ed il patrimonio vi è, infatti, una
relazione biunivoca in quanto il patrimonio (salvo beni acquisiti
legittimamente con risorse non provenienti dal reddito: ad es. eredità;

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patrimonio.

vincite) costituisce, normalmente, la fotografia statica della ricchezza
che un soggetto è riuscito ad accumulare, legittimamente, nel corso
degli anni grazie alla sua attività e, quindi, grazie alla sua capacità di
produrre reddito.

fondamentale ai fini della corretta comprensione della problematica in
esame: la distribuzione dell’onere probatorio.
Come si è già detto, le SSUU Montella, proprio nell’ottica di una
interpretazione costituzionalmente orientata, hanno scritto, a chiare
lettere, che «il giudice non è autorizzato ad espropriare un patrimonio

quando comunque sia di ingente valore, ma deve invece accertarne la
sproporzione rispetto ai redditi ed alle attività economiche del
condannato e ciò, come s’è visto, attraverso una ricostruzione storica
della situazione esistente al momento dei singoli acquisti»: dunque, la
circostanza che l’indagine patrimoniale debba essere effettuata per
singolo bene, costituisce un’agevolazione per la difesa che, in tal modo,
può allegare e documentare la legittima provenienza del denaro servito
per acquistare quel determinato bene, cosa che sarebbe impossibile ove
si pretendesse dall’indagato di dimostrare la legittima acquisizione
dell’intero suo patrimonio.
Quando pertanto le SSUU, sostengono che «[..]

il termine

sproporzione rimanda non a qualsiasi difformità tra guadagni e
capitalizzazione, ma ad un incongruo squilibrio tra questi, da valutarsi
secondo le comuni regole di esperienza» afferma, in sostanza, che la
sproporzione è un concetto che implica un incongruo squilibrio tra
guadagni (desumibili dal reddito dichiarato ai fini delle imposte) e
patrimonio (ossia la “capitalizzazione”), proprio perché il capitale

(rectius: il

patrimonio) dev’essere congruo rispetto all’attività

lecitamente esercitata dal soggetto e cioè alla sua capacità reddituale:
solo quando il patrimonio è gravemente squilibrato (“sproporzionato”)
rispetto alla capacità reddituale, e, quindi, l’acquisto del bene
sottoposto a sequestro non trova giustificazione, il bene può essere
sequestrato.

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1.2. Questa precisazione, consente di introdurre un argomento

Non è, pertanto, corretto, al fine di stabilire il criterio della
sproporzione, porre a raffronto il valore del bene acquistato in un
determinato periodo con il solo reddito prodotto dall’indagato in quello
stesso anno di imposta, impedendogli quindi, di dimostrare di avere
attinto il denaro dal proprio patrimonio legittimamente accumulato:

al reddito percepito nell’anno di acquisto: molto più semplicemente e
più in generale, parla di “reddito dichiarato ai fini delle imposte sul
reddito” e, quindi, anche i redditi degli anni precedenti che, ove non
consumati, si sono capitalizzati contribuendo a formare il patrimonio.
In altri termini, ciò che la legge intende colpire è l’illecita
accumulazione patrimoniale (in terminis Cass. 11049/2001 Rv. 226052)
ossia l’acquisto di beni al di fuori della propria lecita capacità reddituale
nel momento dell’acquisto, capacità che va commisurata alla legittima
capacità di spesa (risparmi; disinvestimenti; debiti legittimamente
contratti) che il soggetto ha in quel determinato momento.
Ciò è quanto si desume, peraltro, dalla stessa sentenza delle
SSUU Montella: nella fattispecie, si trattava di un’evidente sproporzione
del complesso dei beni di cui l’indagato disponeva e del loro valore (lire
3.946.403.915 per gli anni 1995 – 2000) con i redditi dichiarati e le
attività economiche svolte (attività di manovale e, in modo non
continuativo, di procacciatore di affari per le quali risulta un guadagno
di 176.833.000 lire negli anni 1995-2000) nei momenti degli acquisti. A
fronte di tale dato, l’indagato aveva sostenuto che, nel dicembre 1994
(quindi, ben prima dell’acquisto dei beni sequestrati), disponeva di un
monte di titoli per circa 5 miliardi di lire. Al che le SSUU replicarono che
l’indagato «non solo non ha dato indicazione, secondo quanto si è
finora osservato, di circostanze idonee a fornire una giustificazione
credibile della sproporzione tra i suoi beni e i suoi guadagni leciti, ma
anzi, attraverso l’ammissione e la mancata giustificazione di
disponibilità per 5 miliardi di lire, ha aggravato lo squilibrio rilevato
all’atto del sequestro»: il che è come dire che l’indagato ben avrebbe
potuto dimostrare la legittima provenienza del denaro anche al di fuori
dello stretto ambito temporale del reddito dichiarato nell’anno di

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l’art. 12 sexies cit. non richiede affatto che l’acquisto sia proporzionato

acquisto degli immobili, allegazione e prova, però, fallita, proprio
perché anche quella cospicua somma (facente parte del suo patrimonio
da tempo antecedente all’acquisto dei beni sequestrati) non trovava
alcuna giustificazione nella sua capacità reddituale.
Ed ancora, il suddetto principio trova un puntuale riscontro nelle

occupate della problematica del concetto di “sproporzione”; e così, ma
solo a titolo esemplificativo e non certo esaustivo: Cass. 47567/2013
Rv. 258030; Cass. 5452/2010 la quale annullò l’ordinanza impugnata
perché il Tribunale del riesame

«non aveva neppure preso in

considerazione, anche solo per confutarle, le allegazioni prodotte dalla
difesa tendenti a dimostrare la provenienza lecita di alcuni beni e
l’epoca degli acquisti», ossia allegazioni che non avevano nulla a che
vedere con la prova derivante dal reddito prodotto nell’anno di acquisto
dei singoli beni; Cass. 11049/2001 cit. che, espressamente, scrive che,
al fine di provare la legittima provenienza dei beni confiscati occorre
dar conto della «provenienza dei mezzi impiegati per l’acquisizione dei
beni medesimi sproporzionati rispetto alle proprie possibilità
economiche, occorrendo fornire un’esauriente spiegazione che dimostri
la loro derivazione da legittime disponibilità finanziarie»:

quindi,

possibilità economica e disponibilità finanziaria che sono concetti non
legati al singolo reddito percepito nell’anno d’acquisto del bene
confiscato; Cass. 25728/2008 riv. 240471 che, nel precisare che, «per
testuale previsione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, è soggetto
a confisca o sequestro quando “non può giustificare la provenienza”
delle disponibilità economiche non confacenti alle sue condizioni»
respinse il ricorso perché non era stato assolto «l’onere di produrre la
documentazione bancaria (nella sua piena disponibilità) a sostegno
della tesi difensiva dell’autofinanziamento mediante pagamenti differiti
ai fornitori»: quindi, un fatto che nulla ha a che vedere con il reddito
percepito nell’anno di acquisto del bene confiscato.
In conclusione, e riassumendo sulla distribuzione dell’onere
probatorio:

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singole fattispecie che si leggono nelle varie sentenze che si sono

a)

incombe all’accusa la prova della sproporzione del bene

rispetto alla capacità reddituale (lecita) del soggetto nel momento in cui
quel determinato bene entrò nel patrimonio dell’indagato;
b) una volta provata la mancanza di proporzione, in ragione del
titolo del reato, scatta una presunzione

(iuris tantum)

di illecita

sulla base di specifiche e verificate allegazioni dalle quali si possa
desumere la legittima provenienza del bene sequestrato in quanto
acquistato con proventi proporzionati alla capacità reddituale lecita e,
quindi, anche attingendo al patrimonio legittimamente accumulato.
Alla stregua di quanto si è illustrato, si può pertanto, enunciare il
seguente principio di diritto: «il concetto di “sproporzione di cui all’art.
12 sexies D. L. 306/1992 in quanto implica un incongruo squilibrio tra
guadagni (desumibili dal reddito dichiarato ai fini delle imposte) e
patrimonio, consente all’interessato di allegare e/o provare, sulla base
di specifiche e verificate allegazioni, la legittima provenienza del bene
sequestrato in quanto acquistato con proventi proporzionati alla propria
capacità reddituale lecita e, quindi, anche attingendo al patrimonio
legittimamente accumulato»

2. Chiarito, in punto di diritto, il concetto di “sproporzione” e la
modalità di distribuzione dell’onere probatorio, non resta che verificare
se il tribunale si sia attenuto ai suddetti principi.
In proposito, va osservato che il tribunale ha preso in
considerazione le argomentazioni del ricorrente, ma le ha disattese, in
punto di fatto, adducendo la seguente testuale motivazione.
Quanto ai saldi attivi, il tribunale così conclude: «manca agli atti
un prospetto che quantomeno dica, anno per anno, se vi sia ed a
quanto ammonti una differenza positiva tra saldo iniziale e saldo finale
del conto corrente, sì da potersi affermare che, quell’anno, vi sia stato
un determinato accumulo di liquidità. Se si chiede di valutare il
carattere incongruo o sproporzionato dell’accumulo del denaro sui conti
bancari rispetto alla coeva capacità di reddito, è chiaro che manchino
gli elementi necessari a definire il primo dei due termini del paragone,

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accumulazione patrimoniale, che può essere superata, dall’interessato

in quanto non è dato sapere se le somme oggi presenti sui conti già lo
fossero in tutto o in parte prima del 2005 o se, in ipotesi, siano state
depositate in uno degli anni in cui non vi è stata incongruità o, ancora,
se ad impinguare le giacenze attuali abbiano contribuito versamenti
effettuati dopo il 2012. Né la lacuna è colmata dai dati e dagli

il 14.1.2015, laddove, nel controdedurre alle osservazioni del Fedele
circa la provenienza della provvista dei propri conti correnti, pone in
risalto i cospicui e pressoché continui apporti di denaro contante, non
tracciabile; si tratta di una precisazione parziale che non risolve il
problema, posto che i conferimenti in denaro possono aver trovato
compensazione nei prelievi e comunque nelle disposizioni in uscita
oppure in precedenti passività, ed in tal senso proprio le vicende del
conto corrente presso la CR di Volterra, richiamate nella memoria del
p.m., paiono esemplificative, dal momento che a fronte di versamenti
per complessivi 357.565,00 euro tra il 2005 ed il 2012 risulta, al
momento del sequestro, un saldo attivo di soli 22.913,55 euro. Del
resto — e non a caso — nel computare le entrate e le uscite del nucleo
familiare, la G.d.F. ha del tutto pretermesso la considerazione delle
giacenze su conto corrente, che i prospetti sintetici non aggregano né
alle fonti né agli impieghi, di fatto estromettendo quel dato dal calcolo
della incongruità. È dunque evidente che, in assenza della necessaria
verifica in ordine ai tempi ed alle modalità con cui sono stati alimentati
i conti correnti intestati all’indagato ed alla coniuge, affermare oggi la
sproporzione dei relativi saldi rispetto ai redditi prodotti tra il 2005 ed il
2012 (i soli di cui si abbia riscontro) significherebbe compiere una
valutazione sintetica e sommaria, disancorata dalle reali dinamiche
patrimoniali e, in definitiva, distante dai criteri dettati dalla
giurisprudenza di legittimità per l’applicazione dell’art. 12 sexies».
Quanto, infine, ai dossier titoli, il Tribunale conclude affermando
«nel dar sintesi degli accertamenti compiuti, l’informativa in atti non
identifica quali siano i titoli acquistati nel periodo suddetto, esponendo
soltanto il loro valore complessivo e la banca presso la quale sono stati
negoziati: sappiamo, dunque, che nel 2007 Fedele ha comprato titoli

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argomenti che il pubblico ministero raccoglie nella memoria depositata

per 68.313,00 presso la CR di Volterra e nel 2008 ne ha acquisiti per
408.706,81, di cui 276.417,77 presso la CR di Volterra e 132.289,04
presso il Monte Paschi di Siena. Questi ultimi, ossia i titoli acquistati
presso Monte Paschi, non sono oggetto di sequestro e, per quanto
consta, non fanno più parte del patrimonio mobiliare dell’indagato.

l’indicazione del valore nominale degli investimenti effettuati tra il 2007
ed il 2008 non basta a restituire la certezza che proprio allora siano
stati acquistati i titoli oggi presenti nel dossier, il cui valore (207 mila
curo circa) è divenuto sensibilmente inferiore. La documentazione
prodotta dalla difesa ricorrente (v. allegati raccolti sub n. 2 alla
memoria depositata il 13.1.2015) colloca nell’anno 2011 la gran parte
degli acquisti dei titoli attualmente giacenti nel diversificato paniere
dell’indagato, rafforzando l’ipotesi che lo stesso sia stato oggetto di
varie vicende negoziali. Poiché il sequestro ex art. 12 sexies, nel caso
dei titoli, non può riguardare il tantundem ma deve colpire con
esattezza i valori mobiliari (facilmente identificabili) acquisiti al
patrimonio dell’indagato negli anni in cui i suoi redditi non erano
capienti, pare evidente che gli elementi allegati dall’accusa non siano
sufficienti a giustificare la misura e che, sul punto, occorrano ulteriori
sforzi investigativi. Vanno parimenti dissequestrati i titoli conservati
presso la Banca Popolare di Lajatico, che non figurano tra gli
investimenti effettuati nel 2007 e nel 2008 e nemmeno negli altri anni
oggetto di indagine patrimoniale, il che, peraltro, avvalora le deduzioni
del Fedele circa il loro acquisto risalente addirittura all’anno 1996 (v.
memoria a firma Fedele Michelangelo, sub 5, e documentazione
allegata). Infine, la ricorrente Zambardino ha offerto dimostrazione allo
stato convincente circa l’origine della provvista impiegata per l’acquisto
del buono postale fruttifero da 5.000,00 euro, cointestato alla madre
Salzillo Adelaide ed emesso nell’anno 2008, producendo
documentazione dalla quale risulta che altrettanti buoni di eguale
importo sono stati acquistati dalla Salzillo in uno con gli altri suoi figli:
è, dunque, verosimile che, come sostenuto dalla Zambardino, si tratti

17

Quanto ai titoli in deposito presso la CR di Volterra, filiale di Riparbella,

di titolo acquistato con denari della madre e cointestato alla figlia a
titolo di liberalità».
Quindi, il Tribunale, alla fin fine, è giunto alla conclusione che il
Pubblico Ministero non era riuscito a ricostruire, esattamente,
relativamente al denaro ed ai dossier titoli, quale fosse la situazione

accreditato sui c/c o i titoli erano stati acquistati: dal che conseguiva,
ovviamente, l’impossibilità di stabilire che quei beni sequestrati fossero
“sproporzionati” rispetto al patrimonio.
Il Pubblico Ministero, ha tentato di rimediare, ricorrendo al
metodo di cui si è detto (cd. della “congruità progressiva”) che, però, è
stato correttamente stigmatizzato dal Tribunale

(supra

in parte

narrativa, § 1), essendo basato su una sorta di bilancio pluriennale
nonché su astratte presunzioni prive di alcun riscontro: il che, di fatto,
si pone agli antitesi del principio di diritto delle SSUU.
La motivazione addotta dal tribunale, pertanto, non si presta ad
alcuna censura, tanto più ove si consideri che la motivazione, con il
ricorso per cassazione, può essere censurata solo sotto il profilo della
motivazione omessa o apparente.
Sul punto, infine, va anche osservato che il ricorrente, al di là di
insistere sulla correttezza del metodo da lui proposto, nulla ha obiettato
avverso la motivazione con la quale il Tribunale, in punto di fatto, come
si è detto, ha rilevato che era impossibile stabilire sia se gli accrediti
fossero o meno sproporzionati sia quali titoli fossero stati acquistati nel
periodo considerato.
E’ questo, al di là di ogni considerazione sul metodo seguito, il
punto centrale della motivazione dal quale non si può decampare in
quanto da esso si desume che, alla fin fine, il tribunale ha accolto il
ricorso del Fedele, perché la Pubblica accusa non era riuscita ad
assolvere l’onere probatorio su di essa gravante e cioè dare la prova
della sproporzione fra capacità reddituale del Fedele e la disponibilità, in
capo all’indagato, delle somme di denaro e dei titoli, in un determinato
periodo di tempo: tanto basta per ritenere, allo stato degli atti,
infondato il ricorso.

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patrimoniale del Fedele nel momento in cui il denaro era stato

P.Q.M.

RIGETTA

il ricorso.

Roma 17/06/2015

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